1 Alimentando le scintille

La Ruota del tempo gira e le Epoche si susseguono, lasciando ricordi che divengono leggenda; la leggenda sbiadisce nel mito, ma anche il mito è ormai dimenticato, quando ritorna l’Epoca che lo vide nascere. In un’Epoca chiamata da alcuni Epoca Terza, un’Epoca ancora a venire, un’Epoca da gran tempo trascorsa, il vento si alzò nella vasta foresta chiamata il Bosco di Braem. Il vento non era l’inizio. Non c’è inizio né fine, al girare della Ruota del Tempo. Ma fu comunque un inizio.

Soffiava verso sud ed est, asciutto, sotto un sole d’oro colato. Non era piovuto per molte settimane nella terra sottostante e il caldo dell’estate inoltrata aumentava di giorno in giorno. Su alcuni alberi erano già visibili le foghe marroni e le rocce nude adesso ardevano dove una volta scorrevano dei piccoli ruscelli. In un luogo aperto nel quale l’erba era svanita e rimanevano solo alcuni cespugli rinsecchiti ancorati al suolo con le radici, il vento incominciò a scoprire delle pietre rimaste sepolte a lungo. Erano logorate dalle intemperie e nessun occhio umano le avrebbe riconosciute come i resti di una città ricordata solo nella storia.

Villaggi sparpagliati si stagliavano di fronte al vento attraverso i confini di Andor e sui campi dove i contadini preoccupati arrancavano su solchi inariditi. La foresta era ridotta a radi boschetti quando il vento smise di alzare la polvere per le strade solitarie di un villaggio chiamato le Sorgenti di Kore. Quell’anno le sorgenti erano basse. Qualche cane giaceva affannato nel caldo soffocante e due ragazzini senza camicia correvano, facendo rotolare una vescica imbottita che colpivano con dei bastoni. Non si muoveva nient’altro, tranne il vento, la polvere e l’insegna scricchiolante sopra la porta della locanda di mattoni rossi e con il tetto di paglia, come ogni altro edificio nella strada. Di due piani, era la più alta e larga struttura delle Sorgenti di Kore, una piccola città pulita e ordinata. I cavalli sellati erano legati sul davanti e agitavano appena le code. Il nome inciso sull’insegna era ‘La giustizia della buona regina’.

Battendo le palpebre nella polvere, Min accostò un occhio alla fenditura sulle pareti del riparo. Riusciva a vedere giusto una spalla del soldato davanti alla porta, ma la sua attenzione era tutta concentrata sulla locanda. Avrebbe desiderato che il nome non fosse di così cattivo auspicio. Il giudice, il lord locale, era giunto poco prima, ma non era riuscita a vederlo. Senza dubbio stava ascoltando le accuse dei contadini. Admer Nem, i suoi fratelli, i cugini e tutte le loro mogli erano sembrati a favore di un’impiccagione immediata prima che uno dei dipendenti del lord si facesse vivo. Si chiese quale potesse essere qui la punizione per aver incendiato la fattoria di un uomo, assieme alle mucche da latte. Si era trattato di un incidente, ma non credeva che contasse molto quando tutto era iniziato con uno sconfinamento.

Logain era fuggito nella confusione, abbandonandole — lo aveva fatto, che rimanesse folgorato! — e Min non sapeva se esserne felice o meno. Era stato lui a far perdere i sensi a Nem quando erano stati scoperti proprio prima dell’alba, scaraventando la lanterna dell’uomo fra la paglia. Era colpa sua, se bisognava incolpare qualcuno. A volte però aveva dei problemi a tenere a freno la lingua. Forse era un bene che fosse andato via.

Girandosi per appoggiarsi alla parete si deterse il sudore dalla fronte, ma quello sgorgò di nuovo. L’interno del riparo era soffocante, ma le due compagne non sembravano notarlo. Siuan era sdraiata supina, indossava un abito scuro da cavallo molto simile a quello di Min e fissava il soffitto giocherellando con un filo di paglia. Leane, dalla pelle ramata, slanciata e alta come la maggior parte degli uomini, invece stava cucendosi il vestito. Era stato permesso loro di tenere le bisacce da sella, dopo essere state perquisite alla ricerca di spade, asce o qualsiasi altra cosa che potesse servire a fuggire.

«Qual è la punizione per aver incendiato una fattoria qui in Andor?» chiese Min.

«Se siamo fortunate» rispose Siuan senza muoversi, «qualche cinghiata nella piazza del villaggio, se non siamo così fortunate una vera e propria fustigazione.»

«Luce!» esclamò Min. «Come puoi chiamarla fortuna?»

Siuan rotolò su un fianco e si appoggiò sul gomito. Era una donna robusta, quasi attraente ma non bella e sembrava solo pochi anni più grande di Min; ma in quegli occhi azzurri attenti c’era una forza autoritaria che non apparteneva a una ragazza in attesa del processo rinchiusa in una baracca di campagna. A volte Siuan era incline a dimenticare la propria identità come Logain, forse anche di più. «Quando qualcuno viene preso a cinghiate» proseguì con un tono che invitava l’altra a non essere sciocca, «finisce lì e poi si può andare via. Si sprecherebbe molto meno del nostro tempo rispetto a qualsiasi altra punizione possa venirmi in mente. Molto meno dell’impiccagione direi. Anche se non credo che vi arriveremo, per quanto ricordo delle leggi di Andor.»

Min rise per un momento, l’alternativa era piangere. «Tempo? A giudicare da come stiamo procedendo non abbiamo altro che tempo. Giurerei che siamo già state in qualsiasi villaggio fra qui e Tar Valon e non abbiamo trovato nulla. Non una traccia o una voce. Non credo che vi sia nessuna congrega e adesso siamo a piedi. Da quello che ho sentito Logain ha preso i cavalli. A piedi e rinchiuse in una baracca in attesa la Luce sola sa di cosa!»

«Attenta ai nomi che pronunci» sussurrò irritata Siuan, lanciando un’occhiata significativa verso la rozza porta con la guardia dall’altro lato. «Una lingua veloce può farti cadere nella rete al posto del pesce.»

Min fece una smorfia, in parte perché cominciava a stancarsi dei detti da pescatore tarenese di Siuan e in parte perché l’altra donna aveva ragione. Sino a ora erano riuscite a precedere le notizie imbarazzanti — mortali era una definizione più appropriata — ma alcune riuscivano a viaggiare anche centosessanta chilometri in un giorno. Siuan si faceva chiamare Mara, Leane Amaena e Logain si faceva chiamare Dalyn, dopo che Siuan lo aveva convinto che Guaire era una scelta sciocca. Min invece era sicura che nessuno avrebbe riconosciuto il suo nome, ma Siuan aveva insistito a chiamarla Serenla. Nemmeno Logain conosceva i loro nomi autentici.

Il vero problema era che Siuan non voleva arrendersi. Settimane di fallimenti totali, ora il processo e qualsiasi accenno di recarsi a Tear — che era una proposta sensata — scatenava una tempesta che sgomentava anche Logain. Più tempo avevano impiegato a cercare quel che Siuan non trovava, più le era peggiorato l’umore. Non che con quel caratterino non sarebbe stata capace di spaccare le pietre anche prima! Min fu abbastanza saggia da tenere per sé quest’ultimo pensiero.

Leane finalmente aveva finito con il vestito e lo stava infilando dalla testa, passandosi le mani dietro la schiena per abbottonarlo. Min non riusciva a capire perché la donna si era data tanto da fare, lei odiava qualsiasi lavoro con l’ago. Adesso la scollatura era leggermente più profonda, mostrava una piccola porzione del petto e forse l’abito era leggermente più attillato sui fianchi. Ma a quale scopo? Nessuno le avrebbe chiesto di ballare in quella baracca soffocante.

Frugando nella sacca di Min Leane prese la scatola di legno contenente trucchi, polveri e cose simili che Laras aveva dato alla ragazza prima che andassero via. Min voleva gettarli, ma poi non lo aveva mai fatto. Dietro il coperchio della scatola c’era un piccolo specchio e in pochi istanti Leane incominciò a truccarsi usando un pennello di pelo di coniglio. Prima di allora non aveva mai mostrato particolare interesse per quegli oggetti. Adesso sembrava frustrata dal fatto che ci fosse solo una spazzola di legno e un piccolo pettine d’avorio per i capelli. Si lamentò anche dell’impossibilità di scaldare il ferro per fare i ricci! I capelli scuri le erano cresciuti fin da quando avevano iniziato la ricerca di Siuan, ma arrivavano ancora sopra le spalle.

Dopo averla guardata per un po’ Min chiese: «Cosa stai combinando Le... Amaena?» evitando di guardare Siuan. Era in grado di tenere a freno la lingua, era stata solo la circostanza di essere rinchiusa, arrostita e l’imminente processo a renderla confusa. Un’impiccagione o delle cinghiate in pubblico. Che scelta! «Hai deciso di metterti a civettare?» Voleva fare una battuta — Leane era tutta affari ed efficienza — qualcosa per alleggerire gli animi, ma l’altra donna la sorprese.

«Sì» rispose vivacemente, guardandosi nello specchio mentre interveniva in qualche modo sulle ciglia. «E se becco l’uomo giusto, forse non dovremmo preoccuparci di cinghiate o qualsiasi altra cosa. Quantomeno potrebbe farci ottenere pene meno severe.»

Con la mano sollevata per pulirsi di nuovo la fronte, Min esclamò — come se un gufo avesse appena detto che voleva diventare un colibrì — ma Siuan si sedette guardando Leane e disse: «A cosa ci ha portate tutto questo?»

Se Siuan avesse diretto verso di lei quello sguardo, Min forse avrebbe confessato alcune cose che aveva omesso. Quando Siuan si concentrava su una persona in quella marnera, ti ritrovavi a rivolgerle riverenze e scattare per eseguire quello che ti era stato ordinato prima che te ne accorgessi. Anche Logain lo faceva la maggior parte delle volte. Tranne la riverenza.

Leane con calma si fece passare un pennello su una guancia ed esaminò il risultato nel piccolo specchio. Guardò Siuan, ma qualsiasi cosa vide, rispose con il solito tono di voce. «Mia madre era una commerciante, lo sai, per lo più si occupava di pellicce e legname. Una volta l’ho vista confondere talmente un mercante della Saldea da farsi dare tutto il legname di un anno per la metà del prezzo chiesto inizialmente e dubito che l’uomo se ne rese conto finché non fu giunto quasi a casa. Forse. Più tardi le mandò un braccialetto di pietre di luna. Le donne domanesi non meritano tutta la reputazione che hanno — boriose e rigide secondo le dicerie — ma solo una parte. Mia madre e le mie zie mi hanno insegnato qualcosa, naturalmente, insieme alle mie sorelle e cugine.»

