4

Mia madre era in piedi sugli scalini del portico, quando parcheggiai accanto al marciapiede. Agitava le braccia e gridava. Non potevo sentirla con il rombo del motore, ma riuscivo a leggere le parole sulle labbra. «Spegni il motore!» gridava. «Spegnilo!»

«Scusa», gridai di rimando. «La marmitta è rotta.»

«Devi fare qualcosa. Ti ho sentita arrivare quando eri a quattro isolati da qui. Farai venire le palpitazioni alla vecchia signora Ciak.» La mamma guardò l’auto. «L’hai fatta decorare?»

«È successo in Stark Street. Vandali.» La spinsi nell’anticamera prima che avesse il tempo di leggere le scritte.

«Che belle ginocchia!» commentò nonna Mazur chinandosi per guardare da vicino le mie ferite. «La settimana scorsa ho visto uno show alla televisione. Alcune donne avevano le ginocchia come le tue. Non sono riuscita a capire come si fossero procurate quelle bruciature.»

«Cristo!» borbottò mio padre da dietro il giornale. Non aveva bisogno di aggiungere altro, noi tutti capivamo.

«Non sono bruciature», spiegai a nonna Mazur. «Sono caduta dai pattini.» Non mi preoccupai d’aver raccontato una bugia: avevo alle spalle una serie impressionante di infortuni.

Sbirciai il tavolo in sala da pranzo. Era preparato con la tovaglia di pizzo. Abbiamo compagnia, conclusi. Contai i coperti. Cinque. Alzai gli occhi al cielo. «Mamma, non dovevi.»

«Che cosa?»

Suonò il campanello e i miei timori trovarono conferma.

«Abbiamo compagnia, ma non è un pranzo ufficiale», annunciò mia madre andando ad aprire. «Potrò invitare un ospite in casa mia, no?»

«È Bernie Kuntz», precisai. «Lo vedo dalla finestra del corridoio.»

Mia madre si fermò piantando le mani sui fianchi. «Che cosa ha che non va Bernie Kuntz?»

«Tanto per cominciare… è un uomo.»

«Okay, hai avuto una brutta esperienza. Ma questo non vuol dire che tu debba arrenderti. Guarda tua sorella Valerie. È felicemente sposata da dodici anni. E ha due bellissime bambine.»

«Proprio per questo. Io me ne vado dalla porta sul retro.»

«Torta di ananas», disse mia madre. «Dovrai rinunciare al dessert se te ne vai ora. E non credere che te ne metta da parte una fetta.»

Mia madre era pronta a ricorrere a qualsiasi mezzo, se pensava che ne valesse la pena. Sapeva che mi avrebbe inchiodata con la torta di ananas. Un Plum era disposto a sopportare di tutto, per un buon dessert.

Nonna Mazur sbirciò fuori dalla porta. «Chi è lei?»

«Sono Bernie Kuntz.»

«Che cosa vuole?»

Guardai verso la porta e vidi che Bernie si spostava di continuo sui piedi, evidentemente a disagio.

«Sono stato invitato a cena», spiegò lui.

Nonna Mazur non aveva ancora aperto la porta. «Helen!» gridò da sopra le spalle. «C’è qui un giovanotto che dice di essere invitato a cena. Perché nessuno me l’ha detto? Guarda che vestito indosso. Non posso intrattenere un signore con questo vecchio straccio.»

Conoscevo Bernie da quando aveva cinque anni. Ero andata alle elementari con lui. Pranzavamo insieme e pensando a lui mi veniva in mente il burro di arachidi e la gelatina di frutta sul pane. Avevo perso i contatti con il mio amichetto alla scuola superiore. Sapevo che aveva frequentato il college e che aveva cominciato a lavorare nel negozio di suo padre, che vendeva casalinghi.

Bernie era di statura media, di costituzione normale, forse un po’ grassoccio. Calzava lucidi mocassini con il fiocchetto, indossava pantaloni di buon taglio e una giacca sportiva. Per quello che vedevo, non era cambiato molto dai tempi della scuola. Sembrava che non fosse ancora capace di sommare le frazioni; il cursore di metallo della cerniera lampo gli sporgeva dalla patta dei pantaloni, tenendola leggermente sollevata.

