CRESCITA

Me la ricordo, ricordo la sensazione del suo seme caldo, toccato dalla luce del sole, che si raffreddava sulla mia mano, prima scivoloso poi appiccicoso, ma non riesco più a pensarci senza che mi vengano in mente l’uomo gorilla e l’ometto grasso legato alla poltroncina. Credo che siano rimasti sorpresi quando ho vomitato; lo spero, spero che siano rimasti sorpresi e incuriositi e abbiano pensato: Guarda, guarda, dunque non è stato lui; non è lui il cattivo, lo hanno incastrato… Oh, Dio mio, spero che il mio stomaco mi abbia difeso meglio del cervello, che abbia saputo parlare per me con altre parole.

Non sono colpevole, non sono stato io, ecco perché quello che l’uomo gorilla ha fatto mi ha schifato tanto; niente sangue, neppure una goccia, be’, soltanto una, nel vero senso della parola, un fottuto pixel sullo schermo: l’unica cosa che entrava nella carne era un ago, piccolo e delicato, non una sega a motore, un’accetta, un coltello o qualcosa del genere, no, ma è quell’immagine, quell’idea, il male stesso in persona che continua a tornare nei miei sogni, ad affollare i miei incubi, e sono io quello legato, sono io l’uomo sulla poltrona di cuoio e acciaio cromato e lui, con la sua faccia da gorilla e la sua voce stridula da bambino, è lì che spiega alla videocamera che nel flacone e nella siringa c’è dello sperma; quel pazzo fottuto l’ha riempita di sborra, ragazzi, sembra che ne abbia praticamente mezzo litro e intende iniettarla nelle vene dell’ometto e poi gli lega qualcosa intorno alla parte superiore del braccio nudo fissato alla poltrona, la stringe bene e aspetta che la vena sia ben visibile, mentre l’ometto urla e si dispera come un bambino e cerca di scuotere la poltrona per romperla, per farla a pezzi, ma è legato troppo bene e non ha un punto su cui far forza e intanto l’uomo con la maschera da gorilla procede: affonda l’ago nella carne dell’ometto facendo uscire solo una goccia di sangue e gli scarica in corpo tutta la siringa. Io vomito sul pavimento e loro fermano il video, mentre qualcuno va a prendere uno straccio.

Quando ho smesso di vomitare e di tossire, fanno ripartire il video e passiamo all’altra scena, in cui si vede l’alta poltrona da ospedale e di nuovo l’ometto con lo sguardo vuoto e McDunn parla di Stato Vegetativo Persistente.

Diamine, gli hanno fatto un test di ricerca del DNA e hanno scoperto che aveva in corpo un intero condominio; hanno collegato il fatto a un tizio che il giorno prima era andato nei gabinetti sotto Centre Point a ingaggiare ragazzi di vita, però a lui non interessava il trattamento completo, voleva semplicemente che sborrassero nella sua bottiglietta… Grazie per il tuo contributo amico, ogni piccola goccia conta, grazie, sta’ attento a quello che fai…


Sto pensando.


«Questo è l’effetto cascata, no?»

«No, è l’effetto spandimerda», spiega Clare, urlando per farsi sentire nella gran confusione. Tutti gli altri stanno applaudendo e gridando. Andy e William sono in piedi su una sedia: Andy si china in avanti, sopra una tavola carica di bicchieri, con una bottiglia di champagne in mano e l’altro braccio trattenuto da Andy che si sporge nella direzione opposta per bilanciarlo.

Sul tavolo sono impilate alcune centinaia di bicchieri da champagne che formano una piramide scintillante alta un paio di metri. Andy sta riempiendo di champagne il bicchiere posto all’apice della piramide: questo trabocca e riempie i tre bicchieri sotto di sé, e questi, a loro volta, riempiono i bicchieri al livello inferiore e così via, quasi fino alla base. Andy sta svuotando l’ottava magnum. Lancia un’occhiata all’ultimo strato di bicchieri.

«Come stiamo andando?» grida.

«Ancora! Ancora!» urlano gli altri.

«William!» grida qualcuno dalla folla. «Ti do cinquanta sterline se lo lasci andare!»

«Non pensarci nemmeno, Sorrell!» urla Andy, ridendo e inclinando sempre di più la magnum finché non è completamente vuota.

«Non per cinquanta misere sterline», ribatte William, ridendo, mentre lui e Andy continuano a oscillare. Poi Andy lancia la bottiglia vuota a qualcuno tra la folla, e il suo socio del Gadget Shop, un ex collega dell’agenzia di pubblicità, che ha qualche anno più di lui, gli porge un’altra bottiglia piena. Mi viene da pensare che, nel simbolismo di questa follia, sarebbe più consono se fosse lui a bilanciare Andy sulla sedia, ma ho l’impressione che il socio di Andy non sia un tipo così stravagante.

«Lasciami andare piano piano, Will!» urla Andy.

«Dio mio, che tentazione», ridacchia William, sporgendosi all’indietro e lasciando che Andy si chini lentamente sulla piramide di bicchieri.

«Tutto questo è infantile», borbotta Clare, scuotendo la testa.

«Cos’è che cosa?» chiede Yvonne con una bottiglia di champagne in mano, mentre si fa largo tra la folla.

«Tutto questo. Infantile», ribadisce Clare facendo un cenno con il capo alla piramide di bicchieri. Vede la bottiglia che Yvonne ha in mano. «Oh, ben fatto, donna», dice, e porge la flûte. Yvonne gliela riempie.

«Cameron?»

«Grazie.»

Riempie anche il suo bicchiere e poi rimane tra Clare e me, a osservare Andy che continua a versare champagne dalla cima della piramide. Yvonne indossa un vestitino nero che, ai miei occhi inesperti, potrebbe essere costato dieci sterline come mille; Clare è vestita in modo più appariscente, con un abito corto rosso scintillante che sembra dire: «Da grande voglio fare l’abito da sera». Andy e William sono rigorosamente in grigio, ma si sono tolti la giacca per l’operazione «cascata di bollicine».

«Ragazzi!» sbotta Yvonne, ridendo con aria dolente e affettuosa.

Mi guardo intorno. Quando Andy mi aveva invitato all’inaugurazione del Gadget Shop, avevo dato per scontato che si sarebbe tenuta nella nuova sede del negozio, a Covent Garden. Quel luogo, tuttavia, non soddisfaceva lo slancio esibizionista di Andy: non era né abbastanza sfavillante, né abbastanza drammatico, né abbastanza grandioso. Quindi lui aveva preso in affitto il Museo della scienza. O meglio, una parte di esso. Questo aveva suscitato l’interesse della gente. Un negozio è pur sempre un negozio, anche se vende giocattoli costosi ed esclusivi per adulti, ma un museo… be’, è affascinante. Il più affascinante è sicuramente il Museo di storia naturale — dare una festa all’ombra dei dinosauri in quello spazio enorme sarebbe stato semplicemente perfetto —, ma, per il Gadget Shop, il Museo della scienza era la sede più ovvia, senza contare che costava pure meno. Inoltre, tutti quelli che contano erano sicuramente già stati a qualche ricevimento al Museo di storia naturale; lì, invece, mai.