Guardandosi scosse il capo, quindi ritornò al suo compito sospirando. «Temo che fossi alta quanto oggi quando ho compiuto quattordici anni. Tutta ginocchia e gomiti, come un puledro che cresce troppo in fretta. Non riuscivo ad attraversare una stanza senza inciampare almeno due volte. Ho imparato...» sospirò profondamente, «...ho scoperto che la mia vita mi avrebbe portata altrove e che non sarei stata una commerciante. Adesso anche quello è svanito. È ora che faccia buon uso degli insegnamenti di tanti anni fa. Date le circostanze, non posso pensare a un momento o un luogo migliori.» Siuan riprese a studiarla con occhi penetranti. «Questo non è il motivo. Non era la vera ragione. Confessa.»

Riponendo un piccolo pennello nella scatola, Leane avvampò furiosa. «La vera ragione? Non la so. So solo che ho bisogno di qualcosa nella vita per rimpiazzare... quel che non c’è più. Sei stata proprio tu per prima a dirmi che è la sola speranza di sopravvivenza. Per me la vendetta non vale. So che i tuoi motivi sono validi e forse anche giusti, ma, la Luce mi aiuti, non è abbastanza. Non riesco a sentirmi coinvolta quanto te. Resterò, ma non è abbastanza.»

La rabbia svanì quando incominciò a richiudere i vasetti e le fiale rimettendoli a posto, anche se usò più forza di quella che serviva. Emanava un delicato profumo di rose. «So che fare la civetta non è qualcosa con cui colmare il vuoto, ma è sufficiente per il momento. Forse trasformarmi in colei che ero destinata a essere basterà, non lo so. È un’idea. Ho sempre voluto essere come mia madre e le mie zie, l’ho sognato qualche volta dopo che ero cresciuta.»

Il viso di Leane divenne pensieroso e l’ultimo oggetto finì nella scatola più delicatamente. «Forse ho sempre sentito che mi stavo travestendo da qualcun’altra, creando una maschera fino a quando divenne una seconda natura. C’era un lavoro serio da fare, molto più serio del commercio, e quando mi resi conto che c’era un’altra via che avrei potuto seguire, la maschera era troppo attaccata per poterla togliere. Be’, adesso è finita con quella parte e sto gettando la maschera. Avevo anche pensato di iniziare con Logain una settimana fa, per fare pratica. Ma sono davvero fuori esercizio e credo sia il tipo di uomo capace di tirarti fuori più promesse di quante intendi offrirne e si aspetti di vederle esaudite.» Un piccolo sorriso le apparve improvvisamente sul volto. «Mia madre mi ha sempre detto che se dovesse accadere vuol dire che hai fatto male i conti; se non c’è via d’uscita devi o abbandonare la dignità e scappare, o pagare il prezzo e considerarla una lezione.» Il sorriso di Leane prese una piega maliziosa. «Mia zia Resara dice che è meglio pagare il prezzo e godersela.»

Min poteva solo scuotere il capo. Era come se Leane fosse diventata un’altra donna. Parlare in quel modo di...! Non riusciva a crederci. E in verità Leane sembrava differente. Dopo tutto quel lavoro con i pennelli, non c’era traccia di colore o polvere sul viso che Min potesse vedere, eppure le labbra sembravano più carnose, gli zigomi più alti e gli occhi più grandi. Era una donna più che carina, ma adesso la bellezza era quintuplicata.

Siuan però non aveva ancora terminato. «E se questo lord di campagna è come Logain?» osservò. «Cosa farai allora?»

Leane si raddrizzò rimanendo in ginocchio e deglutì prima di rispondere, ma la voce era perfettamente atona. «Viste le alternative, quale opzione sceglieresti?»

Nessuna delle due batté le palpebre e il silenzio divenne pesante.

Prima che Siuan potesse rispondere, se ne aveva intenzione — a Min sarebbe piaciuto sentirla — la catena e il lucchetto dall’altro lato si mossero.

Le altre due donne si alzarono lentamente, raccogliendo le bisacce da sella con calma, ma Min si alzò con la voglia di avere un pugnale. Un desiderio sciocco, si disse. Mi porterebbe solo problemi peggiori. Non sono la maledetta eroina di una storia. Anche se riuscissi a eliminare la guardia...

La porta si aprì e un uomo con un lungo giustacuore di cuoio sulla camicia occupò la soglia. Non era il tipo da poter essere attaccato da una donna, anche con un pugnale. Forse nemmeno con un’ascia. Enorme era la parola giusta per descriverlo, e robusto. I pochi capelli che gli rimanevano sulla testa erano quasi tutti bianchi, ma sembrava duro come un vecchio ciocco di quercia. «È giunto il momento per voi ragazze di presentarvi davanti al lord» disse rozzamente. «Volete camminare o dobbiamo trasportarvi come sacchi di grano? Ci andrete in ogni caso, ma preferirei non dovervi trascinare con questo caldo.»

Guardando oltre l’uomo, Min ne vide altri due che aspettavano, con i capelli grigi ma altrettanto duri, anche se non grossi come lui.

«Cammineremo» ripose brusca Siuan.

«Bene. Venite allora. Fatevi avanti. A lord Gareth non piace aspettare.»

Nonostante la promessa di camminare, gli uomini l’afferrarono saldamente mentre percorrevano le strade impolverate. La mano di quello calvo le circondava il braccio come una manetta. A questo era valso fuggire, rifletté amareggiata. Meditò di prenderlo a calci negli stinchi per vedere se avrebbe allentato la presa, ma sembrava così solido che di sicuro gli avrebbe fatto appena un graffio e sarebbe stata trascinata per il resto del tragitto.

Leane sembrava persa nei suoi pensieri, faceva dei piccoli gesti con la mano libera e muoveva in silenzio le labbra, ripassando ciò che intendeva dire, ma continuava a scuotere il capo. Siuan era chiusa in sé, ma era evidentemente preoccupata e si mordicchiava addirittura il labbro inferiore. Non mostrava mai tutto questo disagio. In sostanza le due non rassicuravano affatto Min.

La sala comune con il soffitto di travi della Giustizia della buona regina lo fece ancor meno. Admer Nem, dai capelli Usci e un livido giallo attorno all’occhio gonfio, stava in piedi con una mezza dozzina di grossi fratelli, i cugini e le loro mogli, tutti che indossavano le giubbe e i grembiuli migliori. I contadini guardarono le tre prigioniere con un misto di rabbia e soddisfazione che fece sprofondare lo stomaco di Min. Le occhiate delle donne erano peggiori di quelle dei compagni, puro odio. Attorno alle altre pareti c’erano sei file di abitanti del villaggio, tutti in abiti da lavoro, che avevano interrotto le loro attività per assistere al processo. Il fabbro indossava ancora il grembiule di cuoio e diverse donne avevano le maniche tirate su, con le braccia impolverate di farina. La sala rimbombava del loro mormorio; dagli anziani fino ad alcuni bambini, gli occhi erano fissi sulle tre donne con la stessa avidità di Nem. Min pensò che questo doveva essere l’evento più eccitante che le Sorgenti di Kore avesse mai visto. Una volta si era imbattuta in una folla di un simile umore, durante un’esecuzione.

I tavoli erano stati rimossi, tranne uno davanti al camino di mattoni. Un uomo robusto dal viso schietto era seduto davanti a loro e indossava una giubba di seta verde scura di buon taglio, le mani appoggiate sul tavolo davanti a lui. Una donna che dimostrava la stessa età stava in piedi di fianco al tavolo e portava un abito di fine lana grigia ricamata con fiori bianchi attorno alla scollatura. Il lord locale, suppose Min, e la sua lady. Nobili di campagna informati degli eventi del mondo poco più dei loro cittadini e feudatari.

Le guardie le guidarono davanti al tavolo del lord e si unirono al pubblico. La donna in grigio si fece avanti e i mormorii si spensero.

«Tutti i presenti assistono e ascoltano» annunciò la donna, «poiché verrà distribuita la giustizia da lord Gareth Bryne. Prigioniere, siete chiamate in giudizio davanti a lord Bryne.» Allora non era la lady del lord, ma un ufficiale di qualche tipo. Gareth Bryne? Min lo ricordava capitano generale della guardia della regina a Caemlyn. Se era lo stesso uomo. Lanciò un’occhiata a Siuan e vide che aveva gli occhi bassi, rivolti proprio verso la punta dei piedi. Chiunque fosse, questo Bryne sembrava affaticato.

«Siete accusate» proseguì la donna «della violazione di una proprietà durante la notte, incendio doloso e distruzione di un edificio e del suo contenuto, uccisione di bestiame di valore, assalto alla persona di Admer Nem e furto di una borsa che, è stato dichiarato, conteneva oro e argento. Ci è stato riferito che l’assalto e il furto sono da attribuire al vostro amico che è fuggito, ma voi tre siete ugualmente imputabili dei crimini davanti alla giustizia.»

Fece una pausa per lasciare che le parole facessero presa e Min scambiò occhiate meste con Leane. Logain doveva aggiungere anche il furto a tutto il resto. Ormai probabilmente era a metà strada dal Murandy, se non ancora più lontano.

Dopo un po’ la donna ricominciò. «I vostri accusatori sono presenti per affrontarvi.» Fece un cenno verso il capannello di Nem. «Admer Nem, fornisci la tua testimonianza.»

L’uomo robusto si fece avanti in preda a una mescolanza di sentimenti, sentendosi anche importante e consapevole della situazione; tirava la giubba nel punto in cui i bottoni di legno erano tesi sullo stomaco e si passava la mano fra i capelli radi, che continuavano a cadergli davanti al viso. «Come ho detto, lord Gareth, è successo così...»

Spiegò in modo quasi fedele di averli scoperti nel fienile e aver ordinato loro di uscire, anche se aveva descritto Logain almeno trenta centimetri più alto di quel che era e tramutato il solo colpo dell’uomo in una colluttazione piuttosto equilibrata. La lanterna cadde, il fienile prese fuoco, ma il resto della famiglia era uscito dalla fattoria poco prima del tramonto; le prigioniere furono catturate e immobilizzate mentre il fienile bruciava; quindi avevano scoperto la sparizione del sacchetto di denaro da casa. Aveva accennato sbrigativamente alla parte in cui l’impiegato di lord Bryne aveva bloccato alcuni elementi della famiglia che avevano preso della corda e si erano messi a fissare i rami di un albero.

Quando Nem iniziò a parlare di nuovo della lotta — stavolta il vincitore sembrava lui — Bryne lo interruppe. «Va bene così, mastro Nem. Puoi sederti.»

Al contrario, una donna dal viso rotondo che, a giudicare dall’età, poteva essere la moglie di Nem, si unì a lui. Viso rotondo ma non morbido. Rotondo come una padella o una roccia di fiume. E arrossato da qualche sentimento più forte della rabbia. «Frusterai queste sgualdrine per bene, vero, lord Gareth? Frustale di santa ragione, e falle correre fino a Jornhill con un giogo!»