Prendemmo posto a tavola e ci concentrammo sulla cena.

«Bernie vende elettrodomestici», fece mia madre passando il cavolo rosso. «Guadagna bene e possiede una Bonneville.»

«Una Bonneville, ma pensa!» osservò nonna Mazur.

Mio padre tenne la testa china sul pollo. Lui tifava per i Mets, indossava biancheria Fruit of the Loom e guidava una Buick. Era un uomo dai saldi princìpi, per nulla disposto a lasciarsi impressionare da un venditore di tostapane, arricchitosi improvvisamente, che guidava una Bonneville.

Bernie si rivolse a me. «E tu cosa fai, ora?»

Rigirai la forchetta. La mia giornata non era stata esattamente un successo e annunciare al mondo che ero una bounty hunter, mi sembrava presuntuoso. «Lavoro in una specie di compagnia d’assicurazioni», risposi.

«Sarebbe a dire che ti occupi di reclami?»

«Qualcosa di simile.»

«È una bounty hunter», strillò nonna Mazur. «Dà la caccia ai criminali, proprio come alla televisione. Ha una pistola e tutto il resto.» La nonna allungò il braccio dietro di lei, verso la credenza dove avevo lasciato la tracolla. «Ha un borsone pieno di tutto il suo armamentario», spiegò posando la borsa sulle ginocchia.

Tirò fuori le manette, il cercapersone, un pacco di assorbenti da viaggio e li posò sul tavolo. «Ecco la pistola», annunciò orgogliosa. «Non è una meraviglia?»

Devo ammettere che era una gran bella pistola. Era in acciaio inossidabile con l’impugnatura di legno. Una Smith Wesson 5 colpi, modello 38 Special. Facile da usare e da portare, aveva assicurato Ranger. E costava meno di una semiautomatica, se si considerava ragionevole la somma di quattrocento dollari.

«Mio Dio!» strillò mia madre. «Mettila via. Qualcuno le prenda la pistola prima che si ammazzi.»

Il tamburo era aperto, si vedeva che non era carica. Non ero molto esperta di pistole, ma sapevo che un’arma non può sparare senza proiettili. «È scarica», affermai. «Non ci sono i proiettili.»

Nonna Mazur stringeva l’arma con entrambe le mani, con il dito sul grilletto. Socchiuse gli occhi e mirò all’armadietto delle porcellane. «Bang! bang! bang!» disse.

Mio padre ci ignorava tutti quanti, occupato com’era con il sugo di salsicce.

«Non mi piacciono le armi a tavola», dichiarò mia madre. «E la cena si raffredda. Dovrò riscaldare il sugo.»

«Questa pistola è del tutto inutile, senza munizioni», mi ricordò nonna Mazur. «Come farai ad acciuffare gli assassini con una pistola senza proiettili?»

Bernie era rimasto seduto a bocca aperta per tutta la scena. «Assassini?» ripeté.

«Sta dando la caccia a Joe Morelli», lo informò la nonna. «Lui è un furfante e non ha pagato la cauzione. Ha ammazzato Ziggy Kulesza sparandogli alla testa.»

«Conoscevo Ziggy Kulesza», disse Bernie. «Gli ho venduto un televisore con uno schermo enorme circa un anno fa. Non vendiamo molti di quei televisori, sono troppo cari.»

«Ha comperato altro da te?» domandai. «Di recente?»

«No. Ma qualche volta l’ho visto al Sal’s Butcher Shop, sull’altro lato della strada. Ziggy sembrava a posto, una persona normale.»

Nessuno aveva prestato attenzione a nonna Mazur. Giocava ancora con la pistola, fingendo di prendere la mira. Mi ricordai che nella borsa c’era anche una scatola di munizioni, accanto agli assorbenti. Un lampo di terrore si insinuò nella mia mente. «Nonna, non avrai caricato la pistola…»

«Certo che l’ho caricata. E non ho inserito il colpo in canna, come ho visto fare alla televisione. Così non si può sparare per sbaglio.» Nonna Mazur armò la pistola per mostrarmi quanto era stata brava. Seguì un colpo assordante, una vampata uscì dalla canna e il pollo sobbalzò nel piatto di portata.