Sopra di noi c’è un enorme hovercraft, appeso un po’ di sghimbescio a cavi di metallo: un enorme coso praticamente rotondo con una cabina piccolissima e una spaventosa presa d’aria cilindrica al centro. Ricordo vagamente di averne costruito uno con i kit dei modellini Airfix, quando ero piccolo. Galleggia sopra di noi, scintillante nella penombra, come se fosse tenuto in aria da una nuvola di parole e di alcool, mentre la folla brulicante chiacchiera senza posa e festeggia Andy; lo champagne — che sta già colando dal bordo del tavolo sulla protezione sistemata sul pavimento — è quasi arrivato a riempire i bicchieri del penultimo livello.

«Di più! Di più!» urla la gente.

«Oh, di meno, di meno», borbotta Clare, con aria di disapprovazione.

«Manca molto?» urla Andy.

«Di più! Di più!» risponde la folla.

Li guardo. Cristo, sono tutta gente come me. Gente del mondo dei mass media, gente dell’agenzia di pubblicità che Andy ha appena lasciato, qualche politico — per la maggior parte Tories o socialdemocratici, anche se ci sono pure due o tre laburisti —, banchieri, avvocati, consulenti, consulenti finanziari, attori, gente della TV — almeno una troupe televisiva, anche se i riflettori per il momento sono spenti — e altri personaggi di vario genere, gente che è, be’, professionalmente nota, e per il resto gente che sembra far parte di un enorme metaparty, oppure scritturata apposta per impersonare gente che si sta divertendo un sacco: affittati-un-party o qualcosa del genere. Sono un po’ sorpreso che non abbiano pensato a una torta con modella seminuda incorporata, ma forse sarebbe stato un po’ troppo plebeo per Andy. Clare mi ha detto che c’è voluto del bello e del buono per convincerlo — una volta deciso a compiere la non proprio elegantissima acrobazia della piramide di bicchieri — a non usare vere flûte da champagne, ma coppe, come fanno tutti; con le flûte, la piramide sarebbe diventata troppo alta e troppo instabile.

«Come sei taciturno, Cameron», mi dice Yvonne, sorridendomi.

«Già», rispondo, pensieroso.

«Credo che Cameron disapprovi», commenta Clare con aria di superiorità. Pronuncia la «o» molto lunga.

Clare è una ragazza alta, castana, dal fisico asciutto come il fratello; tuttavia, mentre Andy è — al momento — robusto e abbronzato, Clare è eterea e di un pallore quasi luminoso. So che fa troppo uso di coca e passa troppo tempo nei nightclub, ma forse è la gelosia che mi fa parlare: la mia condizione di cronista alle prime armi al Caley e il ridicolo salario che mi frutta rendono assolutamente fuori della mia portata abitudini così costose. Clare è sempre stata più incline del fratello a ostentare abitudini aristocratiche; Andy, invece, possiede quell’aura di ragazzo in gamba e senza connotazione di classe che soltanto i ricchi di famiglia riescono a esibire con naturalezza.

Giare lavora per un’agenzia immobiliare così esclusiva che tratta quasi unicamente grandi proprietà e mai semplici edifici o abitazioni, per quanto costose. Se non ci sono almeno un paio di fiumi in cui praticare la pesca al salmone, qualche miglio quadrato di bosco e una manciata di colline, laghi e laghetti, loro non le prendono neppure in considerazione.

«A Cameron», prosegue Clare, «piace restare qui, in disparte, a sprizzare tutta la sua disapprovazione oltraggiata e socialista e a pensare a quando, dopo la rivoluzione, saremo tutti costretti a tirare aratri, a mangiare rape crude e a prendere parte a interminabili sedute di autocritica alla luce delle candele nelle fattorie collettive, vero Cameron?»

«Gli aratri non si tirano», le dico, «si spingono.»

«Lo so, caro. C’è una fattoria proprio dietro la nostra proprietà, e papà ama definirsi un agricoltore, ma io intendevo dire che noi parassiti capitalisti saremo costretti a prendere il posto dei buoi, non dei poveri contadini dalle mani callose che sono il sale della terra, e che ci prenderanno a frustate.»

«Be’, mi dispiace tanto deluderti», ribatto, «ma temo che la rivoluzione che immagini sia molto all’acqua di rose rispetto a quella che avevo in mente. Ti pensavo già ridotta a farina d’ossa. Scusa.» Mi stringo nelle spalle e guardo Andy che incomincia a versare quella che, secondo tutti i presenti, è l’ultima magnum necessaria a riempire completamente la piramide di bicchieri.

Clare fissa Yvonne. «Cameron ha sempre tenuto una linea dura su questi argomenti», le spiega. «Oh, tanto vale che ce la godiamo prima che arrivino i commissari del popolo a prendersi la loro perfida rivincita. Vado a incipriarmi il naso. Vieni con me?»

Yvonne scuote la testa. «No, grazie.»

«Allora ti lascio con il nostro giovane paratrotzkista», conclude Clare, dandole un colpetto sulla spalla e facendomi l’occhiolino, mentre si allontana tra la folla festante. La piramide non è ancora del tutto piena.

«Ancora una bottiglia! Ancora una bottiglia!» grida qualcuno.

Mi volto verso Yvonne. «Allora, come vanno gli affari con i capitali di rischio?»

«Rischiosamente», risponde Yvonne, gettando indietro i capelli che le arrivano alle spalle. «E al giornale?»

«Sono fermo in colonna.»

«Ah, ah.»

Alzo le spalle. «No, invece mi piace. Lo stipendio non è un granché, ma ogni tanto vedo il mio nome in prima pagina e, per un attimo, mi sembra quasi di aver raggiunto il successo, almeno fino a che non mi capita una cosa come questa.» Faccio un cenno con il capo in direzione di Andy, che sta prendendo l’ennesima magnum e si china nuovamente sopra il tavolo. Il suo compito è pressoché terminato: la piramide è quasi piena.

Yvonne gli lancia un’occhiata che potrebbe essere di disgusto. «Oh, non farti impressionare da ’ste stronzate», mi dice.

Il suo tono mi sorprende. «Credevo che ti piacessero», esclamo.

Lei si guarda intorno lentamente, osservando il posto, la gente. «Hmm», mormora e riesce a esprimere con quell’unico suono una gamma incredibile di significati ambigui. Poi mi fissa. «Non ti capita mai di desiderare di avere una piccola bomba H?»

«Costantemente», ammetto, dopo una breve pausa.

Lei annuisce, stringendo gli occhi per un attimo, poi solleva le spalle e si volta verso di me, ridendo. «Paratrotzkista?» mi chiede, seguendo con lo sguardo Clare che si sta dirigendo, esile e maestosa, verso la toilette delle signore.

«Una volta ho fatto l’errore di cercare di portarmela a letto», confesso.

«Cameron! Davvero?» Yvonne sembra estasiata. «E com’è finita?»

«Lei si è messa a ridere.»

Yvonne assume un’espressione dispiaciuta, si guarda in giro e poi mormora: «Avrei dato buone referenze».

Sorrido e bevo il mio champagne, ripensando a quella volta che Andy venne a Stirling per la festa di Yvonne e William, cinque anni prima. Sembra che sia passata un’eternità.

«Lo hai mai detto a William?» le chiedo.

Yvonne scuote la testa. «No», risponde, alzando le spalle. «Forse quando saremo vecchi.»

