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Ci sono degli uomini che entrano nella vita di una donna e la incasinano per sempre. Joseph Morelli ha sconvolto la mia vita… ma non per sempre, solo in certi periodi.

Morelli e io siamo entrambi nati e cresciuti in un quartiere operaio di Trenton che la gente conosceva come «la cittadella». Case strette, addossate le une alle altre, cortili angusti e auto americane. Gli abitanti erano per lo più di origine italiana, ma anche ungheresi e tedeschi erano abbastanza numerosi e questo favoriva i matrimoni misti. Era un buon posto per comprare un calzone o giocare d’azzardo. Se proprio eri, in ogni modo, costretto a vivere a Trenton, questo era un posto okay per mettere su famiglia.

Da bambina di solito non giocavo con Joseph Morelli. Lui abitava a due isolati di distanza e aveva due anni più di me. «Sta’ lontana dai ragazzi Morelli», mi ammoniva sempre mia madre. «Sono dei selvaggi. Ne ho sentite di cotte e di crude su quello che fanno alle ragazzine quando le trovano da sole.»

«Quali cose?» avevo chiesto curiosa.

«Non occorre che tu lo sappia», aveva tagliato corto mia madre. «Cose terribili.»

Da allora, avevo guardato Joseph Morelli con un misto di terrore e di pruriginoso interesse: nutrivo per lui una sorta di timore reverenziale. Avevo sei anni quando, con le gambe tremanti e lo stomaco contratto, seguii Morelli nel garage di suo padre, allettata dalla promessa che mi avrebbe insegnato un nuovo gioco.

Il garage dei Morelli sorgeva seminascosto, isolato e abbandonato ai margini del loro terreno. Offriva uno spettacolo desolante, illuminato com’era solo dalla luce che filtrava da una finestra incrostata di sudiciume. L’aria all’interno era stagnante e sapeva di muffa, puzzava di vecchi copertoni e di lubrificante usato. Non essendo destinato ad accogliere le auto dei Morelli, veniva utilizzato per altri scopi. Il vecchio Morelli se ne serviva per prendere i figli a cinghiate, e i figli per le loro scazzottate. Joseph Morelli ci portò la sottoscritta, Stephanie Plum. Per giocare al treno.

«Come si chiama questo gioco?» avevo chiesto a Joseph Morelli.

«Si chiama tuuu-tuuu», aveva risposto lui mettendosi carponi per strisciare fra le mie gambe, con la testa sotto la mia gonna rosa. «Tu sei la galleria, io il treno.»

Questo vi aiuterà a comprendere la mia personalità: non sono particolarmente brava a seguire i buoni consigli, o forse sono troppo curiosa. Magari è qualcosa che ha a che vedere con il mio carattere ribelle, con la noia, il destino, chissà. A ogni modo, si trattò di un’esperienza occasionale e per di più maledettamente deludente: mi aveva permesso di fare la galleria, mentre in realtà avrei voluto fare il treno.

Dieci anni dopo, Joe Morelli abitava ancora a distanza di due isolati. Era cresciuto grande, grosso e cattivo; una luce sinistra gli brillava negli occhi, che però, un minuto dopo, si scioglievano in uno sguardo tenero come un cioccolatino. Aveva un’aquila tatuata sul petto, il sedere sodo, i fianchi stretti e un’andatura da bullo. Si era fatto la fama d’essere lesto di mano e di possedere dita esperte.

La mia migliore amica, Mary Lou Molnar, mi aveva riferito di aver sentito dire che Morelli aveva una lingua come quella di una lucertola.

«Santo cielo!» era stato il mio commento. «Che cosa vorrebbe dire?»

«Non permettergli di avvicinarti quando sei sola, o lo scoprirai da te. Se ti abborda quando sei da sola… sei sistemata.»

Non avevo avuto modo di vedere spesso Morelli dall’episodio del treno. Immaginavo che avesse arricchito il suo repertorio di prodezze sessuali. Spalancai gli occhi e mi chinai verso Mary Lou, augurandomi il peggio. «Non starai parlando di stupro, eh?»

«Sto parlando di libidine. Se lui ti vuole, non hai scampo. Non gli si può resistere.»

A parte il fatto di essere palpata all’età di sei anni da chi sapete, ero illibata. Mi conservavo per il matrimonio, o almeno per il college. «Sono vergine», dissi, come se fosse una novità. «Sono sicura che non si mette con le vergini.»