«Madre di Dio!» urlò la mamma balzando in piedi e rovesciando la sedia.

«Cribbio!» fece nonna Mazur. «Devo aver sbagliato.» Si chinò per esaminare l’arma. «Mica male per la prima volta che maneggio una pistola. Ho sparato a quel pollastro proprio nel groppone.»

Mio padre stringeva la forchetta nella mano, la sua faccia era rossa come un gambero.

Girai attorno al tavolo e con prudenza presi la pistola dalle mani di nonna Mazur. Estrassi i proiettili e rimisi il tutto nella borsa.

«Guarda hai rotto il piatto», frignò mia madre. «Faceva parte del servizio buono. Non riuscirò a sostituirlo.» Spostò il piatto e tutti noi fissammo in silenzio il foro nella tovaglia e il proiettile conficcato nel tavolo di mogano.

Nonna Mazur fu la prima a parlare. «La sparatoria mi ha messo appetito», dichiarò. «Qualcuno mi passi le patate.»


Tutto sommato, Bernie Kuntz se l’era cavata abbastanza bene, durante la serata. Non aveva fatto pipì nei pantaloni quando nonna Mazur aveva sparato al pollo, aveva divorato senza battere ciglio due porzioni dei temuti cavoletti di Bruxelles preparati da mia madre. Si era mostrato passabilmente gentile con me, anche se appariva chiaro che noi due non eravamo destinati a dividere un letto e che la mia era una famiglia di matti. Si era mostrato affabile a ragione, dopo tutto ero una donna che aveva bisogno di elettrodomestici. Le smancerie gli avrebbero fatto perdere qualche oretta di sera, ma le provvigioni che avrebbe incassato sugli ordini gli avrebbero fatto guadagnare una vacanza alle Hawaii. Il nostro era un incontro voluto dal cielo: lui voleva vendere, io volevo comprare e non disdegnavo certo la sua offerta di uno sconto del dieci per cento. Inoltre avevo saputo qualcosa sul conto di Ziggy Kulesza: acquistava la carne dal Sal Bocha, un tale che era più conosciuto come allibratore che come macellaio.

Accantonai l’informazione per servirmene in futuro. Ora sembrava insignificante, ma chissà che non potesse rivelarsi utile.

Ero al tavolo della mia cucina con un bicchiere di tè freddo e il dossier su Morelli. Cercavo di mettere insieme un piano d’azione. Avevo preparato una ciotola di popcorn per Rex; il criceto aveva le guance gonfie di cibo, gli occhi lucidi.

«Allora, Rex, che ne pensi? Credi che riusciremo ad acciuffare Morelli?» dissi.

Qualcuno bussò alla porta e sia io che Rex restammo perfettamente immobili con le antenne radar in funzione. Non aspettavo nessuno. I miei vicini erano quasi tutti persone anziane e io non avevo amici fra loro. Comunque, i miei vicini non avrebbero mai bussato alla mia porta alle nove e mezzo di sera. Forse la signora Becker del terzo piano, se aveva sbagliato porta.

Continuarono a bussare, io e Rex voltammo la testa verso l’uscio. Era una solida porta di metallo, con uno spioncino, un chiavistello e una doppia catena. Quando il tempo era buono, lasciavo spalancate le finestre notte e giorno, ma tenevo sempre la porta chiusa. Neppure Annibale con i suoi elefanti sarebbe riuscito a passare dalla mia porta, ma le finestre costituivano una pacchia per qualsiasi idiota in grado di salire su una scala di sicurezza.

Coprii la ciotola di popcorn con un tegame perché Rex non potesse venir fuori dalla sua gabbia e andai a dare un’occhiata. Avevo la mano sulla maniglia, quando i colpi cessarono. Guardai attraverso lo spioncino e vidi soltanto buio. Qualcuno vi teneva appoggiato un dito. Non era un buon segno. «Chi è?» domandai.

Una risata sommessa dietro la porta. Balzai indietro. La risata fu seguita da una sola parola. «Stephanie.»