Mi viene in mente di rivelarle che quella sera c’era Andy, nel sacco a pelo ai piedi del letto, e che aveva sentito tutto, ma, mentre sto riflettendo, qualcosa va storto: uno dei bicchieri deve essere difettoso, o forse è semplicemente colpa del peso eccessivo… Fatto sta che si sente il rumore di qualcosa che si rompe: un lato della piramide comincia a crollare, e una valanga di vetro e di champagne si abbatte sul tavolo. Infine l’intera piramide si fracassa a terra, inondando i tappeti e il pavimento.

«Oh, oh!» esclama Andy, sempre tenendo un braccio teso in avanti.

La folla applaude.


Sto pensando.


Quattro anni dopo, mentre stava trascorrendo un week-end a Strathspeld in compagnia del suo fidanzato, Clare morì per un attacco di cuore. Lo venni a sapere da un ragazzo che viveva ancora al villaggio. Non riuscivo a crederci. Un attacco di cuore. Erano i dirigenti d’azienda maschi e sovrappeso, perennemente incastrati dietro il volante delle loro Mercedes, che morivano per un attacco di cuore, oppure gli operai artritici sempre vissuti a pesce fritto, patatine e sigarette, e non le donne neppure trentenni. Cristo, allora Clare era persino in perfetta forma fisica: aveva smesso da tempo con la coca e si era data a stronzate salutiste tipo la corsa e il nuoto. Non poteva essere un attacco di cuore.

Era esattamente ciò che aveva pensato il medico… e proprio quello che aveva contribuito a farla morire. Il medico del posto — lo stesso che aveva partecipato al salvataggio di Andy quando questi aveva rischiato di morire sotto il ghiaccio, tanti anni prima — era andato in vacanza, e, da quello che si mormorava, pareva proprio che il suo sostituto, un altro medico incaricato di tenere in funzione lo studio, considerasse il proprio soggiorno a Strathspeld come una vacanza e passasse più tempo in riva al fiume con la canna da pesca che al capezzale dei malati con lo stetoscopio. Quel pomeriggio, quando Clare cominciò ad accusare dolori al petto, la famiglia lo chiamò, ma lui non si fece vedere. Disse che probabilmente si era stirata qualche muscolo. Riposo e antidolorifici. Lo chiamarono altre due volte e, finalmente, si presentò a sera inoltrata, dopo che la famiglia gli aveva fatto capire che non era abituata a quel genere di trattamento (e dopo che qualcuno gli aveva rivelato che il miglior ruscello per la pesca dei salmoni si trovava nella proprietà dei Gould). Tuttavia non riscontrò niente di grave e se ne andò.

Quando Clare perse conoscenza e le vennero le labbra bluastre chiamarono un’ambulanza, ma già era tardi.

Andy e il suo socio avevano venduto la catena dei Gadget Shop l’anno precedente: Andy non aveva ancora deciso che cosa avrebbe fatto in seguito — ormai era veramente ricco — e, quando Clare morì, si trovava in pieno Sahara. I funerali si svolsero in forma privata, solo con i familiari. Andy riuscì a tornare appena in tempo. Una settimana dopo, chiamai la signora Gould, e lei mi disse che Andy era ancora là. Pensava che gli avrebbe fatto piacere vedermi.


Una fredda e grigia giornata di aprile, una di quelle giornate di fine inverno in cui la terra ha l’aria esausta e sfinita e pare che il mondo abbia perso ogni traccia di colore. Le nuvole dense e basse si muovevano lentamente sopra le colline, sospinte da un vento umido e freddo, una distesa di piombo che nascondeva il cielo e la neve sulle colline più lontane. Gli alberi, i cespugli e i campi avevano tutti lo stesso tono spento, come se su ogni cosa si fosse posato un sottile strato di polvere: ovunque si volgesse lo sguardo si vedevano soltanto fango, foglie marce e rami nudi che sembravano morti. Pensai che, se fossi appena arrivato dal Sahara e mi fossi trovato lì, avrei fatto di tutto per tornare indietro al più presto possibile, famiglia o non famiglia.

Mi fermai alla casa per porgere le condoglianze ai genitori di Andy. La signora Gould era coperta di farina e odorava vagamente di gin. Era una donna alta, tutta nervi, con i capelli precocemente ingrigiti; portava imponenti occhiali con lenti bifocali e si vestiva unicamente di tweed. Intorno al collo aveva l’immancabile filo di perle, con cui giocherellava in continuazione. Si scusò per il disordine, si pulì le mani sul grembiule e mi strinse la mano. Le manifestai tutta la mia partecipazione al lutto e lei si guardò intorno con aria distratta, come se non sapesse che fare; poi la porta della biblioteca si aprì e il signor Gould mise fuori la testa.

Pur essendo alto più o meno come la moglie, ormai si era un po’ ingobbito. Indossava una vestaglia. Di solito pareva il modello del gentiluomo di campagna, l’archetipo del proprietario terriero con abito di tweed tre pezzi, scarpe dalla suola grossa, camicia a quadri e berretto; quando il tempo diventava particolarmente brutto, poi, ricorreva a un vecchio Barbour impermeabilizzato più volte. Non l’avevo mai visto indossare qualcosa di morbido, di così umano come un paio di calzoni sformati, una camicia con il collo aperto e una vestaglia… Il volto forte e squadrato era teso, e i radi capelli castani tutti spettinati. Quando mi vide, si avvicinò, mi strinse una mano e disse: «Una cosa terribile, una cosa terribile». Ripeté la frase varie volte, mentre dalla porta aperta della biblioteca usciva, suonata a tutto volume, una melodia di Beethoven; la moglie allungò una mano per lisciargli i capelli arruffati. Senza neppure cercare il mio sguardo, l’uomo fissò un punto dietro le mie spalle, ed ebbi l’impressione che, al pari della moglie, stesse aspettando di veder succedere qualcosa d’importante oppure che attendesse qualcuno destinato ad arrivare da un momento all’altro; parevano entrambi incapaci di credere a quanto era appena accaduto, convinti che tutto non fosse altro che un sogno oppure un orribile scherzo. Sembravano in attesa che Clare entrasse dalla porta, togliendosi con un calcio gli stivali gialli, sporchi di fango, e reclamando a gran voce una tazza di tè.


Andy era fuori, a sparare. Sentivo l’abbaiare del fucile mentre mi allontanavo dalla casa e attraversavo il bosco cupo e grondante d’acqua, cercando di evitare il sentiero fangoso e di camminare sull’erba morta e appiattita ai lati, in modo da non inzupparmi le scarpe.

Il campo era circondato dagli alberi e dava sul fiume a monte del lago. In quel momento, il fiume non si vedeva, ma quella settimana aveva piovuto molto e il corso d’acqua aveva allagato un angolo del campo, lasciando una specie di laghetto poco profondo nel quale si rifletteva l’argento scuro e opaco delle nuvole. La superficie era piatta e immobile.

Su questo lato del campo c’era un piccolo spiazzo semicircolare di ghiaia, circondato interamente da assi di legno: lungo il bordo frontale dello spiazzo erano disposti sei paletti, ognuno sormontato da una piccola tavola, una sorta di vassoio. A una ventina di metri dallo spiazzo di ghiaia c’era una collinetta di terra che nascondeva il meccanismo di lancio dei piattelli. Sui due lati, a distanza più o meno uguale, si scorgevano altre due collinette. A mano a mano che mi avvicinavo, sentivo più chiaramente il piccolo generatore che borbottava dalla montagnola centrale. Uscii dagli alberi e guardai in basso, verso il punto in cui si trovava Andy. Mi fermai un istante a osservarlo.