«Sono la sua specialità. Il tocco vellutato delle sue dita fa sciogliere le vergini.»

Due settimane più tardi, Joe Morelli entrò da Tasty Pastry, la pasticceria dove lavoravo ogni giorno dopo la scuola, la Tasty Pastry a Hamilton. Comprò un cannolo al cioccolato, mi disse di essersi arruolato in marina e mi sfilò le mutandine come per magia quattro minuti dopo la chiusura, sul pavimento della pasticceria, dietro la vetrina dei bignè al cioccolato.

Lo rividi soltanto tre anni dopo. Mi dirigevo verso il centro commerciale a bordo della Buick di mio padre, quando notai Morelli in piedi davanti al Giovichinni’s Meat Market. Pigiai sull’acceleratore, saltai il marciapiede e lo investii da dietro, facendolo rimbalzare contro il paraurti anteriore destro. Fermai la macchina e scesi per constatare i danni. «Qualcosa di rotto?»

Lui era a gambe all’aria sul marciapiede e guardava in su verso la mia gonna. «La gamba.»

«Bene», approvai soddisfatta. Poi girai sui tacchi, risalii sulla Buick e proseguii per la mia strada.

Attribuisco l’incidente a un momento di pazzia, e a mia difesa tengo a precisare che da allora non ho più investito nessuno.

Durante i mesi invernali il vento spazzava Hamilton Avenue, gemeva davanti alle vetrine sbattendo i rifiuti contro i marciapiedi e le facciate dei negozi. Durante i mesi estivi, l’aria era immobile e opprimente, carica di umidità e satura di idrocarburi. La grande calura faceva luccicare il cemento arroventato e scioglieva l’asfalto delle strade. Le cicale frinivano, i cassonetti esalavano un tanfo pestilenziale, una bassa caligine incombeva sui campi di softball in tutto lo stato. Credo che tutto questo facesse parte della grande avventura di vivere nel New Jersey.

Quel pomeriggio, avevo deciso d’infischiarmene dell’aumento estivo del tasso di ozono, che mi prendeva alla gola, e di andarmene in giro sulla mia Mazda Miata con la capote abbassata. Il climatizzatore funzionava al massimo, cantavo con Paul Simon. I miei capelli castani lunghi fino alle spalle, scompigliati e arruffati, mi sferzavano il viso freneticamente; i miei occhi azzurri, sempre vigili, erano nascosti dietro un paio di Oakley e il mio piede era incollato sull’acceleratore.

Era domenica e avevo un appuntamento con un delizioso arrosto a casa dei miei genitori. Mi fermai a un semaforo e guardai nello specchietto retrovisore, imprecando fra i denti quando vidi Lenny Gruber su una Sedan rossiccia, due auto dietro la mia. Abbassai la testa sul volante. «Maledizione.» Ero indietro con i pagamenti della Miata e Gruber lavorava per una compagnia specializzata nel recupero crediti.

Sei mesi prima, quando avevo comperato la macchina, me la passavo bene, con un bell’appartamento e l’abbonamento alle partite dei Rangers. E poi bam! Mi ero ritrovata senza un soldo e senza carta di credito.

Tornai a guardare nello specchietto e tirai il freno a mano. Lenny era come il fumo: se cercavi di afferrarlo, svaniva: perciò non volevo perdere quest’ultima occasione per patteggiare. Scesi dalla macchina, mi scusai con l’uomo intrappolato fra le nostre auto e mi diressi verso Gruber.

«Stephanie Plum», disse Gruber giulivo, fingendosi sorpreso. «Che piacere.»

Posai le mani sul tetto della vettura e lo guardai attraverso il finestrino abbassato. «Lenny, sto andando a cena dai miei genitori. Non vorrai riprenderti l’auto mentre sono da loro, vero? Sarebbe veramente meschino da parte tua.»

«Io sono un tipo meschino, Steph. Ecco perché faccio questo bel lavoro. Sono capace di tutto, o quasi.»

Il semaforo scattò e l’uomo alla guida dell’auto dietro Gruber si attaccò al clacson.

«Potremmo fare un patto», proposi a Gruber.

«Con te nuda?»