Era una voce assolutamente inconfondibile, melodiosa e beffarda. Ramirez.

«Sono venuto a giocare con te, Stephanie», canticchiò lui. «Sei pronta?»

Mi si piegarono le ginocchia, avevo un vuoto allo stomaco. «Vattene o chiamo la polizia.»

«Non puoi chiamare nessuno. Il tuo telefono non funziona, lo so perché ho provato a comporre il numero.»

I miei genitori non hanno mai capito il mio desiderio d’indipendenza. Sono convinti che la mia vita sia segnata dall’angoscia e dalla solitudine; persuaderli del contrario è fiato sprecato. In realtà non sono quasi mai angosciata. A volte, mi capita a causa di uno di quegli orribili insetti con un’infinità di zampette. Secondo me, il solo ragno buono è quello morto; i diritti delle donne non valgono un accidente se poi non possono chiedere a un uomo di schiacciare scarafaggi al posto loro. Non mi preoccupo che gli skinhead possano buttarmi giù la porta a calci o che riescano a entrare in casa dalla finestra. In genere preferiscono prendere di mira i quartieri più vicini alla stazione. Le rapine e i saccheggi di auto sono rari dalle mie parti e quasi mai si concludono con un omicidio.

Finora, i soli momenti critici che avevo vissuto erano legati al fatto — non molto frequente in verità — che mi svegliavo nel cuore della notte terrorizzata da un’improbabile invasione di… fantasmi, orchi, vampiri, extraterrestri. In preda alla mia sfrenata fantasia, rimanevo a letto respirando a malapena e aspettando di levitare. Devo ammetterlo, forse mi avrebbe giovato un po’ di compagnia nell’attesa, ma quale altro essere umano, fatta eccezione per Bill Murray, mi sarebbe stato d’aiuto nel caso di un attacco di spettri? Fortunatamente non sono mai stata vittima di una rotazione del collo a centottanta gradi, né sono mai stata disintegrata dai marziani, né ho mai ricevuto l’onore di un’apparizione di Elvis. L’unica volta che mi ero avvicinata a un’esperienza extracorporea era stato quando Joe Morelli aveva posato su di me le sue labbra, quattordici anni prima, dietro la vetrina dei bignè.

La voce di Ramirez mi giunse attraverso la porta. «Non mi va di lasciare le cose a metà con una donna, Stephanie Plum. Non mi piace che una donna scappi via dal campione.»

Lui afferrò la maniglia della porta e per un attimo mi balzò il cuore in gola. La porta resistette e il mio polso tornò normale.

Respirai profondamente e decisi che la cosa migliore era ignorarlo. Non volevo mettermi a gridare con lui e non mi pareva una buona mossa quella di peggiorare le cose. Subito chiusi e bloccai le finestre del soggiorno, tirai le tende. Corsi in camera da letto e mi domandai se non dovessi usare la scala di sicurezza per andare a chiedere aiuto. In un certo senso era ridicolo dare maggior peso alla minaccia. Non è una faccenda grave, mi dissi. Niente di cui preoccuparsi. Roteai gli occhi. Non c’era da avere paura… di un pazzo criminale che pesava cento chilogrammi e che stava davanti alla mia porta, insultandomi.

Mi portai la mano alla bocca per soffocare un gemito isterico. Niente panico, mi ordinai. Prima o poi i miei vicini avrebbero cominciato a diventare curiosi e Ramirez sarebbe stato costretto ad andarsene.

Tirai fuori la pistola dalla borsa e tornai alla porta per dare un’altra occhiata. Lo spioncino era scoperto e il corridoio sembrava deserto. Appoggiai l’orecchio all’uscio e ascoltai. Niente. Feci scorrere il chiavistello e socchiusi la porta, senza sganciare la grossa catena, impugnai la pistola. Ramirez non si vedeva. Staccai la catena e diedi un’occhiata nel corridoio. Tutto tranquillo. Lui se n’era andato.

Mi cadde l’occhio su una chiazza di sostanza viscida che scivolava sulla porta. Ero sicura che non si trattava di tapioca. Trattenni un’imprecazione, mi affrettai a chiudere, tirai il chiavistello e agganciai la catena. Magnifico. Ero al lavoro da due giorni e uno psicopatico si era appena masturbato davanti alla mia porta.