Indossava calzoni di velluto a coste, camicia, maglione e gilet imbottito. Su uno dei paletti vicini era appeso un berretto. Andy era molto abbronzato. Sul ripiano davanti a lui c’era una scatola di cartucce aperta; da un interruttore a pedale posto ai suoi piedi partiva un lungo tubo flessibile che azionava la catapulta per il lancio dei piattelli. Andy infilò sei cartucce nel fucile a pompa a canna lunga e si voltò per mirare.

Premette il piede una volta e il piattello schizzò fuori dal suo nascondiglio, volteggiando nel grigio in un turbinio di arancione fosforescente. Il fucile tuonò e il piattello si disintegrò sopra il campo. Guardando meglio, vidi che l’erba fradicia e il terreno marrone e lucido del campo erano coperti di frammenti arancioni.

Il generatore che forniva la corrente alla catapulta andava su e giù di giri tra un lancio e l’altro; il braccio di lancio aveva un meccanismo di variazione casuale della traiettoria: ogni volta, infatti, i piattelli uscivano con angolatura e direzione diverse. Andy li centrò tutti al primo colpo, tranne l’ultimo. Tentò addirittura di ricaricare in fretta per poter effettuare un secondo tiro, ma, prima che lui riuscisse a infilare la cartuccia nel fucile, il piattello cade nell’erica bagnata vicino al fiume.

Andy si strinse nelle spalle, rimise la cartuccia nella scatola, controllò il fucile e si girò verso di me. «Ciao, Cameron», disse; capii che si era accorto della mia presenza fin dall’inizio. Depose con cautela il fucile a pompa in una custodia posata sulla ghiaia.

«Ciao», mormorai, avvicinandomi a lui. Aveva l’aria stanca. Ci stringemmo la mano, leggermente imbarazzati, poi ci abbracciammo. Aveva un vago odore di fumo.


«Fottuta cultura squadrista! Tutti in adorazione della fottuta Maggie e dei loro bull-terrier, a ingozzarsi e ubriacarsi di birra e poi a mostrare tutti insieme il culo dai finestrini dell’autobus e a fare vasche su e giù per il centro con le loro giacche mimetizzate. Sì, a me le arti marziali mi piacciono un casino, no, non sono un fottuto nazi, faccio soltanto collezione di oggetti militari, no, non sono razzista, odio solamente i negri. Però preferiscono le riviste di armi alle armi vere. Ci scommetto che se lo menano sulle foto a colori di una Luger cromata. Metà di loro è convinta che Elvis Presley sia ancora vivo, manica di stronzi rottinculo! Quegli stupidi bastardi se lo meritano che i fottuti irlandesi li facciano a pezzi, una volta ho visto l’interno di un’autoblinda, l’avevano fatta saltare e ridotta in mille pezzi, era saltata in aria per trenta metri e poi era rotolata lungo il fianco di una collina, sino in fondo, e noi avevamo fatto a turno a guardarci dentro, per dimostrare che eravamo veri uomini, sembrava l’interno di un macello…»

Ero seduto con Andy e lui continuava a blaterare. Stavamo bevendo whisky. Andy aveva una grande stanza al secondo piano della casa di Strathspeld: vi avevamo giocato da piccoli, costruendo modellini e combattendo con i soldatini; c’erano il trenino elettrico, i carri armati Airfix e i fortini fatti con il Lego; avevamo fatto esperimenti con il Piccolo chimico, avevamo giocato con la pista Scalextric, avevamo lanciato alianti dalla finestra verso il prato, avevamo sparato ai bersagli in giardino con i fucili ad aria compressa, uccidendo anche un paio di uccellini, e avevamo persino fumato qualche pacchetto di sigarette proibite. E, sempre alla stessa finestra, avevamo fumato anche innumerevoli spinelli, ascoltando dischi in compagnia di altri amici del villaggio, e di Clare.

«Perché la gente è così fottutamente incompetente?» urlò all’improvviso Andy, e scagliò il bicchiere di whisky dall’altro lato della stanza. Andò a colpire la parete di fianco alla finestra e si ruppe. Mi tornò in mente la pila di bicchieri da champagne che si era disintegrata al Museo della scienza, soltanto quattro anni prima. Il whisky rimasto nel bicchiere formò una chiazza marroncina sul muro. Rimasi a fissare il liquido che colava lentamente.

«Scusa», borbottò Andy, per niente dispiaciuto, alzandosi malfermo dalla poltrona e andando verso il punto in cui, sulla moquette, giacevano i pezzi di bicchiere rotto. Si chinò e cominciò a raccoglierli, quindi li lasciò ricadere, si accucciò, si coprì il volto con le mani e cominciò a piangere.

Lo lasciai piangere per un po’, poi andai da lui, mi accucciai al suo fianco e gli posai una mano sulla spalla.

«Perché la gente è così fottutamente inutile?» singhiozzò. «Ti mollano, non sanno fare il loro mestiere! Quel pezzo di merda di Halziel! Quel coglione del capitano Lingary, lui e la sua fottuta medaglia al valore… Tutti stronzi!»

Si alzò, staccandosi da me. Si avviò barcollando verso un cassettone di legno e tirò fuori un cassetto che cadde rumorosamente per terra, rovesciando numerosi maglioni. S’inginocchiò e allungò una mano dietro il cassetto; sentii il rumore di un nastro adesivo che veniva strappato.

Andy si rialzò, reggendo una pistola automatica; poi cercò d’infilare un caricatore. «Preparati per una bella lobotomia, mio caro dottor Halziel del cazzo», biascicò, sempre piangendo e cercando inutilmente d’inserire il caricatore nella pistola.

Halziel, pensai. Halziel. Il nome di Lingary non mi era nuovo: Andy me l’aveva citato raccontandomi delle Falkland. Era stato il suo comandante, la persona che Andy riteneva responsabile per la morte di alcuni dei suoi uomini. Ma Halziel… Ah, sì, certo! Era il medico che aveva lasciato morire Clare. Il tizio che, a detta dei locali, era più interessato a pescare che a fare il medico.

«E caricati, stronza!» urlò Andy, rivolto alla pistola.

Mi alzai, assalito da un gelo improvviso. Non mi era successo quando lo avevo visto sparare con il fucile. Allora non avevo avuto paura di lui. Ora, sì. Non ero per niente sicuro di fare la cosa giusta, però mi alzai e andai verso di lui proprio mentre riusciva a far scivolare il caricatore al suo posto.

«Ehi, Andy», gli dissi, «su, smettila…»

Lui mi fissò come se mi vedesse per la prima volta. Aveva il volto tutto rosso, a chiazze, e striato di lacrime. «Piantala, Colley, brutto stronzo. Anche tu mi hai mollato, ricordi?»

«Ehi, ehi», feci, tendendo le mani in avanti e arretrando di un passo.

Andy si precipitò contro la porta, la aprì e quasi cadde lungo disteso sul pianerottolo. Lo seguii per le scale, mentre continuava a urlare e imprecare. Giunto nell’ingresso, tentò d’infilare una giacca, ma non riuscì a far passare nella manica la mano che teneva la pistola. Quindi spalancò la porta con una tale violenza che andò a colpire il fermo: il pannello di vetro andò in frantumi. Mi guardai intorno, stordito, aspettandomi di veder spuntare i signori Gould: niente. Andy spinse con il palmo il battente ancora chiuso, lo aprì e scomparve nella notte.