Ebbi la visione della mia mano che gli afferrava il naso e lo torceva. Fino a farlo strillare come un maiale. Il problema era che avrei dovuto toccarlo. Meglio continuare con le buone maniere. «Lasciami la macchina per stasera, te la riporto domattina.»

«Niente da fare», ribatté Gruber. «Sei troppo furba. Sono cinque giorni che do la caccia alla tua macchina.»

«Uno in più non fa differenza.»

«Mi aspettavo un po’ di riconoscenza. Capisci che cosa voglio dire?»

Mi morsi la lingua. «Scordatelo. Prenditi l’auto. Anzi, portala via subito. Io proseguirò a piedi.»

Lo sguardo di Gruber non si staccava dal mio petto. Porto la terza, una misura non trascurabile ma tutt’altro che imponente rispetto alla mia statura di un metro e settanta. Indossavo un paio di shorts neri da ciclista e una maglia sportiva di un paio di taglie più della mia. Non era certamente un abbigliamento seducente, ma Lenny sbirciava lo stesso.

Il suo sorriso si allargò al punto di mostrare che gli mancava un molare. «Potrei aspettare fino a domani. Dopo tutto siamo andati a scuola insieme.»

«Uh, uh», fu tutto ciò che riuscii a dire.

Dopo cinque minuti svoltavo dalla Hamilton nella Roosevelt. A due isolati di distanza dall’abitazione dei miei genitori, mi sentivo come risucchiata dai miei doveri familiari, che mi trascinavano inesorabilmente nel cuore della cittadella. La nostra era una comunità dove i legami con la famiglia erano ancora saldi. Là c’erano sicurezza, affetto, stabilità e il conforto dei rituali domestici.

L’orologio sul cruscotto mi avvertiva che ero in ritardo di sette minuti; l’impulso incontrollabile di gridare mi diceva che ero arrivata a casa.

Parcheggiai lungo il marciapiede e diedi un’occhiata alla villetta bifamiliare a due piani, al portico sul davanti, alla tettoia in alluminio. La metà abitata dai Plum era gialla, ormai da quarant’anni, con il tetto scuro. Cespugli di viburno fiancheggiavano i gradini di accesso all’entrata e vasi di gerani rossi erano stati disposti a distanza regolare per tutta la lunghezza del portico. Era un’abitazione assai tradizionale, con il soggiorno sul davanti, la sala da pranzo nel mezzo e la cucina sul retro. Al piano superiore tre camere da letto e il bagno. Era una casetta linda e accogliente, stipata di mobili e impregnata dei tipici aromi della cucina.

Nell’altra metà della casa abitava la signora Markowitz, che viveva con la pensione sociale e che, non potendo permettersi grandi spese, aveva dipinto la sua facciata di verde pallido.

Mia madre mi aspettava sulla soglia. «Stephanie», chiamò. «Che cosa fai seduta in macchina? Sei in ritardo, sai che tuo padre detesta cenare in ritardo. Le patate si freddano, l’arrosto si asciuga troppo.»

Il cibo era importante nella cittadella. La Luna ruota attorno alla Terra, la Terra attorno al Sole e il quartiere ruota attorno all’arrosto. Per quanto riesco a ricordare, la vita dei miei genitori è sempre stata regolata da un pezzo di girello arrostito, servito alle sei in punto.

Nonna Mazur stava in piedi, due passi dietro mia madre. «Devo comperarmi un paio di quelli», dichiarò osservando i miei shorts. «Ho ancora belle gambe, sai.» Sollevò la gonna e si guardò le ginocchia. «Che ne dici? Mi starebbero bene?»

Nonna Mazur aveva le ginocchia simili alle maniglie di una porta. Ai suoi tempi era stata una bellezza, ma con gli anni era diventata una donnetta ossuta, spigolosa e con la pelle cascante. Pure, se voleva indossare un paio di shous da ciclista, poteva farlo benissimo. Secondo me, questo era uno dei numerosi vantaggi che offriva la vita nel New Jersey: anche le vecchie signore potevano permettersi un abbigliamento bizzarro.

Dalla cucina, mio padre mandò un grugnito di disgusto. Stava tagliando la carne. «Shorts da ciclista!» borbottò dandosi una pacca sulla fronte. «Uh!»