«Nessuno ti ha chiesto di parlare, Maigan» puntualizzò la donna magra vestita di grigio. «Questo è un processo, non una riunione per presentare una petizione. Adesso tu e Admer vi farete indietro. Subito!» I due obbedirono, Admer con maggiore alacrità di Maigan. La donna vestita di grigio si rivolse a Min e le sue compagne. «Se volete fornire la vostra testimonianza per difendervi o attenuare l’entità del reato, potete parlare.» Nella voce della donna non c’era simpatia, o qualsiasi altro tipo di sentimento.

Min si aspettava che avrebbe parlato Siuan — la donna prendeva sempre il comando — ma Siuan non si mosse e non alzò lo sguardo. Fu invece Leane che si fece avanti verso il tavolo, con gli occhi fissi sull’uomo dietro di esso.

Stava più dritta che mai, ma la solita camminata — un passo grazioso, e tuttavia lungo — era divenuta una sorta di scivolamento, con appena un accenno ondulatorio. In qualche modo il seno e i fianchi erano evidenziati. Non che ostentasse qualcosa. Era il modo in cui si muoveva a sottolineare le sue forme. «Mio signore, siamo tre donne indifese, in cerca di riparo dall’uragano che travolge il mondo.» Il solito tono di voce energico era sparito, trasformato in una carezza vellutata. Nei suoi occhi scuri c’era una luce, una specie di sfida bruciante. «Senza denaro e perdute, ci siamo rifugiate nel fienile di mastro Nem. Era sbagliato, lo so, ma avevamo paura di restare fuori di notte.» Un piccolo gesto con la mano parzialmente sollevata, l’interno del polso rivolto verso Bryne, la fece sembrare per un momento del tutto indifesa. Solo per un momento però. «L’uomo, Dalyn, non lo conoscevamo, era solo uno che si era offerto di proteggerci. In questi giorni delle donne da sole devono avere un paladino, mio signore, ma temo che abbiamo fatto la scelta errata.» Un’espressione leggermente stupita negli occhi, uno sguardo supplichevole dicevano che lui avrebbe potuto aiutarle. «È stato quell’uomo ad attaccare mastro Nem, mio signore. Noi saremmo fuggite o avremmo lavorato per ripagare la notte trascorsa al riparo.» Muovendosi di fianco al tavolo si inginocchiò graziosamente vicino alla sedia di Bryne e appoggiò le dita di una mano sul polso dell’uomo, guardandolo negli occhi dal basso in alto. La voce della donna fu scossa da un tremito, ma il vago sorriso era abbastanza per far battere velocemente il cuore di un uomo. Era incoraggiante. «Mio signore, siamo colpevoli di qualche piccolo crimine, certo non di tutto ciò di cui siamo accusate. Ci affidiamo alla tua pietà. Ti prego, mio signore, abbi pietà di noi e proteggici.»

Per un lungo momento Bryne la guardò negli occhi. Quindi schiarendosi la gola fece scivolare indietro la sedia e si alzò, dirigendosi dal lato opposto del tavolo. Gli abitanti del villaggio e i contadini si agitarono, gli uomini si schiarivano la gola come aveva fatto il loro lord, le donne mormoravano. Bryne si fermò davanti a Min. «Come ti chiami, ragazza?»

«Min, mio signore.» Sentì un lamento soffocato provenire da Siuan e aggiunse velocemente, «Serenla Min. Tutti mi chiamano Serenla, mio signore.»

«Tua madre doveva aver avuto una premonizione» mormorò sorridendo. Non era il primo a reagire in modo simile al suo nome. «Hai niente da dire, Serenla?»

«Solo che mi dispiace molto, mio signore, e davvero non è stata colpa nostra. Ha fatto tutto Dalyn. Chiedo clemenza, mio signore.» Non sembrava molto simile alla preghiera di Leane — qualsiasi cosa sarebbe risultata insignificante dopo la messa in scena dell’altra donna — ma era il meglio che potesse fare. Aveva la bocca arida come le strade. Cosa avrebbero fatto se decideva di impiccarle?

Annuendo si diresse verso Siuan, che ancora guardava per terra. Mettendole una mano sotto il mento le sollevò la testa per guardarla negli occhi.

«E tu come ti chiami, ragazza?»

Con uno scatto Siuan si liberò il mento e fece un passo indietro. «Mara, mio signore» sussurrò. «Mara Tomanes.»

Min si lamentò. Siuan era chiaramente spaventata, ma allo stesso tempo guardava l’uomo con aria di sfida. Si aspettava che gli avrebbe chiesto di lasciarle andare via in quell’istante. Quando l’uomo le domandò se desiderava dire qualcosa si rifiutò con un altro sussurro, ma continuò a fissarlo come se fosse lei il giudice. Forse la donna riusciva a tenere sotto controllo la lingua, ma di certo non gli occhi.

Dopo un po’ Bryne si voltò. «Torna dalle tue amiche, ragazza» disse a Leane mentre si dirigeva verso la sua sedia. Si unì a loro con un’espressione di aperta frustrazione, e quello che in chiunque altro Min avrebbe chiamato un tocco di insolenza.

«Ho preso la mia decisione» annunciò Bryne rivolgendosi all’adunanza in generale. «I crimini sono seri e nulla di quanto ho sentito cambia i fatti. Se tre uomini entrassero di soppiatto nell’abitazione di qualcun altro per rubare un candelabro e uno di loro attaccasse il proprietario, tutti e tre sarebbero egualmente colpevoli. Ci deve essere un risarcimento. Mastro Nem, ti darò il denaro necessario per ricostruire il fienile, più il prezzo di sei vacche da latte.» Gli occhi del grosso fattore si illuminarono, finché Bryne aggiunse: «Caralin vi darà la somma quando sarà soddisfatta di costi e preventivi. Ho sentito dire che alcune delle tue vacche non davano quasi più latte.» La donna snella annuì soddisfatta. «Per il bozzo sulla testa, ti elargisco un marco d’argento. Non lamentarti» lo apostrofò con fermezza quando Nem aprì bocca. «Maigan ti ha fatto di peggio per aver bevuto troppo.» Un’ondata di risate degli spettatori accolse la battuta, per niente attenuata dallo sguardo mezzo imbarazzato di Nem, e forse incitata dalle labbra tese di Maigan. «Rimpiazzerò anche l’importo del denaro rubato. Una volta che Caralin sarà certa dell’esatto ammontare.» Nem e la moglie sembravano ugualmente contrariati, a giudicare da come stavano zitti. Era chiaro che il lord avrebbe dato loro quello che voleva. Min cominciò a sperare.

Appoggiando i gomiti sul tavolo Bryne rivolse l’attenzione verso di lei e le altre due. Quelle parole pronunciate con lentezza le provocarono un nodo allo stomaco. «Voi tre lavorerete per me, alla normale paga di qualsiasi incarico vi verrà assegnato, finché il denaro che ho speso mi sarà ripagato. Non crediate che sia indulgente. Se presterete un giuramento che mi soddisfi non avrete bisogno di essere sorvegliate e potrete essere impiegate nella mia tenuta. In caso contrario dovrete lavorare nei campi, dove verrete costantemente tenute d’occhio. Le paghe nei campi sono inferiori, ma è una vostra decisione.»

Con ansia Min cercò nella mente la promessa più debole che conoscesse e potesse essere soddisfacente. Non le piaceva non mantenere la parola data in qualsiasi circostanza, ma intendeva andare via non appena si fosse presentata un’occasione e non voleva infrangere giuramenti troppo seri, per il benessere della sua coscienza.

Anche Leane sembrava pensare, ma Siuan esitò appena prima di inginocchiarsi e appoggiare le mani sul cuore. Gli occhi sembravano inchiodati su quelli di Bryne e l’aria di sfida non era diminuita nemmeno un po’. «Per la Luce e la speranza di salvezza alla rinascita, giuro di servirti qualsiasi cosa tu richieda per il tempo che riterrai opportuno, o possa il Creatore voltarmi la faccia per sempre e l’oscurità consumare la mia anima.» Pronunciò il voto in un sussurro, ma queste parole provocarono un silenzio mortale. Non c’era un giuramento più forte, a parte quello per diventare Aes Sedai, con la Verga dei Giuramenti con cui ci si legava come parte della propria carne.

Leane fissò Siuan, quindi si inginocchiò, «Per la Luce e la speranza di salvezza alla rinascita...»

Min si agitava disperatamente, alla ricerca di una via d’uscita. Prestare un giuramento meno impegnativo significava di sicuro i campi e qualcuno che l’avrebbe controllata fin da subito, ma questo... Da quanto le era stato insegnato, infrangerlo non sarebbe stato un crimine di gran lunga inferiore all’omicidio, forse uguale. Solo che non c’era una via d’uscita. Il giuramento, o chissà quanti anni di lavoro nei campi tutti i giorni e probabilmente richiusa durante la notte. Accasciandosi di fianco alle altre due donne mormorò le parole, ma dentro di sé soffriva. Siuan, sciocca donna! In cosa mi hai cacciata adesso? Non posso restare qui! Devo andare da Rand! Oh, Luce, aiutami! pensava.

«Bene» esclamò Bryne quando ebbero finito, «non me lo aspettavo. Ma va bene. Caralin, vuoi portare mastro Nem da qualche parte e scoprire a quanto ritiene che ammontino le sue perdite? E manda via tutti tranne queste tre. Organizza anche il trasporto alla residenza. Date le circostanze non credo che saranno necessarie delle guardie.»

La donna magra lo guardò preoccupata, ma in breve iniziò a far uscire tutti in una massa accalcata. Admer Nem con i fratelli e cugini rimase vicino a lei, l’avarizia dipinta sul volto. Le donne della famiglia sembravano di poco meno avide, ma riservarono alcune occhiate severe a Min e le altre due, che rimasero in ginocchio finché la stanza non fu vuota. Min non credeva in ogni caso che le gambe l’avrebbero sorretta. Nella mente continuava ripetersi la stessa frase. Oh, Siuan, perché? Non posso rimanere qui, non posso!

«Abbiamo avuto alcune rifugiate qui» iniziò a dire Bryne quando gli ultimi abitanti del villaggio furono usciti. Quindi si sedette di nuovo studiandole. «Ma mai strane come voi tre. Una Domanese. Una Taraboniana?» Siuan annuì seccamente. Le due donne si alzarono, Leane pulendosi delicatamente le ginocchia. Min riuscì a unirsi a loro su gambe instabili. «E tu, Serenla.» Ancora una volta apparve il cenno di un sorriso sul volto dell’uomo mentre pronunciava quel nome. «Da qualche parte a ovest di Andor, a meno che non abbia riconosciuto il tuo accento.»

«Baerlon» mormorò, quindi si morse la lingua. Qualcuno poteva sapere che Min era originaria di Baerlon.