Gli andai dietro: stava cercando di salire sulla Land Rover. Mi fermai di fianco a lui, mentre imprecava contro le chiavi e batteva sul finestrino posteriore. Si mise la pistola tra i denti per avere le mani libere; ebbi l’impulso di afferrare l’arma, ma poi rinunciai, pensando che avrei finito con l’uccidere uno di noi e che, in ogni caso, lui era molto più forte di me e se la sarebbe ripresa.

«Andy», dissi, cercando di sembrare calmo. «Su, è pazzesco. Smettila. Sii ragionevole, amico. Uccidere quella testa di cazzo di Halziel non riporterà indietro Clare…»

«Sta’ zitto!» urlò Andy, gettando via le chiavi; mi afferrò per il colletto e mi gettò contro la fiancata della jeep. «Chiudi quel cazzo di bocca, stupido stronzo! Lo so perfettamente che niente la riporterà indietro! Lo so!» Mi sbatté la testa contro il finestrino della Land Rover. «Voglio soltanto essere sicuro che ci sia uno stupido stronzo incompetente in meno nel mondo!»

«Ma…»

«Ah, sta’ zitto!»

Mi colpì sul viso con la pistola: un colpo di striscio, poco efficace, dettato più dalla rabbia cieca che dal desiderio di far male; io caddi, non tanto per la forza del colpo, quanto perché mi sembrava di doverlo fare. Sentii dolore, comunque. Rimasi sdraiato sulla ghiaia, a faccia in su. Solo allora mi resi conto che stava piovendo.

Ero vagamente preoccupato che mi sparasse. Ma poi Andy sbatté la pistola contro la jeep e mollò un calcio alla portiera.

«Cristo!» tuonò. Diede un altro calcio alla macchina. «Cristo!»

Ero fradicio. Sentivo l’acqua che m’impregnava la maglia e mi bagnava la schiena.

Andy si chinò su di me e mi guardò. Strabuzzò gli occhi.

«Stai bene?»

«Sì», dissi con aria stanca.

Armeggiò con la pistola e la mise dietro la schiena, infilandola nella cintura dei calzoni, poi mi tese una mano. La afferrai. Mi tornarono alla mente Andy e William, in bilico sulla sedia sotto il vecchio hovercraft.

Andy mi tirò su. «Scusa se ti ho colpito», borbottò.

«Scusa se sono stato un idiota.»

«Oh, Cristo…» Mi posò la testa su una spalla, respirando forte, ma senza piangere. Gli diedi qualche pacca sulla testa.


Sto ancora pensando.


Yvonne e io, nel Queensberry meridionale, un paio di estati fa, sull’altro lato della strada rispetto all’Hawes Inn e allo scivolo sottostante gli alti pilastri di pietra del ponte della ferrovia, il fiume largo un chilometro e mezzo davanti a noi, la gente che passeggia per i marciapiedi e su e giù lungo il molo, ogni tanto una zaffata di cipolle fritte che arriva dallo snack bar di fianco alla baracca del Servizio di salvataggio. Ci trovavamo là per assistere alle prodezze di William, alle prese con la moto d’acqua nuova di zecca. Il tutto consisteva essenzialmente nel salire sulla moto, partire, cercare di girare troppo velocemente e cadere in acqua con un tuffo coreografico. Poi la testa bionda riaffiorava in superficie, si scrollava e si avviava ballonzolando in direzione della moto. Ce n’erano altre tre che ronzavano in quel tratto di fiume, e qualche motoscafo con gente che faceva sci d’acqua: un gran casino, ma riuscivamo comunque a sentire William che rideva. Sembrava che comprare un aggeggio terribilmente costoso e passare la maggior parte del tempo a cadere in acqua nel tentativo di usarlo fossero per lui le cose più divertenti del mondo.

«A cosa servono in realtà ’sti aggeggi?» chiesi.

«Cosa, le moto d’acqua?» disse Yvonne, appoggiandosi al muretto e facendo tintinnare il ghiaccio nel bicchiere colmo di succo di frutta. «A divertirsi.» Guardò William che s’inclinava per girare, schivava un’altra moto per un pelo e incrociava la scia di un motoscafo, finendo in acqua — con una nuova variante del suo vasto repertorio di tuffi — dopo aver fatto una capriola al di sopra del manubrio della moto, e cadendo infine di schiena in una nuvola di spruzzi. La sua risata si levò più forte del ruggito dei motori. Ci fece un cenno con una mano per comunicarci che era tutto a posto, poi, sempre ridendo, tornò a nuoto verso la moto che galleggiava. Yvonne si mise gli occhiali da sole. «A divertirsi, ecco a che cosa servono.»

«A divertirsi», ripetei, annuendo. William rideva ancora. Osservai Yvonne che lo stava fissando. Ci fece un altro cenno con la mano mentre risaliva sulla moto. Lei rispose al saluto. Ma mi parve annoiata.

Yvonne era magra e muscolosa. Indossava calzoncini corti e una T-shirt. I suoi seni erano spinti in alto dal muretto su cui era appoggiata. Eravamo amanti da circa un anno. Scosse la testa dolcemente, mentre William mandava la moto su di giri. Mi appoggiai al muretto, di fianco a lei.

«Hai mai pensato di lasciarlo?» le chiesi.

Lei rifletté, poi mi guardò, abbassandosi gli occhiali sulla punta del naso. «No», rispose.

C’era una nota interrogativa nella sua voce: mi stava implicitamente chiedendo come mai le avevo fatto una domanda del genere.

Alzai le spalle. «Ero curioso…»

Attese che passasse una famigliola — ogni membro della quale reggeva un gelato —, poi mi disse: «Cameron, non ho nessuna intenzione di lasciare William».

Mi strinsi nuovamente nelle spalle, dispiaciuto per averglielo chiesto. «Come ti ho detto, era pura curiosità.»

«Be’, fattela passare.» Lanciò un’occhiata verso il punto in cui William sobbalzava entusiasta tra le onde, restando miracolosamente in piedi. Allungò una mano e mi sfiorò un braccio. «Cameron», disse, in tono dolce, «tu sei la parte eccitante della mia vita. Mi fai cose che William non riuscirebbe neppure a immaginare. Lui, però, è mio marito, e, anche se ogni tanto deviamo dalla retta via, saremo per sempre una coppia.» Socchiuse gli occhi e aggiunse: «…probabilmente». Guardò William che stava eseguendo una curva lenta: era un po’ instabile, ma ancora in piedi. «Voglio dire, se mai mi attaccasse l’AIDS, gli farei una cravatta colombiana, ma…»

«Ah!» esclamai. Una volta avevo visto una foto che ritraeva appunto quello: ti tagliano la gola e poi ti tirano fuori la lingua dal taglio. È sorprendentemente grossa, la lingua umana. «Gliel’hai detto?»

Lei rise. «Sì. Ha detto che, se lo lasciassi, chiederebbe la custodia della Mercedes.»

Mi voltai per lanciare un’occhiata alla Mercedes 300, appena sporca di fango, parcheggiata di fianco al marciapiede; attirava l’attenzione di tutti quelli che passavano. Poi guardai Yvonne come se la stessi valutando.

«Be’, mi sembra giusto», commentai infine, alzando le spalle, continuando a osservare il fiume e a bere la birra. Lei mi diede un calcio sul ginocchio.