Due anni prima, quando le arterie ostruite dal grasso avevano spedito all’altro mondo nonno Mazur, la nonna si era trasferita dai miei e non se n’era più andata. Mio padre accettava la situazione alternando una stoica rassegnazione a mugugni volutamente sgarbati.

Ricordo che mio padre mi parlava di un cane che aveva quand’era bambino. La povera bestia era l’animale più vecchio, più brutto e più stupido di cui avessi mai sentito parlare. Perdeva urina a ogni passo, aveva i denti guasti e i fianchi irrigiditi dall’artrite. Enormi ascessi gli si aggrumavano sotto la pelle. Un giorno, nonno Plum lo portò dietro il garage e gli sparò. Sospetto che qualche volta mio padre abbia immaginato di fare lo stesso con nonna Mazur.

«Dovresti indossare abiti decenti», disse mia madre portando in tavola piselli freschi e crema di cipolle. «A trent’anni ti vesti ancora con quella roba da ragazzina. Come farai a trovare un uomo, così conciata?»

«Non voglio un uomo. Ne avevo uno e la cosa non mi piaceva.»

«Solo perché tuo marito era un farabutto», decretò nonna Mazur.

Ero perfettamente d’accordo. Il mio ex marito era un farabutto. Specialmente quando lo avevo colto in flagrante sul tavolo della sala da pranzo con Joyce Barnhardt.

«Pare che il ragazzo di Loretta Buzick si sia separato dalla moglie», m’informò mia madre. «Te lo ricordi? Ronald Buzick.»

Sapevo dove voleva arrivare e mi rifiutavo di assecondarla. «Non ho nessuna intenzione di uscire con Ronald Buzick», replicai. «Neanche parlarne.»

Ronald Buzick era un macellaio. Stempiato, grasso; probabilmente mi comportavo come una snob, ma mi riusciva difficile pensare in termini romantici a un uomo che passava le sue giornate ad ammazzare bovini e a pulire frattaglie di pollo.

Mia madre non si arrese. «Va bene, allora che ne diresti di Bernie Kuntz? L’ho incontrato in tintoria e mi ha chiesto di te. Credo che tu gli interessi. Potrei invitarlo per un caffè e una fetta di torta.»

Con la fortuna che mi ritrovavo, probabilmente mia madre aveva già invitato Bernie, e in quel momento lui stava facendo il giro dell’isolato masticando caramelle di menta. «Non voglio parlare di Bernie», dissi. «Devo dirti qualcosa. Cattive notizie…»

Temevo questo momento, avevo cercato di rimandarlo per quanto possibile.

Mia madre si portò una mano alla bocca. «Hai un tumore al seno!»

Nessuno della nostra famiglia aveva mai avuto tumori al seno, ma mia madre ne era terrorizzata. «Il mio seno è a posto. Il problema è un altro, riguarda il lavoro.»

«Il tuo impiego?»

«Non ne ho più uno. Sono stata licenziata.»

«Licenziata?» ripeté mia madre con voce strozzata. «Come è successo? Era un buon lavoro e ti piaceva.»

Avevo lavorato per E.E. Martin come responsabile degli acquisti di biancheria intima a buon mercato a Newark, che non era di certo il giardino del Garden State. In verità, era mia madre che adorava quell’impiego credendolo strepitoso, mentre in realtà passavo la maggior parte del mio tempo a discutere dei prezzi delle mutandine elastiche di nylon. E.E. Martin non era esattamente una boutique alla moda.

«Non mi preoccuperei al tuo posto», disse mia madre. «C’è sempre lavoro nel tuo campo.»

«Non ce n’è affatto.» Specialmente per chi ha lavorato per E.E. Martin. Il fatto che avessi avuto, a suo tempo, uno stipendio fisso faceva sì che tutti mi evitassero come la peste. E.E. Martin non era stato prodigo con le bustarelle l’inverno prima, così qualcuno aveva rivelato i suoi legami con la mafia. Era stato incriminato per una serie di transazioni illegali e aveva dovuto vendere alla Baldicott. Benché non avessi alcuna colpa, venni coinvolta nel repulisti. «Sono disoccupata da sei mesi.»

«Sei mesi! E io non lo sapevo. Tua madre non sapeva che eri per strada.»