«Non ho sentito parlare di nulla che costringa la gente dell’Ovest a rifugiarsi» rifletté Bryne cogitabondo. Quando Min rimase in silenzio lui non insisté. «Dopo che avrete ripagato il vostro debito sarete le benvenute a rimanere al mio servizio. La vita può essere dura per chi ha perduto la casa, e anche la branda di una cameriera è meglio che dormire sotto a un cespuglio.»

«Grazie, mio signore» rispose dolcemente Leane, facendo una riverenza così graziosa che anche nei rozzi abiti da cavallo sembrava un passo di danza. L’eco di Min fu opprimente e non si fidò delle proprie ginocchia per una riverenza. Siuan rimase in piedi a fissarlo senza dire nulla.

«È un peccato che il vostro amico abbia preso i cavalli. Quattro cavalli avrebbero ridotto il vostro debito.»

«Era un estraneo e un farabutto» spiegò Leane, con una voce consona a qualcosa di più intimo. «Io per prima sono più che contenta del cambio con la tua protezione, mio signore.»

Bryne la guardò con... apprezzamento, pensò Min, ma tutto ciò che disse fu, «Almeno alla residenza sarete in salvo dai Nem.»

A questa osservazione non vi fu risposta. Min suppose che lavare i pavimenti nella dimora di Bryne non sarebbe stato molto differente che farlo a casa dei Nem. Come mi tiro fuori da tutto questo? Luce, come? si chiedeva.

Il silenzio proseguì, a parte Bryne che tamburellava le dita sul tavolo. Min pensò che non sapesse cosa dire, ma non credeva che quest’uomo fosse mai impreparato. Probabilmente era irritato perché Leane era la sola a mostrare un po’ di gratitudine. La sentenza avrebbe potuto essere molto peggiore, dal punto di vista di Bryne. Forse gli sguardi caldi e la voce carezzevole di Leane erano stati efficaci, ma Min avrebbe preferito che la donna fosse rimasta com’era quando l’aveva conosciuta. Essere appese per i polsi nella piazza del villaggio era meglio di questo.

Alla fine Caralin fece ritorno, parlando da sola. Sembrava irritata mentre riferiva il resoconto a Bryne. «Ci vorranno dei giorni per avere delle risposte dirette da quel Nem, lord Gareth. Admer chiederebbe cinque nuovi fienili e cinquanta mucche, se lo lasciassi fare. Però credo sia vera la storia del sacchetto di denaro, solo che sull’importo preciso...» Scosse il capo e sospirò. «Lo scoprirò, prima o poi. Joni è pronto a portare le ragazze alla tenuta, se hai finito con loro.»

«Prendile, Caralin» rispose Bryne alzandosi. «Quando le avrai mandate via, raggiungimi al mattonificio.» La voce era di nuovo stanca.

«Thad Haren dice che ha bisogno di più acqua se deve continuare a fabbricare mattoni e solo la Luce sa dove la troverò per lui.» Uscì dalla sala comune come se avesse dimenticato tutto delle tre donne che gli avevano appena giurato di servirlo.

Scoprirono che Joni era il grosso uomo calvo che le aveva prelevate dalla baracca e che adesso aspettava davanti alla locanda di fianco a un carro dalle ruote alte coperto da un telo, con un cavallo magro attaccato al giogo. Alcuni abitanti del villaggio stavano in piedi per assistere alla loro partenza, ma la maggior parte sembrava essere ritornata alle proprie abitazioni al riparo dal caldo. Gareth Bryne era già lontano in fondo alla strada.

«Joni si accerterà che raggiungiate sane e salve la tenuta» spiegò Caralin. «Fate quello che vi verrà detto e non troverete duro vivere qui.» Per un po’ la donna le soppesò, gli occhi scuri erano quasi attenti quanto quelli di Siuan. Quindi annuì come se fosse soddisfatta e si affrettò a seguire Bryne.

Joni tenne aperti per loro i lembi del telo sul retro del carro, ma non le aiutò a salire e a sedersi. Non c’era nemmeno uno strato di paglia e la pesante tela manteneva il calore. L’uomo non disse una parola. Il carro ondeggiò mentre saliva a cassetta, nascosto dalla tela. Min lo sentì fare un verso al cavallo e il veicolo si mosse, con le ruote che scricchiolavano leggermente e rimbalzando nelle buche occasionali.

C’era giusto uno spacco nella tela verso il fondo del carro per consentire a Min di vedere il villaggio che si rimpiccioliva alle loro spalle per poi svanire, rimpiazzato da boschetti e campi recintati. Min era troppo stordita per parlare. La grande causa di Siuan si sarebbe conclusa col pulire pavimenti e lavare pentole. Non avrebbe mai dovuto aiutare la donna e rimanere con lei. Avrebbe dovuto andare a Tear alla prima opportunità.

«Be’» osservò Leane all’improvviso, «alla fine non si è risolta male.» Era tornata alla solita voce energica, ma c’era una velatura di eccitazione — eccitazione! — e le guance erano rosse. «Poteva andar meglio, ma l’esercizio aiuterà.» La risata bassa era quasi una risatina. «Non mi ero mai resa conto di quanto potesse essere divertente. Quando ho sentito che il polso gli accelerava...»

Per un po’ protese la mano come aveva fatto con Bryne. «Non credo di essermi mai sentita così viva, così consapevole. Zia Resara diceva che gli uomini erano uno sport migliore che cacciare con i falchi, ma non lo avevo mai capito bene fino a oggi.»

Cercando di restare dritta contro il dondolio del carro, Min la guardò con gli occhi sgranati. «Devi essere impazzita» esordì alla fine. «Quanti anni di servizio abbiamo appena giurato? Due? Cinque? Immagino che speri che Gareth Bryne li trascorrerà trastullandosi sulle tue ginocchia! Be’, spero che ti deluda. Ogni giorno!» Lo sguardo stupito nel viso di Leane non la calmò. Si aspettava che rimanesse impassibile? Min in realtà non era arrabbiata con Leane. Si voltò per lanciare un’occhiata a Siuan. «E tu! Quando decidi di arrenderti non fai le cose in piccolo! Ti sei piegata come un agnello destinato al mattatoio. Perché hai scelto quel giuramento? Luce, perché?»

«Perché» spiegò Siuan, «era il solo giuramento per indurlo a non metterci dei soldati di guardia giorno e notte, tenuta o no.» Semidistesa sulle assi del carro la fece sembrare la risposta più ovvia del mondo. E Leane pareva d’accordo.

«Non intendi mantenerlo» concluse Min dopo un po’. Fu un sussurro stupito, ma anche così lanciò preoccupata delle occhiate alla tela di copertura che nascondeva Joni. Non credeva che l’uomo avesse sentito.

«Intendo fare quello che devo» rispose con fermezza Siuan, ma a bassa voce. «In due o tre giorni, quando sarò sicura che non ci sorvegliano da vicino, ce ne andremo. Temo che dovremo rubare dei cavalli, visto che i nostri sono scomparsi. Credo che Bryne abbia delle buone stalle. Mi dispiacerà.» E Leane se ne stava seduta come un gatto con la crema sui baffi. Doveva averlo capito subito e per quello non aveva esitato a giurare.

«Ti dispiacerà rubare i cavalli?» chiese Min rauca. «Stai progettando di infrangere un giuramento che chiunque, a parte gli Amici delle Tenebre, manterrebbe e rimpiangi di dover rubare alcuni cavalli? Non riesco a crederci. Non vi riconosco più.»

«Intendi davvero rimanere a strofinare pentole?» chiese Leane, con la voce altrettanto bassa. «Quando Rand è là fuori con il tuo cuore in tasca?»

Min divenne furiosa. Desiderava che non avessero mai scoperto che era innamorata di Rand al’Thor. In certi momenti non avrebbe voluto scoprirlo mai nemmeno lei. Un uomo che sapeva appena della sua esistenza, uno come lui. Quel che Rand era e il fatto che non la aveva mai guardata due volte non sembravano più così importanti. Voleva dire che avrebbe mantenuto il giuramento e dimenticato Rand il tempo richiesto per ripagare il debito. Solo che non riusciva ad aprire la bocca. Che sia folgorato! Se non lo avessi mai incontrato adesso non mi troverei in questo guaio! pensò. Quando il silenzio fra le donne divenne insostenibile per i gusti di Min, spezzato solo dal ritmico scricchiolio delle ruote e il tonfo attutito degli zoccoli dei cavalli, Siuan parlò. «Intendo fare quel che ho giurato. Quando avrò portato a termine quel che devo. Non ho giurato di servirlo immediatamente, ho fatto attenzione a non accennarlo, per essere precisa. Un punto sottile che so Gareth Bryne non apprezzerà, ma comunque vero.»

Min sprofondò stupita, lasciandosi dondolare dal carro in movimento. «Vuoi scappare e poi tornare indietro fra qualche anno per servire Bryne? L’uomo venderà la tua pelle a una conceria. Le nostre pelli.» Fino a che non parlò non si era resa conto di aver accettato la soluzione di Siuan. Fuggire, poi tornare indietro per... Non posso! Amo Rand. E lui non si accorgerebbe nemmeno se Gareth Bryne mi facesse lavorare nelle sue cucine per il resto della mia vita! si disse angosciata.

«Sono d’accordo che non è un uomo da sottovalutare» sospirò Siuan. «L’ho già incontrato prima. Avevo il terrore che potesse riconoscere la mia voce. I volti possono cambiare ma le voci restano le stesse.» Si toccò il viso pensierosa, come faceva spesso, senza pensarci. «I volti cambiano» mormorò. Quindi il suo tono divenne più fermo. «Ho già pagato un prezzo alto per quello che devo fare, e pagherò anche questo. Se devi annegare o cavalcare un pesce leone, cavalchi e al meglio. Questo è quanto, Serenla.»

«Essere una cameriera non è il destino che sceglierei io» intervenne Leane, «ma è nel futuro e chi sa cosa potrebbe accadere prima? Riesco a ricordarmi fin troppo bene di quando pensavo di non avere un futuro.» Sulle labbra le apparve un piccolo sorriso, gli occhi erano semichiusi e sognanti e la voce vellutata. «Inoltre non credo che venderà le nostre pelli. Concedimi qualche anno per esercitarmi e pochi minuti con lord Gareth Bryne, allora ci accoglierà a braccia aperte e ci ospiterà nelle stanze migliori. Ci coprirà di seta e ci offrirà la sua carrozza per portarci dove vogliamo.»

Min la lasciò immersa nelle sue fantasie. A volte credeva che tutte e due le donne vivessero in un mondo di sogni. Le venne in mente un altro particolare. Una piccola cosa, ma cominciava a essere irritante. «Ah, Mara, spiegami una cosa. Ho notato che alcune persone sorridono quando mi chiami per nome. Serenla. Lo ha fatto anche Bryne e ha detto qualcosa su mia madre che aveva avuto una premonizione. Perché?»