Più tardi, mentre stavamo aiutando William a tirare la moto fuori dell’acqua, arrivarono alcuni tipi molto rumorosi; portavano tutti giubbotti di pelle nera con il logo della BMW e avevano una Range Rover nera fiammante nonché un grosso motoscafo. Pretendevano che tutti i presenti, occupati a tirare in secco le imbarcazioni, si togliessero dai piedi perché loro volevano mettere in acqua la loro barca. Il grosso motoscafo a tre motori bloccava l’accesso e, quando la gente chiese di spostarlo, i nuovi venuti cominciarono a protestare. Uno di loro sostenne persino che avevano prenotato la rampa.

Tutto rimase bloccato per almeno dieci minuti. Riuscimmo a caricare la moto sul carrello, ma la Mercedes di William era una delle macchine sulla rampa; lui cercò di far ragionare i nuovi venuti, poi si sedette in macchina e mise il broncio. Yvonne sembrava furiosa, ma si controllò e annunciò che andava alla baracca del Servizio di salvataggio a comprare qualche souvenir o qualcosa del genere.

«Quando non sai cosa fare, fai shopping», ci disse, sbattendo la portiera della macchina.

William rimase seduto al volante, con le labbra serrate, seguendo gli sviluppi della discussione nello specchietto retrovisore. «Bastardi», sibilò. «La gente come quella se ne frega di tutti.»

«Bisognerebbe spararle», confermai, pensando di scendere a fumarmi una sigaretta (era proibito fumare sulla Mercedes con gli interni in pelle color champagne).

«Già», fece William, stringendo il volante. «La gente sarebbe un po’ più educata se tutti andassero in giro con una pistola.»

Lo guardai.

Dopo un po’ di confusione e molti insulti la faccenda si concluse; i tizi con i giubbotti di pelle spostarono in avanti la barca in modo che le macchine e i carrelli avessero lo spazio sufficiente per uscire sulla strada. Facemmo salire Yvonne in cima alla rampa, vicino alla baracca del Servizio di salvataggio dove vendevano souvenir per finanziare il corpo.

Non sembrava avesse comprato molto. «Ecco», annunciò, salendo in macchina, e mi gettò una scatola di fiammiferi.

La fissai. «Uau, sei proprio sicura di volermela regalare?»

Mentre ci allontanavamo dalla rampa, immettendoci sulla strada per Edimburgo, mi voltai a guardare indietro. C’era di nuovo confusione: i tizi con i giubbotti neri stavano gesticolando, tutti esagitati, e indicavano i pneumatici di un lato del carrello su cui si trovava il grande motoscafo, che sembrava pendere leggermente da quella parte. Pareva proprio che la situazione si stesse facendo incandescente, ma poi entrammo nel bosco e non vedemmo più nulla. Tuttavia ero sicuro di aver visto volare qualche pugno.

Mi voltai e scorsi Yvonne che, ridendo, stava guardando nella stessa direzione. Improvvisamente assunse un’aria innocente e si mise a osservare la strada, canticchiando.

Mi venne in mente quella volta in cui Andy e io avevamo sgonfiato tutte e quattro le gomme della macchina di suo padre, infilando nelle valvole dei pneumatici alcuni fiammiferi piegati a metà. Aprii la scatola che Yvonne mi aveva dato, ma era difficile dire se ne mancassero un paio oppure no.

«Sembra che abbiano dei problemi con il carrello, laggiù», dissi.

«Bene», fece William.

«Probabilmente hanno forato», sospirò Yvonne. Poi lanciò un’occhiata a William. «Su questa macchina abbiamo valvole di sicurezza nei pneumatici, vero?»


William è in un bosco, nei dintorni di Edimburgo — da lì si vede quasi la nuova casa, sua e di Yvonne — e ha in mano una pistola che spara proiettili di vernice. È un’altra di quelle stupide battaglie (cui si partecipa a malincuore, ma che a volte riescono a essere divertenti, anche se in modo infantile): i ragazzi e le ragazze della sua azienda di computer contro le truppe speciali della redazione del Caledonian. La mia pistola s’inceppa, William mi riconosce e si lancia in avanti, ridendo come un matto e sparandomi a ripetizione mentre gesticolo e cerco di schivare i colpi. I proiettili di vernice gialla m’imbrattano la tuta mimetica presa a nolo e il visore dell’elmetto; continuo a fargli segno con le mani e cerco di far funzionare ’sta dannatissima pistola mentre lui viene avanti, lento e implacabile, e continua a spararmi. Quel bastardo ha una pistola sua e probabilmente l’ha fatta truccare: conoscendo William non ci sarebbe da meravigliarsi. Splat! Splat! Splat! Lui viene sempre più vicino e io penso: Cristo, che sappia di me e di Yvonne? Se l’è immaginato, qualcuno gliel’ha detto? È per questo che continua a spararmi?

Anche se il motivo fosse diverso, la situazione rimane comunque seccante; desidero con tutto me stesso colpire quel bastardo, perché, prima di cominciare, abbiamo avuto una stupida discussione sui lati positivi dell’avidità. A William non è piaciuto come l’argomento è stato affrontato da Michael Douglas/Gordon Gekko in Wall Street.

«Ma certo che l’avidità è positiva!» aveva esclamato William, brandendo la pistola. «È così che si misura il grado di capacità di sopravvivenza, oggigiorno.» Ci stavano mostrando il campo di battaglia, indicandoci le barricate di tronchi, i pennoni e altre cose del genere. «È naturale», aveva insistito. «È l’evoluzione. Quando vivevamo ancora nelle caverne, uscivamo a caccia e chi ritornava con un mammut mangiava la carne migliore e si scopava le donne, e tutto ciò era positivo per la razza umana. Ormai la questione è in termini un po’ più astratti — usiamo il denaro invece degli animali —, ma il principio è lo stesso.»

«Ma non erano gli individui che cacciavano gli animali, è esattamente questo il punto», avevo replicato. «Era tutto basato sulla cooperazione. La gente lavorava insieme, raggiungeva insieme il risultato e si divideva le prede.»

«Sono d’accordo», aveva convenuto William. «La cooperazione è una cosa fantastica. Se la gente non cooperasse, non si potrebbe governarla così facilmente.»

«Ma…»

«Ma c’è sempre bisogno di capi.»

«Però l’avidità e l’egoismo…»

«…hanno prodotto tutto ciò che vedi intorno a noi», aveva tagliato corto William, facendo un ampio gesto con la pistola.

«Esattamente!» avevo esclamato, allargando le braccia. «Il capitalismo!»

«Sì! Esattamente!» aveva ripetuto William, gesticolando. Ed eravamo rimasti lì, io con la fronte aggrottata, perplesso perché William non riusciva a capire quello che volevo dire, e William sorridente, ma ugualmente perplesso nello scoprirmi del tutto incapace di comprendere quello che lui intendeva.

Avevo scosso la testa, esasperato, e, brandendo la mia pistola, avevo detto: «Su, combattiamo».

«Questa è la mia idea e non me la toglie nessuno.»