«Non sono per strada, ho avuto qualche impiego a termine. Come archivista e cose del genere.» Però scivolavo sempre più giù. Il mio nome figurava presso ogni ditta in cerca di personale nella zona di Trenton e leggevo religiosamente tutte le inserzioni. Non ero schizzinosa, ma il mio futuro non si presentava roseo. Ero troppo qualificata per un primo impiego e mancavo d’esperienza come manager.

Mio padre mise un’altra fetta d’arrosto nel piatto. Lui aveva lavorato per trent’anni alle poste e aveva optato per il prepensionamento. Ora guidava un taxi part-time.

«Ieri ho visto tuo cugino Vinnie», disse. «Sta cercando qualcuno che gli riordini lo schedario. Dovresti fare un salto da lui, o telefonargli.»

Proprio la carriera che speravo… un lavoro di archivio per Vinnie. Dei miei parenti era il meno simpatico. Vinnie era un verme, un maniaco sessuale, un bugiardo. «Quanto paga?» m’informai.

Papà si strinse nelle spalle. «Il minimo.»

Magnifico. Una posizione assai desiderabile per una che era già alla disperazione. Un principale disgustoso, uno sporco impiego, uno stipendio da fame. Le possibilità di compiangermi erano infinite.

«E poi è vicino», aggiunse mia madre. «Potresti venire a casa per pranzo tutti i giorni.»

Annuii distrattamente, pensando che presto mi sarei conficcata uno spillone in un occhio.


Il sole filtrava attraverso lo spiraglio tra le tende della mia camera da letto; il condizionatore in soggiorno ronzava sinistro, annunciandomi un’ennesima mattinata soffocante mentre le lancette dell’orologio mi dicevano che erano le nove. Il giorno era cominciato senza di me.

Rotolai giù dal letto e andai in bagno. Da qui mi trascinai in cucina e mi piantai davanti al frigorifero sperando che le fate mi avessero fatto una visita durante la notte. Aprii lo sportello e fissai gli scomparti vuoti: il cibo non si era materializzato per magia dalle macchie nel contenitore del burro o dai rimasugli avvizziti che giacevano sul fondo dello scomparto della frutta e verdura. Solo mezzo barattolo di maionese, una bottiglia di birra, una pagnotta di pane integrale ammuffito, un piede di lattuga congelato e raggrinzito, ricoperto da una poltiglia scura e dalla plastica, e un barattolo di noccioline per criceti si frapponevano fra me e la fame. Mi chiesi, alle nove del mattino, se fosse troppo presto per bere una birra. Naturalmente a Mosca erano le quattro del pomeriggio. Bene.

Bevvi la metà della birra e mi avvicinai tetra alla finestra del soggiorno. Tirai le tende e guardai giù nel parcheggio. La mia Miata era sparita. Lenny aveva colpito presto. Nessuna sorpresa, eppure sentivo un nodo alla gola. Ora ero ufficialmente insolvente.

E come se non bastasse, avevo promesso a mia madre, poco prima del dessert, che sarei passata da Vinnie.

Mi trascinai sotto la doccia da cui emersi dopo mezz’ora di pianto dirotto. Infilai i collant, indossai un abito ed eccomi pronta a compiere il mio dovere filiale.

Rex, il mio criceto, dormiva ancora nella cassetta della gabbia sul banco della cucina. Lasciai cadere alcune noccioline nella bacinella e cercai di attirare la sua attenzione. Rex aprì gli occhietti neri e ammiccò. Poi contrasse i baffi, annusò e rifiutò le noccioline. Non potevo dargli torto. Le avevo assaggiate a colazione il giorno prima e non erano certo il massimo.

Chiusi la porta dell’appartamento e percorsi tre isolati lungo la St. James fino al negozio di macchine usate Blue Ribbon. Nello spiazzo c’era una Nova da cinquecento dollari che pregava di essere comprata. La ruggine che incrostava la carrozzeria e le tracce di un numero infinito di incidenti la rendevano poco riconoscibile come macchina, molto meno di una Chevy. ma la ditta Blue Ribbon era disposta a cedermela in cambio del televisore e dell’aspirapolvere. Con il frullatore e il forno a microonde pagai le tasse di registrazione e circolazione.