Cose del genere non mi erano mai capitate quando lavoravo per E.E. Martin. Una volta un barbone mi aveva orinato sui piedi e di tanto in tanto qualcuno s’era calato i pantaloni alla stazione, ma c’era da aspettarselo se uno lavorava a Newark. Avevo imparato a non considerare certe cose come un affronto personale. Questa storia con Ramirez era un’altra faccenda. Mi metteva addosso una gran fifa.

Sobbalzai quando una finestra si aprì e si richiuse sopra di me. La signora Delgado faceva uscire il suo gatto per la notte, mi dissi. Controllati. Dovevo togliermi Ramirez dalla mente, perciò mi misi a cercare qualche oggetto da dare in pegno. Non era rimasto molto. Un walkman, un ferro da stiro, gli orecchini di perle del matrimonio, un orologio da cucina a forma di galletto, un poster incorniciato di Ansel Adam, due lampade da tavolo. Speravo che bastasse per pagare la bolletta del telefono e farmelo ricollegare. Non volevo trovarmi di nuovo intrappolata in casa senza la possibilità di chiedere aiuto.

Sistemai Rex nella sua gabbia, mi lavai i denti e infilai la camicia da notte. Andai a letto con tutte le luci accese.


La prima cosa che feci, svegliandomi la mattina dopo, fu controllare lo spioncino. Non avendo notato niente d’insolito, feci la doccia e mi vestii. Rex dormiva profondamente dopo una notte movimentata. Cambiai l’acqua della sua vaschetta e gli riempii la ciotola di quelle maledette noccioline. Mi sarebbe piaciuto bere una buona tazza di caffè, ma purtroppo non ne avevo in casa.

Andai alla finestra del soggiorno e sbirciai fuori nel parcheggio per vedere se ci fosse Ramirez, poi tornai a controllare lo spioncino. Feci scorrere il chiavistello tenendo la catena agganciata, cacciai fuori il naso dalla fessura e annusai. Non fiutai la presenza di pugili, perciò aprii completamente la porta. In mano stringevo la pistola. Il corridoio era vuoto. Chiusi a chiave la porta e mi avviai. L’ascensore si fermò al piano, con un sobbalzo, la porta si aprì e per poco non sparai alla vecchia signora Moyer. Chiesi scusa, spiegai che la pistola era un giocattolo e con aria furtiva scesi le scale per portare il primo carico di paccottiglia alla mia auto.

Quando Emilio aprì il banco dei pegni, ero in crisi d’astinenza da caffeina. Tirai sul prezzo degli orecchini, ma lo feci senza eccessiva fermezza e alla fine capii di essere stata imbrogliata. Non che m’importasse più di tanto. Avevo quello che mi occorreva, il denaro per un’arma non letale e per il telefono. Mi restava quanto bastava per concedermi un buon caffè e una tartina ai mirtilli.

Impiegai cinque minuti per deliziarmi della mia colazione, poi mi diressi agli uffici della compagnia dei telefoni. A un semaforo, qualcuno da un furgone fischiò forte. Dai gesti delle mani, immaginai che i due sul camioncino fossero entusiasti dei graffiti sulla mia auto. Non sentivo quello che dicevano per via del rumore assordante del motore. Meno male.

Notai una nebbia attorno a me e compresi che la macchina fumava. Non era la solita nuvoletta bianca di condensa che si forma con il freddo, questo era fumo denso e nero, che in assenza del tubo di scappamento usciva da sotto il sedere. Mollai un pugno sul cruscotto per vedere se gli indicatori funzionassero e si accese la spia rossa dell’olio. Mi fermai a una stazione di servizio all’angolo, comperai una lattina di lubrificante, la vuotai nella macchina e controllai l’astina dell’olio. Era ancora basso, perciò aggiunsi una seconda lattina.