«Nella lingua antica» spiegò Siuan, «significa ‘figlia ostinata’. Avevi davvero un’aria ostinata la prima volta che ci siamo incontrate.» Lei aveva fatto quell’osservazione! Siuan, la donna più ostinata del mondo! Aveva un sorriso ampio quanto il suo volto. «Naturalmente sembra che stai imparando. Forse al prossimo villaggio potrei chiamarti Chalinda. Significa ‘ragazza dolce’. O forse...»

D’improvviso il carro sobbalzò più forte di prima, quindi prese velocità come se il cavallo fosse stato spronato al galoppo. Scosse come grano attraverso un setaccio le tre donne si fissarono sorprese. Quindi Siuan si alzò e scostò le tende che le separavano dal sedile del conducente. Joni non c’era più. Scavalcando la cassetta Siuan afferrò le redini e le tirò, facendo fermare il cavallo. Min spalancò le tende per cercare.

La strada qui passava attraverso un boschetto, quasi una piccola foresta di querce, olmi, pini ed ericacee. La polvere sollevata dal salto si stava ancora depositando, in parte su Joni, disteso a terra sei o sette passi dietro di loro.

Istintivamente Min balzò giù dal carro e andò a controllarlo. Respirava ancora, ma aveva gli occhi chiusi e un taglio insanguinato sul lato della testa dove cominciava ad apparire un rigonfiamento livido.

Leane spinse Min da un lato e toccò il capo di Joni con mani sicure. «Vivrà» sentenziò. «Non mi pare che ci siano fratture, ma avrà mal di testa per alcuni giorni al risveglio.» Appoggiata sui talloni intrecciò le dita e la voce divenne triste. «In ogni caso non posso fare nulla per lui. Che io sia folgorata, mi sono ripromessa che non ci avrei pianto di nuovo.»

«Il punto è...» Min deglutì e iniziò di nuovo. «Il punto è, lo carichiamo sul carro e lo portiamo alla tenuta, o... andiamo via?» Luce, non sono migliore di Siuan! si disse.

«Potremmo portarlo fino alla prossima fattoria» intervenne Leane.

Siuan le raggiunse guidando il cavallo del carro come se temesse che quell’animale mansueto potesse morderla. Diede un’occhiata all’uomo in terra e aggrottò le sopracciglia. «Non se lo è procurato cadendo. Non vedo radici o sassi che possano averlo causato.» Iniziò a esaminare la foresta che le circondava e un uomo cavalcò fuori dagli alberi su un alto stallone nero guidando tre giumente, di cui una irsuta e due palmi più bassa delle altre due.

Era alto e indossava una giubba di seta blu con una spada lungo il fianco, i capelli scendevano ricci sulle spalle ampie, affascinante malgrado un aspetto severo come se la disgrazia lo avesse colpito profondamente. Ed era l’ultimo uomo che Min si sarebbe aspettata di vedere.

«È opera tua?» chiese Siuan.

Logain sorrise mentre si fermava vicino al carro, nonostante l’espressione non fosse divertita. «Una fionda è un oggetto utile, Mara. Siete fortunate che sia qui. Non mi aspettavo che avreste lasciato il villaggio per qualche altra ora ancora, e credevo che per allora sareste state appena in grado di camminare. Sembra che il lord locale sia stato indulgente.» Di colpo il volto divenne anche più cupo e la voce dura come pietra. «Credete che vi avrei abbandonate al vostro destino? Forse avrei dovuto. Mi hai fatto delle promesse, Mara. Voglio la vendetta che mi hai assicurato. Ti ho seguita fino a metà strada dal Mare delle Tempeste in questa ricerca, anche se non mi hai detto cosa stiamo cercando. Non ho chiesto come progetti di darmi quello che mi hai preannunciato. Ma adesso ti dirò una cosa. Il tuo tempo sta scadendo. Concludi velocemente la tua ricerca e tieni fede alla tua promessa, o ti lascerò da sola a trovare la tua strada. Scoprirai presto che la maggior parte dei villaggi non è molto accogliente per gli estranei senza denaro. Tre donne graziose da sole? La sola vista di questa» toccò la spada che aveva sul fianco, «vi ha salvato la pelle più volte di quanto sappiate. Scopri presto quello che stai cercando, Mara.»

L’uomo non era stato così arrogante all’inizio del viaggio. Allora si era mostrato umile nell’aiutarle, umile per quanto uno come lui potesse essere. Sembrava che il tempo trascorso e la mancanza di risultati avessero ridotto la sua gratitudine.

Siuan non distolse lo sguardo. «Lo spero» rispose con fermezza. «Ma se vuoi andare via, lascia i cavalli e vai! Se non vuoi remare, scendi dalla barca e nuota! Vedremo poi quanto andrai lontano da solo con la tua vendetta.»

Le mani di Logain strinsero la presa sulle redini finché Min sentì scrocchiare le nocche. L’uomo era scosso da forti emozioni. «Resterò un altro po’, Mara» rispose alla fine. «Solo un altro po’.»

Per un istante gli occhi di Min scorsero un alone fluttuare attorno alla testa dell’uomo, una corona radiosa d’oro e blu. Siuan e Leane non videro nulla naturalmente, ma sapevano che Min ne era capace. A volte distingueva cose che riguardavano le persone — le chiamava visioni — immagini o aure, e a volte ne capiva il significato. Che una donna si sarebbe sposata. Che un uomo sarebbe morto. Piccole faccende o grandi eventi, allegri o tetri, non c’era mai nessuna connessione o ragione riguardo chi, quando o dove. Le Aes Sedai e i Custodi avevano delle aure, la maggior parte della gente normale no. Non era sempre piacevole sapere.

Min aveva visto l’alone di Logain altre volte e ne conosceva il significato. Gloria futura. Ma per lui, forse più che per ogni altro uomo, non aveva alcun senso. Il cavallo, la spada e la giubba erano il frutto di scommesse ai dadi, anche se Min non era certa dell’onestà delle partite. Non possedeva niente altro e non aveva alcuna prospettiva se non le promesse di Siuan, e come avrebbe fatto a mantenerle? Solo quel nome probabilmente era già una sentenza di morte. Non aveva alcun senso.

Il buon umore di Logain tornò con la stessa immediatezza con cui era sparito. Estrasse un sacchetto pieno di monete da dietro la cintura e lo, fece tintinnare. «Ho trovato del denaro. Non dovremo dormire in un altro fienile per un po’.»

«Lo abbiamo sentito» replicò secca Siuan. «Immagino che non dovevo aspettarmi di meglio da te.»

«Consideralo un contributo alla tua ricerca.» Siuan distese la mano ma l’uomo legò di nuovo il sacchetto alla cintura con un sorriso vagamente denigratorio. «Non voglio contaminare la tua mano con denaro rubato, Mara. E poi forse in questo modo posso assicurarmi che non sarai tu a voltarmi le spalle e lasciarmi da solo.» Sembrava che Siuan avrebbe potuto spezzare un chiodo in due con un morso, ma non disse nulla. Ancora a cavallo, Logain osservò la strada verso le Sorgenti di Kore. «Vedo un gregge di pecore in avvicinamento e un paio di ragazzi. È giunto il momento di andare via. La voce si spargerà presto.» Guardando in basso diede un’occhiata a Joni che ancora giaceva svenuto. «E porteranno qualcuno per aiutarlo. Non credo di averlo colpito abbastanza forte da causargli guai seri.»

Min scosse il capo, l’uomo continuava a sorprenderla. Non credeva si sarebbe preoccupato dell’uomo che aveva ferito alla testa.

Siuan e Leane si affrettarono a salire a cavallo. Leane sulla giumenta grigia che aveva chiamato Margherita e Siuan su Bela, la bassa giumenta irsuta. Per Siuan fu complicato. Non era una cavallerizza. Dopo aver trascorso settimane in sella, ancora trattava Bela come un pericoloso cavallo da battaglia. Leane invece gestiva Margherita senza sforzo. Min sapeva di essere a metà fra le due donne. Salì in groppa a Rosa Selvatica, la sua cavalla baia, con più grazia di Siuan e meno di Leane.

«Credi che ci inseguirà?» chiese Min mentre si avviavano al trotto verso sud, lontano dalle Sorgenti di Kore. La domanda era per Siuan, ma le rispose Logain.

«Il lord locale? Dubito che vi ritenga così importanti. Naturalmente potrebbe inviare un uomo a divulgare la vostra descrizione. Cavalcheremo il più lontano possibile prima di fermarci e lo faremo anche domani.» Sembrava che stesse prendendo il comando.

«Non siamo abbastanza importanti» ripeté Siuan, sobbalzando goffa sulla sella. Forse temeva Bela, ma l’occhiata che rivolse a Logain diceva che la sfida alla sua autorità non sarebbe durata a lungo.

Per quanto la riguardava Min sperava che Bryne le considerasse irrilevanti, e forse era così. Finché non avesse scoperto i loro veri nomi. Logain fece accelerare il passo allo stallone e lei spronò Rosa Selvatica per adeguarsi, proiettando i pensieri al futuro e non al passato.

Infilando i guanti di pelle dietro la cintura, Gareth Bryne prese dallo scrittoio il cappello di velluto con le falde ripiegate. Il cappello era all’ultima moda di Caemlyn. Aveva provveduto Caralin, a lui non interessava la moda, ma la donna riteneva che dovesse vestire in modo adeguato alla posizione che ricopriva ed era lei la mattina a preparagli gli abiti di seta e velluto.

Mentre lo indossava vide il proprio riflesso in una delle finestre dello studio. L’immagine era tremolante e piccola. Per quanto strizzasse gli occhi, il cappello e la giubba grigi, con i ricami a spirali d’argento sulle maniche e il colletto, non assomigliavano affatto all’elmetto e all’armatura ai quali era abituato. Quella parte della sua vita era finita. E questo... Serviva a riempire le ore vuote. Tutto qui.

«Sei certo di volerlo fare, lord Gareth?»

L’uomo si voltò dalla finestra verso Caralin, in piedi di fianco alla propria scrivania, dall’altro lato della stanza. Era coperta dai libri contabili della tenuta. La donna l’aveva gestita per tutti gli anni in cui era stato via, e senza dubbio ancora faceva un lavoro migliore del suo.

«Se le avessi fatte lavorare per Admer Nem come vuole la legge» proseguì, «te ne saresti sbarazzato.»

«Ma non l’ho fatto» le rispose. «E non lo rifarei se ci fosse un nuovo processo. Lo sai bene quanto me. Nem e i suoi parenti maschi avrebbero provato a molestare quelle ragazze giorno e notte. Mentre Maigan e il resto delle donne avrebbero reso le loro vite come il Pozzo del Destino, se le ragazze non fossero cadute per sbaglio in un vero pozzo e annegate.»

«Nemmeno Maigan potrebbe usare un pozzo» osservò amaramente Caralin, «non con questo tempo. Comunque capisco il tuo punto di vista, lord Gareth. Ma ormai hanno avuto più di un giorno e una notte per scappare in qualsiasi direzione. Le troverai non appena lo decidi se emani l’ordine di cercarle. Se possono essere trovate.»