E così volevo proprio inchiodarlo quel bastardo — preferibilmente con l’aiuto dei miei compagni di squadra, proprio per dimostrargli che avevo ragione — ma ’sta tecnologia di merda mi aveva abbandonato: la pistola si era inceppata e lui mi aveva inchiodato, sparando colpo dopo colpo. Infine avevo rinunciato a sbloccare la pistola e avevo fatto finta di tirargliela addosso, anche se non vedevo quasi più nulla, con il visore interamente coperto di giallo, ma lui si era abbassato, era inciampato e si era seduto su un tronco, tenendosi la pancia. Quel bastardo rideva come un matto perché io sembravo una gigantesca banana gocciolante, e soltanto allora mi ero reso conto che la pistola non era affatto inceppata: aveva la sicura inserita. Probabilmente le avevo fatto prendere una brutta botta. Mi restavano ancora un paio di colpi e avrei dovuto sparargli, ma non potevo, non mentre se ne stava seduto lì, morto dal ridere.

«Bastardo!» gli avevo gridato.

Lui aveva fatto girare la pistola intorno al dito. «Evoluzione! S’imparano molte cose quando si vive con un liquidatore!» Ed era scoppiato di nuovo a ridere.

Più tardi, al buffet allestito nel padiglione, si era infilato in cima alla coda passando davanti a tutti, dicendo: «Oh, io non credo nelle code!» e, quando la ragazza dietro di lui aveva protestato, lui, con aria costernata, le aveva spiegato che aveva il diabete e doveva mangiare immediatamente. Io mi ero fatto piccolo piccolo, ero arrossito e avevo guardato da un’altra parte.


Sto ancora pensando, pensando a tutte le volte in cui ho visto persone che conosco fare qualcosa per rappresaglia, o qualcosa di vendicativo o di meschino o di malvagio, oppure minacciare di farlo. Diamine, tutte le persone che conosco hanno fatto qualcosa del genere, una volta o l’altra nella vita, ma ciò non li rende obbligatoriamente assassini. Credo che McDunn sia pazzo, ma non glielo posso dire perché, se la sua teoria è sbagliata, e io mi sbaglio sul fatto che questi omicidi siano collegati a quei tizi morti qualche anno fa nel Lake District, allora rimane un solo sospettato, cioè io.

Il problema è che la mia teoria appare sempre più debole, perché McDunn mi ha convinto che si tratta soltanto di una cortina fumogena: non esiste nessun progetto Ares, non è mai esistito, e Smout, quello nella prigione di Baghdad, non ha niente a che vedere con quei morti; è solo una cospirazione — tanto geniale quanto fantasmatica — che qualcuno ha inventato per convincermi a recarmi nei luoghi più remoti ad aspettare una telefonata e privarmi così di un alibi, mentre l’uomo gorilla faceva una cosa orribile a qualcun altro in qualche altro posto. Ovviamente McDunn mi fa notare che l’assassino potrei essere comunque io: potrebbe essere tutta una storia che mi sono inventato. Potrei aver registrato le telefonate del misterioso signor Archer e averle fatte arrivare in ufficio mentre ero presente. Quando hanno perquisito il mio appartamento, hanno trovato quasi tutta l’attrezzatura necessaria per farlo: una segreteria telefonica, il mio PC e il modem; un altro paio di jack e, per una persona che sa come fare, sarebbe stato un gioco da ragazzi; oppure sarebbe stato sufficiente essere pazienti e andare per tentativi.

McDunn vuole aiutarmi sul serio, lo capisco, ma anche lui è sotto pressione: le prove circostanziali contro di me sono così forti che le persone all’oscuro dei particolari del caso si stanno spazientendo per la mancanza di progressi nelle indagini. A parte quel fottuto biglietto da visita, non hanno altre prove concrete: niente armi, abiti sporchi di sangue o minuscole cose tipo capelli o fibre che mi colleghino a qualcuna delle aggressioni. Ho il sospetto che non pensino che qualcuno dei testimoni sia in grado d’identificarmi, altrimenti mi avrebbero già sottoposto a un confronto all’americana. Eppure sembra tutto così ovvio: devo essere stato io. Giornalista di sinistra comincia a dare i numeri e si mette a far fuori borghesi di destra. Pare che mi sia perso qualche bel titolo da prima pagina, da quando sono qui dentro. A dire il vero ne avevo già persi in quei due giorni di vacanza che mi ero concesso; se mi fossi premurato di dare anche solo un’occhiata alle edicole dopo aver lasciato Stromeferry, avrei visto che stava cominciando a uscire la storia di questo tizio — la «pantera rossa», come avevano deciso di chiamarlo i giornali scandalistici — che abbatteva pilastri portanti della società, tutti inclinati verso destra.

McDunn non intende accusarmi di nessuno di questi omicidi, ma ben presto si dovrà prendere una decisione, perché stanno per scadere i termini della carcerazione preventiva e il ministro dell’Interno non concederà un prolungamento: in breve tempo dovrò comparire in tribunale. Diamine, potrebbe persino volermici un avvocato.

Sono ancora molto spaventato, anche se McDunn è dalla mia parte, perché capisco che non ha più molte speranze; se poi gli tolgono il caso, potrei anche beccarmi i poliziotti cattivi, quelli che vogliono solo una confessione e, Cristo, qui sono in Inghilterra, non in Scozia, e, nonostante i casi McGuire e Guildford, non hanno ancora cambiato la legge: si può ancora essere condannati in seguito a confessione non comprovata, anche se successivamente la si ritratta.

Sto diventando paranoico, sono deciso a non firmare nulla, anzi temo di averlo già fatto quando mi hanno portato qui e mi hanno detto che quella che stavo firmando era soltanto una ricevuta per gli effetti personali o la richiesta di assistenza legale o che cazzo ne so; ho paura che mi convincano a firmare qualcosa quando sono stanco, tutti mi hanno interrogato a turno, e desidero soltanto andare a letto e allora loro mi dicono, oh, facci un favore, firmaci questo e poi andrai a dormire, su, è solo una formalità, puoi sempre ritrattare, cambiare idea, ma invece non puoi, ovvio che non puoi, stanno mentendo. Ho persino paura di firmare qualcosa nel sonno, o che m’ipnotizzino e mi costringano a farlo. Diamine, non so proprio a cosa possano arrivare.


«Cameron», dice McDunn. È la mattina del quinto giorno. «Vogliono accusarti di tutti gli omicidi e delle aggressioni. Ti portano in tribunale, dopodomani.»

«Oh, Cristo!» Accetto una sigaretta. McDunn me la accende.

«Sei proprio sicuro che non ti è venuto in mente nulla?» chiede. «Assolutamente nulla?» Fa di nuovo quel risucchio con i denti. Sta cominciando a darmi fastidio.

Scuoto la testa, mi passo le mani sul volto, senza curarmi del fumo che mi va negli occhi e nei capelli. Tossisco. «Mi dispiace, ma no. Non ci riesco. Insomma, ci ho pensato molto, però niente…»

«Non me lo vuoi dire, vero Cameron?» fa l’ispettore, quasi dispiaciuto. «Vuoi tenerti tutto dentro, non desideri condividerlo con me.» Scuote la testa. «Cameron, per amor del cielo, sono l’unico che può aiutarti. Se hai qualche sospetto, qualche dubbio, devi parlarmene, devi farmi i nomi.»

Tossisco di nuovo e guardo le piastrelle del pavimento.

«Questa potrebbe essere la tua ultima occasione, Cameron», mormora.

Faccio un respiro profondo.