Guidai la Nova fuori dal piazzale e andai direttamente da Vinnie. M’infilai in un posto libero all’angolo tra la Hamilton e la Olden, sfilai la chiave dell’accensione e aspettai che la macchina si raffreddasse. Recitai una breve preghiera perché non mi vedesse nessuno che conoscevo; aprii la portiera e percorsi rapidamente il breve tratto sino all’ufficio. Sull’insegna blu e bianca una scritta: AGENZIA VINCENT PLUM — GARANZIE PER CAUZIONI. Sotto, a lettere più piccole, si garantiva un servizio di ventiquattr’ore su ventiquattro su tutto il territorio nazionale. Situato fra il Tender Loving Care Dry Cleaners e Fiorello’s Deli, Vincent Plum si occupava di liti domestiche, di tumulti, furti d’auto e taccheggiamenti. L’ufficio era piccolo e impersonale, due stanze con pannelli di legno alle pareti e un tappeto color ruggine da pochi soldi sul pavimento. Nella sala d’attesa, contro una parete, un divano in stile moderno e una scrivania di metallo, con un telefono e un computer.

La segretaria di Vinnie sedeva alla scrivania, concentrata con la testa china mentre faceva passare un mucchio di schede. «Sì?»

«Sono Stephanie Plum. Vorrei vedere mio cugino, Vinnie.»

«Stephanie Plum.» La donna alzò la testa. «Sono Connie Roselli. Tu andavi a scuola con la mia sorellina minore, Tina. Gesù, non sarai qui per chiedere un prestito per la cauzione, spero.»

La riconobbi. Era la versione di Tina invecchiata, con la vita e la faccia appesantite. Aveva una gran massa di capelli neri cotonati, una splendida carnagione olivastra e una leggera peluria sopra il labbro superiore.

«Ho bisogno di quattrini», spiegai. «So che Vinnie ha bisogno di qualcuno per l’archivio.»

«Quel posto è appena stato assegnato e, detto fra noi. non hai perso niente. Un lavoraccio, al minimo stipendio, e bisogna passare tutta la giornata a scorrere le lettere dell’alfabeto. Secondo me, se proprio ti va di trascorrere tanto tempo in ginocchio, tanto vale cercare un lavoro pagato meglio. Capisci quel che voglio dire?»

«L’ultima volta che sono stata in ginocchio cercavo le lenti a contatto.»

«Ascolta, se hai bisogno di un lavoro, perché non chiedi a Vinnie di lasciarti rintracciare i latitanti? Si guadagna bene.»

«Quanto?»

«Il dieci per cento della garanzia per la cauzione.» Connie prese una scheda dal cassetto della scrivania. «Questo l’abbiamo ricevuto ieri. La cauzione era stata stabilita in centomila dollari e lui non s’è presentato all’udienza. Se lo trovi e lo porti dentro, ti prendi diecimila dollari.»

Appoggiai una mano sulla scrivania per reggermi in piedi. «Diecimila dollari per trovare un tizio? Dov’è il trucco?»

«Ecco, qualche volta non vogliono farsi trovare e ti sparano. Ma succede raramente.» Connie sfogliò il dossier. «Questo è uno di qui. Morty Beyers ha iniziato a seguire il caso, perciò il lavoro preliminare è già stato fatto. Abbiamo le foto e tutto il resto.»

«Che cosa è capitato a Morty Beyers?» m’informai.

«Appendicite acuta. È successo alle undici e mezzo di ieri sera. Adesso è al St. Francis con un tubo di drenaggio nel fianco e un tubicino nel naso.»

Non volevo augurare sfortuna a Morty Beyers, ma cominciavo a eccitarmi alla prospettiva di prendere il suo posto. Mi allettava il denaro e l’impiego aveva una sua impronta decisa. D’altra parte, acchiappare i latitanti sembrava un’impresa azzardata e io ero abbastanza vigliacca quando si trattava di arrischiare la pelle.

«A mio avviso non dovrebbe essere difficile scovare questo individuo», riprese Connie. «Potresti andare a parlare con sua madre, e se la cosa si complica puoi sempre tirarti indietro. Che cos’hai da perdere?»

Solo la vita. «Non lo so. Non mi va la faccenda delle sparatorie.»

«Probabilmente è come guidare in autostrada», ribatté Connie. «Ci si abitua. Vivere nel New Jersey è una sfida, con i rifiuti tossici, gli autotreni e gli schizofrenici armati. Voglio dire, che cosa ti importa se un pazzo ti spara?»