«Thad può farlo.» Thad aveva più di settant’anni, ma riusciva ancora a rintracciare il vento del giorno prima fra le pietre alla luce lunare ed era stato più che contento di lasciare il mattonificio al figlio.

«Se lo dici tu, lord Gareth.» Lei e Thad non andavano d’accordo.

«Be’, quando le riporterai indietro saprò cosa farne nella residenza.» Qualcosa nella voce della donna, per quanto fosse casuale, aveva catturato la sua attenzione. Un accenno di soddisfazione. Dal giorno del suo arrivo, Caralin aveva introdotto una sequenza di graziose cameriere e fattrici nella residenza, tutte volenterose e impazienti di aiutare il lord a dimenticare i suoi affanni. «Sono delle spergiure, Caralin. Temo che riserverò loro il lavoro nei campi.»

Una breve tensione esasperata nelle labbra della donna confermò i suoi sospetti, ma Caralin mantenne un tono di voce indifferente. «Le altre due forse, lord Gareth, ma la grazia della ragazza domanese sarebbe sprecata nei campi e servire a tavola andrebbe altrettanto bene. Una bella donna. Comunque naturalmente sarà fatto come desideri.»

Dunque era lei che Caralin aveva scelto. Davvero una donna bella e giovane. Anche se era insolitamente diversa dalle altre domanesi che aveva conosciuto. Un po’ esitante da un lato e troppo precipitosa dall’altro. Come se stesse provando le sue arti per la prima volta. Ma era impossibile. Le domanesi addestravano le figlie a manipolare un uomo fin dalla culla. Non che quella donna non avesse ottenuto alcun risultato, ammise. Se Caralin l’avesse aggiunta alle fattrici... Davvero una bella donna.

Ma allora perché non era suo il viso che gli riempiva la mente? Perché si ritrovava a pensare a degli occhi azzurri? Che lo sfidavano come se desiderassero che avesse una spada, spaventati ma che si rifiutavano di arrendersi alla paura. Mara Tomanes. Di sicuro quella era una donna che manteneva la parola data, anche senza giuramenti. «La riporterò indietro» mormorò. «Scoprirò perché non ha tenuto fede al giuramento.»

«Come dici tu, mio signore» rispose Caralin. «Ho pensato che sarebbe adatta a farti da cameriera personale. Sela sta diventando un po’ troppo vecchia per correre su e giù per le scale quando è al tuo servizio, la sera.»

Bryne batté le palpebre. Cosa? Oh. La ragazza domanese. Scosse il capo per la sciocchezza di Caralin. Ma lui stava comportandosi in maniera meno sciocca? Qui era il lord e doveva rimanervi a prendersi cura della sua gente. Eppure Caralin lo aveva fatto meglio in tutti questi anni. Lui conosceva i campi di battaglia, i soldati e le campagne, forse anche un po’ di intrighi di corte. Caralin aveva ragione. Doveva togliersi la spada e quello stupido cappello, far scrivere a lei le descrizioni e... Invece disse: «Tieni bene d’occhio Admer Nem e la sua gente. Cercheranno di imbrogliarti meglio che possono.»

«Come vuoi tu, mio signore.» Le parole erano perfettamente rispettose, ma il tono di voce gli suggeriva di andare a insegnare a suo nonno a tosare le pecore. Ridacchiando Bryne uscì.

La residenza era poco più di una fattoria eccessivamente grande, due piani di mattoni e pietra sotto a un tetto d’ardesia, rimpiazzata di volta in volta da generazioni di Bryne. La casata Bryne possedeva quella terra, o forse piuttosto il contrario, da quando Andor era stato ricostituito dopo la distruzione dell’impero di Artur Hawkwing, migliaia di anni fa; e per tutto quel tempo aveva mandato i suoi figli a combattere nelle guerre del regno. Adesso lui non avrebbe fatto altre guerre, ma era troppo tardi per la casata Bryne. C’erano stati troppi conflitti e troppe battaglie. Lui era l’ultimo discendente. Senza moglie, figli o figlie. La linea si estingueva con lui. Tutto aveva una fine e la Ruota del Tempo girava.

Venti uomini attendevano vicino a dei cavalli sellati in un cortile in pietra davanti alla tenuta. Uomini con i capelli anche più grigi dei suoi, se li avevano. Tutti soldati esperti, ex militari, comandanti e portabandiera che lo avevano servito in un momento o l’altro della sua carriera. Joni Shagrin, che era stato il primo portabandiera delle guardie della regina, era in prima fila con la testa bendata, anche se Bryne sapeva con certezza che le figlie avevano incaricato i nipotini di farlo restare a letto. Era uno dei pochi ad avere famiglia, qui o altrove. La maggior parte aveva scelto di venire a servire Gareth Bryne piuttosto che bersi le pensioni pensando a un passato che nessun altro, tranne un vecchio soldato, era disposto a sentire.

Tutti avevano delle spade sopra le giubbe e pochi portavano lunghe lance dalle punte d’acciaio rimaste appese a una parete per anni fino a quella mattina. Dietro ogni sella era avvolta una coperta e bisacce piene, pentole, bollitori e qualche borraccia, come se stessero partendo per una campagna invece che per una spedizione di una settimana a caccia delle tre donne che avevano incendiato il fienile. Era la possibilità di rivivere i vecchi giorni, o almeno far finta.

Si chiese se fosse questo che lo turbava. Era certamente troppo vecchio per andare appresso agli occhi graziosi di una donna abbastanza giovane da essere sua figlia. Forse anche sua nipote. Non sono così sciocco, si disse con fermezza. Caralin poteva lavorare meglio senza lui fra i piedi.

Un magro castrone dinoccolato galoppò lungo il viale di querce che portava alla strada e il cavaliere smontò di sella prima che l’animale si fermasse del tutto. L’uomo quasi inciampò, ma riuscì a portarsi i pugni al petto per il saluto. Barim Halle, che aveva servito al suo comando come capo squadrone anni fa, era duro e nodoso, calvo e con delle sopracciglia bianche che sembravano voler fare ammenda per la mancanza di capelli.

«Sei stato richiamato a Caemlyn, mio capitano generale?» ansimò. «No» rispose troppo duramente Bryne. «Perché hai cavalcato come se avessi la cavalleria di Cairhien alle calcagna?» Alcune delle bestie scalpitarono consapevoli del suo cattivo umore.

«Mai cavalcato così veloce a meno che non li stessimo inseguendo, mio signore.» Il sorriso di Barim svanì quando si accorse che l’uomo non rideva. «Be’, mio signore, ho visto i cavalli e ho riconosciuto...» L’uomo rivolse un’altra occhiata al volto di Bryne e cambiò tono. «Be’, ho delle novità. Sono andato a Nuova Braem a visitare mia sorella e ne ho sentite parecchie.»

Nuova Braem era più vecchia di Andor — la Vecchia Braem era stata distrutta durante le Guerre Trolloc, mille anni prima l’arrivo di Artur Hawkwing — ed era un buon posto per le notizie fresche. Una città di confine di dimensioni modeste molto a est della sua tenuta, sulla strada da Caemlyn a Tar Valon. Anche con l’attuale linea di Morgase i mercanti impiegavano quella strada. «Be’, parla, uomo. Se ci sono novità, quali sono?»

«Come? Oh, stavo solo cercando di capire da dove incominciare, mio signore.» Barim si irrigidì istintivamente, come se stesse facendo rapporto. «La cosa più importante, ritengo, è che raccontano che Tear sia caduta. Gli Aiel hanno preso la Pietra e la spada che non può essere toccata è stata toccata. Dicono che qualcuno l’abbia liberata.»

«Un Aiel?» Fece eco Bryne incredulo. Un Aiel morirebbe prima di toccare una spada. Lo aveva visto durante la Guerra Aiel. Anche se si diceva che Callandor non fosse una spada. Qualunque cosa significasse.

«Non lo hanno detto, mio signore. Ma ho sentito dei nomi, Ren o qualcosa del genere, abbastanza spesso. Ne parlavano come un fatto concreto, non una voce. Come se tutti sapessero.»

Bryne aggrottò la fronte. Era più che preoccupante qualora fosse vero. Se Callandor era stata liberata, allora il Drago era Rinato. Secondo le Profezie L’Ultima Battaglia stava giungendo e il Tenebroso era quasi libero. Il Drago Rinato avrebbe salvato il mondo, così narravano le Profezie. E lo avrebbe distratto. Era una novità abbastanza grande da far galoppare Halle, se ci avesse pensato due volte. Ma il vecchio non aveva ancora finito. «Le novità su Tar Valon sono quasi altrettanto clamorose, mio signore. Dicono che ci sia una nuova Amyrlin Seat. Elaida, mio signore, che era la consigliera della regina.» Battendo di colpo le palpebre Halle proseguì velocemente. Morgase era terreno proibito e tutti gli uomini della tenuta lo sapevano, anche se Bryne non lo aveva mai dichiarato apertamente. «Dicono che la vecchia Amyrlin, Siuan Sanche, sia stata quietata e giustiziata. Anche Logain è morto. Quel falso Drago che hanno catturato e domato lo scorso anno. Ne parlavano come se fosse vero, mio signore. Alcuni sostenevano addirittura che si trovava a Tar Valon quando accadde tutto.»

Logain non era una grande novità, anche se aveva dato il via a una guerra nel Ghealdan proclamando di essere il Drago Rinato. C’erano stati diversi falsi Draghi negli ultimi anni. Questo poteva incanalare però, ed era un fatto. Fino a quando le Aes Sedai lo avevano domato. Be’, non era il primo uomo a essere catturato e domato, tagliato dal Potere affinché non potesse più incanalare. Si diceva che gli uomini come quelli, che fossero falsi Draghi o solo dei poveri schiocchi che l’Ajah Rossa catturava, non vivessero mai a lungo. Che perdessero la voglia di vivere.

Quella di Siuan Sanche però era una notizia. L’aveva incontrata quasi tre anni prima. Una donna che pretendeva obbedienza e non forniva spiegazioni. Dura come un vecchio stivale, una lingua come una lima e un carattere come quello di un orso con il mal di denti. Era convinto che lei sarebbe riuscita a eliminare ogni pretendente pezzo a pezzo a mani nude. Quietare per le donne era lo stesso che domare per gli uomini, ma molto più raro. Specialmente le Amyrlin Seat. Solo due in tremila anni avevano sofferto quel destino, per quanto la Torre ammettesse, anche se era possibile che ne avessero tenute nascoste altre due dozzine. La Torre era molto brava a nascondere ciò che voleva. Ma un’esecuzione dopo la quietatura sembrava inutile. Si diceva che le donne quietate non sopravvivessero più degli uomini domati.