«Se ti viene in mente qualcuno, Cameron, dimmi il nome», ribadisce McDunn. «Probabilmente sarà facile eliminarlo dall’inchiesta; non intendiamo incastrare nessuno, né metterlo in difficoltà o andarci giù duri.»

Lo fisso, non del tutto convinto. Stringo il volto tra le mani. Prendo un’altra boccata dalla sigaretta. Mi tremano di nuovo le dita. McDunn prosegue. «C’erano, e ci sono, persone che lavorano a questo caso; agenti bravi, entusiasti, motivati… Ora come ora, invece, l’unica cosa da cui sono motivati è farti accusare dei delitti e sbatterti in galera. Da parte mia, ho convinto quelli in alto che sono l’uomo migliore per lavorare a questo caso e per chiarire la faccenda, ma mi sento come l’allenatore di una squadra di calcio, Cameron: possono sostituirmi in qualsiasi momento e valgo esattamente quanto i risultati che riesco a ottenere. E siccome non sto ottenendo un bel niente, potrebbero rimuovermi anche subito. Credimi, Cameron, sono l’unico amico che hai, qui dentro.»

Scuoto la testa. Ho paura a parlare perché temo di scoppiare a piangere.

«Nomi. Un nome. Qualsiasi cosa che possa salvarti, Cameron», riprende McDunn, paziente. «C’è qualcuno che ti è venuto in mente?»

Mi sento come un operaio della Russia stalinista che denuncia i suoi compagni, però dico: «Be’, ho pensato a un paio di miei amici…» Guardo McDunn per capire come sto andando. Ha la fronte aggrottata, l’aria inquieta.

«Sì?»

«William Sorrell e… be’, sembra stupido, ma… sua moglie, hmm, Yvo…»

«Yvonne», conclude McDunn, annuendo lentamente e appoggiandosi allo schienale della sedia. Si accende una sigaretta. Ha l’aria triste. Fa ruotare il pacchetto di sigarette sul tavolo.

Non so cosa penso, né cosa provo. Anzi, sì, provo un forte senso di nausea.

«Hai una relazione con Yvonne Sorrell?» chiede McDunn.

Lo guardo. Non so davvero cosa rispondere.

Fa un gesto con una mano. «Be’, per ora non ha importanza. Tuttavia abbiamo già controllato i movimenti del signore e della signora Sorrell. Con discrezione, dopo che abbiamo saputo che erano tuoi amici.» Sorride. «Non si può scartare a priori la possibilità che si tratti di più di una persona, Cameron, specialmente quando i crimini sono così sparpagliati su un territorio talmente vasto, e sono complicati come questi.»

Annuisco. Hanno controllato. Hanno controllato i movimenti. Mi chiedo cosa intenda con «discrezione». Ho voglia di piangere perché penso che sto ammettendo con me stesso che, comunque vada a finire, la vita non sarà mai più la stessa.

«È venuto fuori», riprende McDunn, sempre giocherellando con il pacchetto di sigarette, «che, benché entrambi siano spesso lontani da casa, i loro movimenti sono molto ben documentati. Sappiamo che cosa stavano facendo quando hanno avuto luogo le aggressioni.»

Annuisco di nuovo, e mi sento come se mi avessero strappato le budella. Li ho denunciati, e senza uno scopo.

«Ho pensato ad Andy», dico, rivolto al pavimento, evitando d’incontrare gli occhi di McDunn. «Andy Gould», chiarisco, perché, a parte tutto, Andy e io siamo stati insieme durante l’estate, più o meno nel periodo in cui è sparito il biglietto con i miei appunti. «Ho pensato che potrebbe essere stato lui, ma è morto.»

«Il funerale è domani», m’informa McDunn, facendo cadere la cenere e osservando la punta incandescente della sigaretta. La gira sul bordo del leggero posacenere di metallo finché l’estremità della sigaretta non è un cono perfetto, poi prende una boccata. La mia cenere cade sul pavimento. La schiaccio con il piede e la riduco a nulla.

Dio mio, che voglia di un po’ di droga! Avrei bisogno di rilassarmi, di calmarmi. Sto quasi aspettando con ansia la prigione. C’è un sacco di droga, là dentro, sempre che mi sia concesso di mescolarmi con gli altri detenuti. E sta per succedere, Cristo. Lo sto già accettando, sto scendendo a patti con la cosa. Cristo!

«Domani?» ripeto, deglutendo. Sto cercando di non piangere e di non tossire, perché anche quello potrebbe farmi piangere.

«Sì», conferma McDunn, facendo cadere dell’altra cenere con cura. «Lo seppelliscono domani, nella tenuta di famiglia. Come hai detto che si chiama?»

«Strathspeld», dico. Lo fisso, ma non saprei dire se aveva veramente dimenticato il nome oppure no.

«Strathspeld», ripete, e annuisce. «Strathspeld.» Si rigira la parola in bocca come se stesse assaporando un buon whisky di malto. «Strathspeld, sul Carse of Speld.» Aspira aria attraverso i denti. Vorrei tanto che se li facesse vedere, quei denti. Ci saranno dentisti speciali per i poliziotti, oppure questi dovranno andare da quelli da cui vanno tutti, sperando che il dentista non nutra… non nutra rancore contro…?

Un momento.

Oh, cazzo! Aspetta un momento.

Lo so!

È come se mi fosse entrato nell’occhio un minuscolo granello di polvere e, alzando lo sguardo per vedere da dove proveniva, mi fosse crollata addosso una tonnellata di mattoni. Ecco, qualcosa di altrettanto devastante. Rimango in silenzio per un secondo, pensando: «No, non può essere…» Invece è proprio così. Non si scappa, e io lo so. Lo so.

Lo so, e mi sento male… Comunque è già un bene sentirsi così sicuri a proposito di qualcosa. Non posso provare niente e ancora non ho tutto chiaro, ma so, e so che devo andare là, devo andare a Strathspeld. Potrei semplicemente chiedere che ci andassero loro, che andassero a controllare, a vigilare, perché è destino che lui si trovi là, deve essere là, proprio là. Ma non posso permettere che succeda così e, che lo prendano o no (e dubito che ci riusciranno), devo esserci.

Mi schiarisco la gola, guardo McDunn negli occhi e gli dico: «Va bene. Altri due nomi». Faccio una pausa, deglutisco, è come se avessi qualcosa in gola. Cristo, devo proprio dirlo? Sì. «E c’è anche un’altra cosa.»

McDunn inclina la testa di lato e inarca le sopracciglia.

Faccio un respiro profondo. «Però voglio qualcosa da voi.»

McDunn aggrotta la fronte. «E che cosa sarebbe, Cameron?»

«Voglio andare là, domani, al funerale.»

Le rughe sulla fronte si fanno ancora più profonde. Abbassa lo sguardo sul pacchetto di sigarette e gli fa fare un altro paio di giri sul tavolo. Poi scuote la testa. «Sai che non posso farlo, Cameron.»

«Sì, che può», ribatto. «Lo farà, dopo quello che sto per dirle.» Faccio una pausa e un altro respiro, che però mi si blocca in gola. «Ci sarà anche lui.»

McDunn ha un’aria perplessa. «Chi sarebbe ‘lui’, Cameron?»

Il cuore ha preso a battermi all’impazzata, stringo forte i pugni. Deglutisco a fatica, ho la gola arida. Gli occhi mi si riempiono di lacrime e finalmente riesco a tirare fuori le parole.

«Un cadavere.»

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