Abbastanza affine alla mia filosofia, in teoria. E i diecimila dollari erano maledettamente allettanti. Avrei potuto pagare i creditori e raddrizzare la mia vita. «Okay», decisi. «Ci sto.»

«Prima devi parlare con Vinnie», disse Connie girandosi sulla sedia verso l’ufficio di Vinnie. «Ehi, Vinnie», gridò. «C’è da concludere un affare.»

Vinnie aveva quarantacinque anni ed era alto un metro e settanta senza gli alzatacchi. Aveva un corpo snello dalle ossa minute che lo faceva assomigliare a un furetto. Portava scarpe a punta e gli piacevano le donne con i seni a punta, oltre ai giovanotti dalla pelle scura. Guidava una Cadillac Seville.

«Steph accetta il lavoro di caccia ai latitanti», gli spiegò Connie.

«Niente da fare, troppo pericoloso», replicò lui. «Quasi tutti i miei agenti lavoravano nella polizia. Occorre sapere qualcosa sulle procedure legali.»

«Posso imparare», ribattei.

«Allora prima impara e poi torna.»

«Ho bisogno di lavorare subito.»

«Non è un problema mio.»

Era il momento di mostrarsi decisa… «Vedrai che diventerà anche un problema tuo, Vinnie. Farò una lunga chiacchierata con Lucilie.»

Lucilie era la moglie di Vinnie e l’unica persona alla cittadella a non sapere dei gusti sessuali di Vinnie. Lucilie teneva fermamente gli occhi chiusi e non era mio compito aprirglieli. Naturalmente, se l’avesse chiesto però…

«Vorresti ricattarmi? Me, tuo cugino?»

«Sono tempi disperati.»

Lui si rivolse a Connie. «Dalle qualche caso civile. Magari un’indagine che possa svolgere al telefono.»

«Voglio questo», dichiarai puntando il dito sulla scheda che giaceva sulla scrivania di Connie. «Voglio il caso da diecimila dollari.»

«Scordatelo. Si tratta di omicidio. Non avrei mai dovuto garantire la cauzione, ma lui era del quartiere e io ero dispiaciuto per sua madre. Dammi retta, non hai bisogno di cacciarti in un guaio di questo tipo.»

«Mi serve il denaro, Vinnie. Dammi la possibilità di portar dentro quel tipo.»

«Col cavolo», tagliò corto Vinnie. «Non si farà acciuffare. Io sono fuori di centomila dollari e non ho intenzione di mandargli dietro una dilettante.»

Connie roteò gli occhi verso di me. «Lui non ci rimette un bel niente. C’è di mezzo una grossa assicurazione.»

«Dammi una settimana, Vinnie», insistetti. «Se non lo prendo in una settimana, puoi affidare il caso a qualcun altro.»

«Non ti do neanche mezz’ora.»

Tirai un profondo sospiro e mi chinai verso mio cugino, sussurrandogli all’orecchio: «So tutto di madame Zaretski, delle fruste e delle catene. So tutto dei ragazzini e il resto».

Vinnie non parlò. Si limitò a serrare le labbra finché divennero bianche. Compresi di averlo in pugno. Lucilie sarebbe diventata matta se avesse saputo certi particolari. Lo avrebbe riferito a suo padre, Harry detto «il Martello», che avrebbe tagliato il pene di Vinnie.

«Chi devo cercare?» domandai a mio cugino.

Lui mi diede il dossier. «Joseph Morelli.»

Il mio cuore diede un balzo. Sapevo che Morelli era stato coinvolto in un omicidio. La notizia si era sparsa in tutta la cittadella e i dettagli della sparatoria avevano occupato la prima pagina del Trenton Times. POLIZIOTTO UCCIDE UOMO DISARMATO. Era successo più di un mese prima, poi altre notizie, come l’esatto ammontare del montepremi della lotteria, avevano relegato in secondo piano la vicenda di Morelli. In assenza di ulteriori informazioni avevo concluso che la sparatoria aveva avuto luogo mentre era in servizio. Non avevo capito che Morelli era stato accusato di omicidio.

A Vinnie non sfuggì la mia reazione. «Dall’espressione della tua faccia, si direbbe che lo conosci.»

Annuii. «Gli ho venduto un cannolo quando ero al liceo.»

Connie grugnì. «Cara, metà delle donne del New Jersey gli hanno venduto un cannolo.»

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