Puzzava di guai. Tutti sapevano che la Torre aveva degli alleati, fili legati a troni e signori e signore potenti. Con una nuova Amyrlin eletta a questo modo, alcuni avrebbero certamente provato a verificare se questa nuova li controllava da vicino. E una volta che questo tizio a Tear avesse sedato un’opposizione — non che fossero possibili se aveva davvero preso la Pietra avrebbe fatto la sua mossa, contro Illian o Cairhien. La domanda era: quanto poteva essere veloce? Sarebbero state mosse delle forze contro di lui o per lui? Doveva essere il vero Drago Rinato, ma le casate avrebbero scelto entrambe le direzioni, come anche la gente comune. E se dei bisticci insignificanti si fossero verificati per via della Torre...

«Vecchio sciocco» mormorò. Vedendo Barim sobbalzare aggiunse, «non te. Un altro sciocco.» Niente di tutto questo ormai era affar suo. Tranne decidere quale strada avrebbe preso la casata Bryne quando fosse giunto il momento. Non che sarebbe importato a qualcuno, se non per sapere se potevano attaccarlo o meno. La casata Bryne non era mai stata grande o potente.

«Mio signore?» Barim lanciò un’occhiata agli uomini che attendevano a cavallo. «Credi di avere bisogno di me, mio signore?»

Senza nemmeno chiedere dove o perché. Non era il solo a essere annoiato della vita di campagna. «Raggiungici quando ti sarai organizzato. Ci dirigeremo verso sud sulla Strada dei quattro re per iniziare.» Barim lo salutò e andò via, trascinandosi appresso il cavallo.

Montando in sella Bryne mosse un braccio in avanti senza dire una parola e gli uomini si incolonnarono per due alle sue spalle mentre si incamminavano nel viale di querce. Voleva avere delle risposte. A costo di prendere questa Mara per la collottola e scuoterla, avrebbe avuto delle risposte.

La somma signora Alteima si rilassò mentre i cancelli del palazzo reale di Andor si aprivano per far entrare la sua carrozza. Non era sicura che le avrebbero aperto. Ci aveva messo molto a inviare un messaggio e ancora di più per ottenere una risposta. La sua cameriera, una ragazza magra acquistata a Cairhien, aveva gli occhi sgranati e si agitava, emozionata all’idea di entrare nella reggia.

Aprendo il ventaglio di merletto Alteima cercò di rinfrescarsi. Era ancora presto e il caldo sarebbe peggiorato. E pensare che aveva sempre creduto che Andor fosse un luogo fresco. Velocemente ripassò ancora una volta ciò che intendeva dire. Era una donna graziosa — e lo sapeva — con dei grandi occhi marroni che la facevano sembrare innocente, perfino inerme, ma sapeva di non esserlo, anche se le faceva comodo che gli altri si ingannassero. In particolar modo qui e oggi. Per la carrozza aveva speso quasi tutto l’oro che era riuscita a portarsi via quando aveva lasciato Tear. Se doveva riaffermare la sua posizione aveva bisogno di amicizie potenti e non c’era nessuna più potente ad Andor della donna che era venuta a trovare.

La carrozza si fermò vicino a una fontana in un cortile circondato da colonne e un inserviente con indosso una livrea rossa e bianca corse ad aprirle le porte. Alteima guardò appena il cortile o l’inserviente, la mente era concentrata sull’incontro che stava per avere. I capelli neri le scendevano fra le spalle da sotto una cuffia ricamata con delle perle. Altre perle erano inserite fra le pieghe dell’abito a collo alto di seta verde. Cinque anni prima aveva brevemente incontrato Morgase durante una visita ufficiale. Una donna che irradiava potere, riservata e maestosa come ci si aspetta da una regina e anche decorosa, alla maniera andorana. Vale a dire compassata. Le voci in città che avesse un amante — un uomo apparentemente non molto apprezzato — non calzavano bene con quell’immagine, ma, a quanto ricordava, la formalità dell’abito e il collo alto avrebbero soddisfatto Morgase.

Non appena i piedi di Alteima furono sul lastricato, la cameriera, Cara, scese di corsa e incominciò a sistemarle il vestito. Finché non chiuse di scatto il ventaglio per colpire i polsi della ragazza; un cortile non era il posto indicato per quel servizio. Cara — un nome incredibilmente sciocco — balzò indietro afferrandosi il polso con l’espressione ferita e gli occhi pieni di lacrime.

Alteima strinse le labbra irritata. La cameriera non sapeva nemmeno come accogliere un leggero rimprovero. Si era presa in giro da sola, questa ragazza non andava bene, era chiaramente impreparata. Ma una lady doveva avere un’ancella, specialmente se voleva differenziarsi da una massa di rifugiati ad Andor. Aveva visto uomini e donne lavorare sotto al sole, anche elemosinare per strada, mentre indossavano i resti di abiti nobili di Cairhien. Credeva di averne riconosciute una o due. Forse doveva prenderne una al suo servizio; chi poteva conoscere meglio le necessità di una lady se non una lady? Se erano ridotte a fare lavori manuali sarebbero state felici dell’opportunità. Poteva essere divertente avere una ex ‘amica’ come cameriera. Ma per oggi era troppo tardi e un’ancella priva di addestramento, una ragazza del posto, diceva fin troppo chiaramente che Alteima era al limite delle risorse, solo a un passo da questi straccioni che la circondavano.

Assunse un’espressione gentile e preoccupata. «Ti ho fatto male, Cara?» chiese dolcemente. «Resta nella carrozza e curati il polso. Sono sicura che qualcuno ti porterà dell’acqua fresca.» L’insulsa gratitudine sul viso della ragazza fu stupefacente.

L’uomo in livrea, ben addestrato, stava in piedi e fissava nel vuoto. Eppure si sarebbero sparse voci sulla gentilezza di Alteima, se conosceva i servitori.

Un giovane apparve davanti a lei con indosso la giubba rossa dal colletto bianco, il pettorale lucidato delle guardie della regina, e si inchinò con una mano sulla spada. «Sono il luogotenente Tallanvor, somma signora. Se vuoi seguirmi ti accompagnerò dalla regina Morgase.» Le offrì il braccio, che la donna accettò, ma per il resto non lo notò. Non le interessavano i soldati a meno che non fossero generali o signori.

Mentre il ragazzo la accompagnava per gli ampi corridoi che sembravano pieni di indaffarati uomini e donne in livrea — facevano bene attenzione a non ostacolarle il passaggio — Alteima esaminava gli arazzi, le casse di avorio cesellato, le fruttiere e i vasi di oro e argento o la sottile porcellana del Popolo del Mare. Nel palazzo reale non era in mostra lo stesso benessere che nella Pietra di Tear, ma Andor era pur sempre una terra ricca, forse quanto Tear. Un lord più grande le sarebbe andato bene, che fosse abbastanza malleabile per una donna ancora giovane, forse leggermente debole e malato. Con vaste proprietà. Sarebbe stato un inizio, e nel frattempo avrebbe scoperto esattamente dove erano le redini del potere ad Andor. Uno scambio di parole con Morgase qualche anno prima non era molto per presentarsi, ma lei aveva ciò che una regina potente desiderava e di cui aveva bisogno. Informazioni.

Alla fine Tallanvor la introdusse in una vasta sala d’attesa dal soffitto alto affrescato con uccelli e nuvole, delle sedie dorate riccamente intagliate erano sistemate davanti a un camino di marmo bianco. Con un certo piacere notò che il tappeto rosso e oro era un’opera di Tairen. Il giovane si inginocchiò. «Mia regina» disse improvvisamente, «come hai ordinato, ti porto la somma s’ignora Alteima di Tear.»

Morgase gli fece cenno di andare via. «Sei la benvenuta, Alteima. È bello vederti nuovamente. Siedi, così parliamo un po’.»

Alteima le fece la riverenza e mormorò dei ringraziamenti prima di prendere una sedia. Era piena di invidia. Si ricordava che Morgase era bella, ma la regalità della donna dai capelli biondo oro le diceva quanto fosse vago il ricordo. Morgase era una rosa in boccio, pronta a far impallidire qualsiasi altro fiore. Alteima non biasimava il giovane soldato che era inciampato uscendo. Anche lei era contenta che se ne fosse andato, così non avrebbe dovuto preoccuparsi di lui che guardava ciascuna di loro mettendole a confronto.

Però c’erano anche dei cambiamenti. Considerevoli. Morgase, per Grazia della Luce regina di Andor, Avvocata del Reame, Protettrice del Popolo, Alto Seggio della casata Trakand, molto riservata, regale e decorosa, indossava un abito di seta bianca lucente con una scollatura talmente ampia da stupire la cameriera di una taverna nel Maule. Era così aderente sui fianchi e le gambe che sarebbe andato bene a una donna di Tarabon. Le voci erano vere. Morgase aveva un amante. E se era cambiata così tanto, significava che cercava di soddisfare lord Gaebril e non il contrario. Morgase irradiava comunque potere e aveva una presenza che riempiva la stanza, ma quel vestito trasformava entrambe le qualità in qualcosa di inferiore.

Fu contenta di aver indossato un abito a collo alto. Una donna così profondamente schiava di un uomo poteva avere un accesso di gelosia per la provocazione più piccola o addirittura inesistente. Se avesse incontrato Gaebril lo avrebbe trattato con la massima indifferenza consentita dalle buone maniere. Anche solo il sospetto di pensare di ‘usufruire’ dell’amante di Morgase poteva procurarle il nodo scorsoio del boia invece di un marito ricco. Lo avrebbe fatto.

Una donna in rosso e bianco servì del vino eccellente del Muradin in calici di cristallo incisi con il leone rampante di Andor. Mentre Morgase ne prendeva uno, Alteima notò l’anello, un serpente d’oro che si mordeva la coda. L’anello del Gran Serpente era portato solo dalle donne che avevano ricevuto l’addestramento alla Torre Bianca, come Morgase, Aes Sedai e non. Era una tradizione millenaria che le regine di Andor venissero addestrate alla Torre. Ma tutti sapevano della rottura di Morgase con Tar Valon e dei sentimenti diffusi contro le Aes Sedai che potevano essere repressi velocemente se la regina avesse voluto. Perché portava ancora l’anello?

Alteima sarebbe stata cauta finché non avesse conosciuto le risposte.

La donna in livrea si ritirò nel lato opposto della stanza, abbastanza lontano per non ascoltare ma vicina per vedere quando dovesse intervenire.

Sorseggiando il vino Morgase disse: «È passato molto tempo da quando ci siamo conosciute. Tuo marito sta bene? Si trova qui a Caemlyn con te?»

Velocemente Alteima cambiò i propri piani. Non aveva pensato che Morgase fosse al corrente che era sposata, ma fu brava a improvvisare. «Tedosian stava bene l’ultima volta che l’ho visto.» Che la Luce lo facesse morire presto. Tanto valeva andare avanti con la farsa. «Stava occupandosi di alcune questioni per conto di Rand al’Thor e quello è un abisso pericoloso sul quale muoversi. I lord sono stati impiccati come se fossero dei criminali comuni.»