Prossima fermata, la compagnia dei telefoni. Pagare la bolletta e chiedere che mi riallacciassero l’apparecchio fu piuttosto complicato, quasi come ottenere una green card. Alla fine spiegai che la mia vecchia nonna cieca viveva con me, che soffriva di frequenti attacchi cardiaci e che avere il telefono era questione di vita o di morte. Non credo che la donna dietro lo sportello mi credesse, ma dopo un po’ mi promise che qualcuno avrebbe provveduto a riallacciare l’apparecchio in giornata. Bel colpo. Se Ramirez fosse tornato, avrei chiamato la polizia. Inoltre intendevo acquistare una bomboletta spray da difesa. Non ci sapevo fare con la pistola, ma potevo cavarmela con una bomboletta.

Quando raggiunsi il negozio d’armaiolo, la spia dell’olio aveva ripreso a lampeggiare. Non si vedeva più fumo, perciò conclusi che l’indicatore si era bloccato. E chi se ne frega, pensai. Non avevo nessuna intenzione di spendere altri soldi per l’olio. Per ora la macchina doveva arrangiarsi; appena incassati i diecimila dollari del premio, le avrei comperato tutto l’olio che voleva… e poi l’avrei scaraventata giù da un ponte.

Avevo sempre immaginato che i proprietari dei negozi d’armi fossero tutti grandi e grossi, con berretti da baseball che reclamizzavano ditte di motociclette. Nella mia fantasia credevo che si chiamassero Bubba e Billy Bob. Invece, quel negozio era gestito da una donna che si chiamava Sunny. Era un tipo sulla quarantina con la pelle abbronzata, della tinta di un sigaro di qualità, i capelli crespi tinti color giallo canarino e una voce da fumatrice accanita. Portava orecchini di Strass, jeans attillati e aveva piccole palme dipinte sulle unghie.

«Bel lavoro», osservai, guardando le unghie.

«Opera di Maura, all’Hair Palace. È un genio per le unghie, fa delle cerette fantastiche, ti depila come una palla da bigliardo.»

«Me lo ricorderò.»

«Basta che chieda di Maura. Le dica che la manda Sunny. Che cosa posso fare per lei? È già rimasta senza munizioni?»

«Mi serve uno spray per autodifesa.»

«Che tipo usa?»

«Ce ne sono di vari generi?»

«Santo cielo, sì. Abbiamo una linea completa di spray.» La donna allungò la mano verso lo scatolone vicino a lei e tirò fuori parecchi pacchetti avvolti nel cellofane. «Questo è il Mace originale. Poi abbiamo il Pappergard, con lo spray ecologico, usata attualmente da molti dipartimenti di polizia. E infine il Sure Guard, un’autentica arma chimica. È capace di abbattere un uomo di cento chili in sei secondi. Agisce sul sistema nervoso. Basta che venga a contatto con la pelle e la persona colpita è KO. Non importa se è ubriaca o drogata. Uno spruzzo ed è finita.»

«Sembra pericoloso.»

«Può giurarci.»

«È letale? Lascia danni permanenti?»

«L’unico danno permanente per la vittima sarà il ricordo di un’esperienza umiliante. Naturalmente all’inizio si verificherà un principio di paralisi ma, spariti gli effetti, resterà vomito e un atroce mal di testa.»

«Non saprei. E se malauguratamente me lo spruzzo addosso?»

La donna fece una smorfia. «Cara, deve evitare di spruzzarsi.»

«Mi pare un po’ complicato.»

«Niente affatto. È semplice come premere un tasto. E poi lei è una professionista, ormai.» La donna mi diede un colpetto sulla mano. «Prenda il Sure Guard. Non se ne pentirà.»

Non mi sentivo una professionista, mi sentivo una perfetta idiota. Avevo sempre criticato i governi che usavano le armi chimiche, ed eccomi lì a comperare gas nervino da una donna che si faceva la ceretta ai peli del pube.

«Il Sure Guard si vende in diverse confezioni», riprese Sunny. «Io adopero il modello da diciassette grammi. Ha il suo anello di acciaio inossidabile, una bella custodia di pelle in tre colori, a scelta.»

«Accidenti!» fu il mio commento.

«Lo provi fuori all’aperto», suggerì Sunny. «Si assicuri di saperlo usare.»

Uscii dal negozio, tesi il braccio e spruzzai. Il vento cambiò, mi precipitai dentro sbattendo la porta.

«Il vento è infido», spiegò la donna. «Le conviene uscire dal retro, attraverso il poligono di tiro.»

Seguii il suo consiglio e quando raggiunsi la strada, corsi alla mia auto e balzai al volante temendo che qualche goccia di Sure Guard fosse rimasta nell’aria. Infilai la chiave dell’accensione e cercai di non farmi prendere dal panico al pensiero di portarmi tra le ginocchia una bomba a gas. Il motore si accese, la luce dell’indicatore dell’olio riprese a lampeggiare. All’inferno, pensai. Mettiti in coda. Sulla lista dei miei problemi da risolvere, l’olio non figurava neppure tra i primi dieci.

Mi tuffai nel traffico, rifiutandomi di controllare dallo specchietto se dal tubo di scappamento uscissero nuvole di fumo. Carmen abitava parecchi isolati a est di Stark Street. Non era un quartiere elegante, ma neppure il peggiore. L’edificio era di mattoni gialli e aveva bisogno di una buona ripulita. Quattro piani, senza ascensore. Il piccolo atrio al pianterreno era pavimentato con piastrelle scheggiate, l’appartamento era situato al secondo piano. Sudavo, quando raggiunsi la porta. Il nastro giallo che delimitava la scena del delitto era stato rimosso, ma c’era un lucchetto. Sul secondo piano si aprivano altri due appartamenti. Bussai a ciascuna porta. Nel primo non c’era nessuno in casa. La porta del secondo fu aperta da una donna ispanica, la signora Santiago, sui quarantotto, cinquant’anni. Reggeva un bambino sul fianco. Aveva i capelli neri pettinati all’indietro, la faccia rotonda. Indossava una vestaglia di cotone blu e calzava pantofole di spugna. All’interno dell’appartamento il ronzio monotono di un televisore. Vedevo due piccole teste profilate contro lo schermo. Mi presentai e diedi alla donna il mio biglietto da visita.

«Non so che altro dire», si scusò la signora Santiago. «Questa Carmen ha abitato qui solo per breve tempo. Nessuno la conosceva. Era un tipo tranquillo, se ne stava per conto suo.»

«L’ha più vista dopo la sparatoria?»

«No.»

«Sa dove possa trovarsi. Da amici, parenti?»

«Non la conoscevo, come gli altri inquilini, del resto. Mi hanno detto che lavorava in un bar… lo Step-in, sulla Stark Street. Forse là qualcuno la conosceva.»

«Lei era in casa, la sera della sparatoria?»

«Sì. Era tardi e Carmen teneva altissimo il volume del televisore. Non l’avevo mai sentito così alto. Poi qualcuno ha bussato alla sua porta. Un uomo. Si è saputo che era un poliziotto. Immagino che picchiasse così forte all’uscio perché nessuno poteva sentirlo per via della televisione. E poi c’è stato uno sparo. È stato allora che ho chiamato la polizia. Quando sono tornata vicino alla porta, c’era una gran confusione nel corridoio, perciò ho guardato fuori.»

«E poi?»

«Ho visto John Kuzack e altri inquilini dello stabile. Qui siamo tutti solidali fra noi, non come certe persone che fingono di non vedere mai niente. Ecco perché nel palazzo non circola la droga e non abbiamo grane. John stava in piedi vicino al poliziotto, quando ho guardato fuori. Lui non sapeva che era un agente, aveva visto qualcuno colpito a morte sulla porta di Carmen, e quest’altro uomo aveva una pistola, perciò è intervenuto con decisione.»

«E dopo che cosa è successo?»

«Un gran trambusto, c’era tanta gente nel corridoio.»

«C’era anche Carmen?»

«Non l’ho vista, con tante persone. Tutti volevano sapere che cosa era successo, capisce? Alcuni inquilini cercavano di soccorrere la vittima, ma inutilmente. Lui era morto.»

«Pare che ci fossero due uomini nell’appartamento di Carmen. Ha visto il secondo?»

«Mi pare di sì. Era un tale che non conoscevo, mai visto prima. Magro, capelli neri, carnagione scura, sui trent’anni. Una faccia strana. Come se fosse stata appiattita con un tegame, con il naso schiacciato. Ecco perché l’ho notato.»