«Rand al’Thor» ripeté Morgase. «L’ho incontrato una volta. Non sembrava uno che si sarebbe proclamato Drago Rinato. Un pastore spaventato che cercava di non darlo a vedere. Eppure ripensandoci, sembrava anche che cercasse una via di fuga.» Gli occhi azzurri erano pensierosi. «Elaida mi aveva avvisata.» Sembrava inconsapevole di aver pronunciato queste ultime parole.

«Elaida era la tua consigliera?» chiese Alteima con cautela. Sapeva che era così e ciò rendeva le voci di una rottura anche più difficili da credere. Doveva scoprire se era vero. «Adesso che è diventata Amyrlin l’hai rimpiazzata?»

Gli occhi di Morgase divennero di nuovo attenti. «Non l’ho fatto!» Quindi la voce divenne subito delicata. «Mia figlia Elayne sta ricevendo l’addestramento alla Torre. È già diventata Ammessa.»

Alteima si sventolò energicamente sperando che non si vedesse il sudore sulla fronte. Ignorando come Morgase la pensasse sulla Torre, non poteva parlare con sicurezza. I suoi piani erano sull’orlo del precipizio.

A quel punto Morgase li salvò e, con essi, Alteima. «Hai detto che tuo marito è al servizio di Rand al’Thor. E tu?»

Alteima quasi sospirò di sollievo. Forse Morgase si comportava come una contadina sprovveduta con questo Gaebril, ma era ancora padrona di sé quando si trattava di potere e possibili pericoli per il suo reame. «Naturalmente lo ho osservato da vicino alla Pietra.» Questo avrebbe dovuto piantare il seme, se ce ne fosse stato bisogno. «Può incanalare e un uomo di quel tipo deve sempre essere temuto. Però è il Drago Rinato.

«Non c’è dubbio. La Pietra è caduta e Callandor era nelle sua mani quando è successo. Le Profezie... Temo di dover lasciare la decisione su cosa fare nei confronti del Drago Rinato a chi è più saggio di me. So solo che ho paura a rimanere dove lui governa. Anche una somma signora di Tear non può eguagliare il coraggio della regina di Andor.»

Morgase le rivolse una tale occhiataccia che per un momento la donna temette di aver esagerato con le lusinghe. Ad alcuni non piacevano quando erano troppo esplicite. Ma la regina si mise seduta e sorseggiò il vino. «Parlami di lui, quest’uomo che in teoria dovrebbe salvarci e distruggerci nel farlo.»

Successo. O, almeno, l’inizio. «È un uomo pericoloso a prescindere da qualsiasi discorso sul Potere. Un leone sembra pigro e mezzo addormentato finché attacca all’improvviso, a quel punto è tutto velocità e potere. Rand al’Thor sembra innocente, non pigro o ingenuo, non addormentato, ma quando attacca... Non ha rispetto per le persone e le loro cariche. Non ho esagerato quando ho detto che ha impiccato dei signori. È un fomentatore di anarchia. A Tear, secondo le sue nuove leggi, anche un sommo signore e una somma signora possono essere chiamati in giudizio davanti a un magistrato per ricevere una multa o peggio, sulla base delle accuse del più sudicio dei pescatori. Lui...»

Alteima si tenne fedele alla verità per come la vedeva. Poteva raccontarla come una bugia quando era necessario. Morgase sorseggiava il vino e ascoltava. Poteva sembrare che oziasse indolente, ma gli occhi mostravano che stava ascoltando e immaginando ogni parola. «Devi capire» concluse Alteima, «che ho solo toccato la superficie. Rand al’Thor e ciò che ha fatto a Tear sono argomenti di cui si potrebbe parlare per ore.»

«Le avrai» rispose Morgase e l’altra sorrise dentro di sé. Successo. «È vero» chiese la regina, «che ha portato con sé gli Aiel nella Pietra?»

«Oh, sì. Selvaggi con i volti nascosti la maggior parte del tempo, anche le donne pronte a uccidere velocemente. Lo seguivano come cani terrorizzando chiunque e hanno preso tutto quello che volevano dalla Pietra.»

«Credevo che fosse falso» rifletté Morgase. «Ci sono state molte voci in quest’ultimo periodo, ma non erano usciti dal deserto per vent’anni, fin dalla Guerra Aiel. Il mondo certamente non ha bisogno che questo Rand al’Thor riporti gli Aiel su di noi.» Lo sguardo della regina divenne di nuovo attento. «Hai detto ‘seguivano’. Sono andati via?»

Alteima annuì. «Proprio prima che lasciassi Tear. E lui è andato con loro.»

«Con loro!» esclamò Morgase. «Temevo che fosse a Cairhien proprio in questo...»

«Hai un’ospite, Morgase? Avrei dovuto essere stato avvisato, così avrei potuto porgerle il benvenuto.»

Un grosso uomo entrò nella stanza, alto, la giubba rossa ricamata in oro che aderiva alle enormi spalle e al torace. Alteima non ebbe bisogno di vedere l’espressione raggiante di Morgase per capire che si trattava di lord Gaebril. La sicurezza con cui aveva interrotto la regina parlava da sé. Sollevò un dito e la cameriera dopo aver fatto la riverenza andò via velocemente. Non aveva nemmeno chiesto il permesso a Morgase di congedare la sua ancella. Era molto bello, misterioso, con delle striature bianche sulle tempie.

Cercando di assumere un’espressione banale, Alteima gli rivolse un sorriso di saluto che sarebbe andato bene per un vecchio zio senza potere, ricchezza o influenza. Forse era benissimo, ma anche se non fosse appartenuto a Morgase, non avrebbe cercato di manipolarlo se non strettamente necessario. Sembrava anche più potente della regina.

Gaebril si fermò vicino a Morgase e le appoggiò una mano sulla spalla nuda in un modo molto familiare. Lei stava per appoggiargli il viso sul dorso della mano, ma gli occhi dell’uomo si posarono su Alteima. Era abituata agli sguardi maschili, eppure quegli occhi la mettevano a disagio. Erano fin troppo penetranti, vedevano troppo.

«Vieni da Tear?» Il suono della voce profonda le fece formicolare la pelle, anche le ossa; si sentiva come se fosse stata immersa nell’acqua gelata, ma stranamente l’ansia momentanea svanì.

Fu Morgase a rispondere. Sembrava che Alteima avesse perso la lingua con lui che la guardava. «Questa è la somma signora Alteima, Gaebril. Mi stava raccontando del Drago Rinato. Si trovava nella Pietra di Tear quando è caduta. Gaebril, c’erano davvero gli Aiel...» La pressione della mano dell’uomo la fece fermare. Sul viso di Morgase apparve un’espressione irritata che svanì subito, rimpiazzata da un sorriso raggiante rivolto a lui.

Lo sguardo dell’uomo, ancora su Alteima, la fece di nuovo rabbrividire e stavolta la donna esclamò. «Tutto questo parlare deve averti affaticata, Morgase» le disse senza spostare lo sguardo. «Fai troppo. Ritirati nelle tue stanze e dormi. Adesso. Ti sveglierò quando avrai riposato abbastanza.»

Morgase si alzò immediatamente, sempre sorridendogli con devozione. Gli occhi della donna sembravano leggermente vitrei. «Sì, sono stanca. Riposerò un po’, Gaebril.»

Lasciò la stanza senza nemmeno guardare Alteima, ma l’attenzione di quest’ultima era tutta su Gaebril. Il cuore le batteva veloce e il respiro era accelerato. Era certamente l’uomo più bello che avesse visto mai. Il più grande, il più forte e il più potente. I superlativi le scorrevano in mente come un torrente in piena.

Gaebril non prestò alcuna attenzione a Morgase, come lei. Disponendosi sulla sedia che la regina aveva lasciato libera, si appoggiò allo schienale allungando le gambe. «Dimmi perché sei venuta a Caemlyn, Alteima.» Fu di nuovo percorsa dal brivido. «La verità assoluta, ma sii breve. I dettagli potrai riferirmeli più tardi se vorrò conoscerli.»

La donna non esitò. «Ho tentato di avvelenare mio marito e sono dovuta fuggire prima che Tedosian e quella serva di Estanda mi uccidessero o peggio. Rand al’Thor voleva lasciarli fare, per dare un esempio.»

Raccontarlo la faceva sentire male. Non perché era un segreto, ma perché si rendeva conto che desiderava compiacerlo più di qualsiasi altra cosa al mondo e temeva che potesse mandarla via. L’uomo voleva la verità. «Ho scelto Caemlyn perché non potevo soffrire Illian, anche se Andor è poco meglio e Cairhien è prossima alla rovina. A Caemlyn posso trovarmi un marito ricco, o uno che si consideri il mio protettore in caso di bisogno, e usare il suo potere per...» Gaebril la fermò con un cenno della mano ridendo. «Una piccola gatta viziosa, però carina. Forse abbastanza per essere tenuta, con i denti e gli artigli ritirati.» Di colpo il viso dell’uomo divenne più intento. «Dimmi quello che sai di Rand al’Thor e specialmente dei suoi amici, se ne ha, i compagni e gli alleati.»

La donna raccontò tutto, parlando fino a quando le si seccò la gola e la voce divenne rauca. Non sollevò il calice fino a quando lui non le disse di bere, quindi bevve e proseguì. Poteva soddisfarlo meglio di quanto pensasse Morgase.

Le cameriere che lavoravano nella camera da letto di Morgase le rivolsero una riverenza, sorprese di vederla a metà mattinata. Facendo loro cenno di lasciare la stanza, si mise a letto ancora vestita. Per un po’ rimase a osservare gli intagli dorati della spalliera del letto. Qui non c’erano i leoni di Andor ma delle rose. Rappresentavano la corona della rosa di Andor e le rose le piacevano più dei leoni.

Smettila di essere ostinata, si rimproverò chiedendosi poi perché. Aveva detto a Gaebril che era stanca e poi... O era stato lui a dirglielo? Impossibile. Era la regina di Andor e nessun uomo le diceva di fare qualcosa. Gareth. Perché aveva pensato a Gareth Bryne? Lui certamente non le aveva mai detto di fare qualcosa, il capitano generale delle guardie della regina obbediva a quest’ultima, non il contrario. Ma lui era ostinato, si impuntava fino a quando la regina gli andava incontro. Perché sto pensando a lui? si chiese. Era ridicolo. Lo aveva mandato via perché si era opposto alla sua volontà, su cosa non le sembrava più tanto chiaro, ma non era importante. Si era opposto a lei. Ricordava solo vagamente i sentimenti che provava per lui, come se fosse andato via da anni. Ma certamente non poteva essere trascorso così tanto tempo. Smettila di essere ostinata!

Chiuse gli occhi e si addormentò immediatamente, un sonno tormentato da sogni irrequieti in cui fuggiva da qualcosa che non riusciva a vedere.

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