«Che cosa gli è capitato?»

La donna si strinse nelle spalle. «Non lo so. È sparito, come Carmen.»

«Forse dovrei parlare con John Kuzack», azzardai.

«Appartamento 4B. Dovrebbe essere in casa.»

Ringraziai la donna e salii altre due rampe di scale, chiedendomi chi poteva essere l’uomo capace di disarmare Morelli. Bussai e aspettai. Poi tornai a bussare abbastanza energicamente da sbucciarmi le nocche. La porta si spalancò e la domanda che mi ero posta poco prima trovò risposta. John Kuzack era un omone, alto quasi due metri, aveva i capelli ingrigiti raccolti in una coda di cavallo e un serpente a sonagli tatuato sulla fronte. Teneva una guida TV in una mano e una lattina di birra nell’altra. Dall’appartamento avvolto in una specie di nebbiolina usciva un odore dolciastro. Veterano del Vietnam, pensai. Aviotrasportato.

«John Kuzack?»

Lui mi guadò con gli occhi socchiusi. «Desidera?»

«Sto cercando di rintracciare Joe Morelli. Speravo che lei potesse dirmi qualcosa di Carmen Sanchez.»

«È un’agente?»

«Lavoro per Vincent Plum. Ha pagato la cauzione per Joe Morelli.»

«Non conoscevo bene Carmen Sanchez», rispose Kuzack. «La vedevo qui intorno, l’ho salutata un paio di volte. Sembrava una persona perbene. Stavo salendo le scale quando ho sentito la sparatoria.»

«La signora Santiago, al secondo piano, ha detto che lei ha bloccato il pistolero.»

«Già. Non sapevo che era un poliziotto, sapevo solo che aveva sparato a qualcuno ed era ancora armato. C’era un sacco di gente che si stava riversando nel corridoio e lui ordinava a tutti di stare lontano. Ho capito che era una situazione difficile, così l’ho colpito con una confezione da sei lattine di birra. Lui è crollato, svenuto.»

«Davvero?» dissi, quasi scoppiando in una sonora risata. Il rapporto della polizia aveva stabilito che Morelli era stato colpito con un corpo contundente. Non si parlava di lattine di birra. «Un bel coraggio.»

Kuzack sorrise. «Diavolo, il coraggio non c’entra. Ero sbronzo.»

«Sa che fine ha fatto Carmen?»

«No. Immagino che sia sparita nella confusione.»

«Da allora non l’ha più vista?»

«No.»

«Sa qualcosa del testimone scomparso? La signora Santiago dice di aver visto un uomo con il naso schiacciato.»

«Ricordo di averlo visto, ma è tutto.»

«Lo riconoscerebbe, se dovesse rivederlo?»

«Probabile.»

«Crede ci sia qualcun altro nello stabile che potrebbe saperne di più?»

«Edleman è stato l’unico che l’ha visto bene.»

«Edleman è un inquilino?»

«Era un inquilino. È stato investito da un’auto la settimana scorsa. Proprio di fronte all’edificio. Un ‘mordi e fuggi’.»

Sentii una stretta nervosa allo stomaco. «Crede che la morte di Edleman si ricolleghi all’omicidio Kulesza?»

«Non c’è modo di scoprirlo.»

Ringraziai Kuzack per la sua disponibilità e scesi lentamente le scale gustandomi l’aroma del suo spinello.

Era quasi mezzogiorno e cominciava a far caldo. Quel mattino ero uscita con un tailleur e scarpe con il tacco alto per apparire rispettabile e ispirare fiducia. Avevo lasciato i finestrini abbassati, quando avevo parcheggiato davanti alla casa di Carmen, con una mezza speranza che mi rubassero la macchina. Non ci aveva pensato nessuno, perciò mi misi al volante e finii i Fig Newtons che avevo preso dalla dispensa di mia madre. Non avevo scoperto granché dai vicini di Carmen, ma se non altro non ero stata aggredita né ero volata giù per una rampa di scale.

L’appartamento di Morelli figurava al secondo posto sulla mia lista.

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