LUX EUROPAE

Dodici ore dopo mi ritrovo nelle fottutissime Channel Islands, soffro terribilmente per i postumi della sbronza e penso: Ma che cazzo ci faccio qui?


«Eh? Cosa?»

«Svegliati, Cameron. C’è una telefonata per te.»

«Ah. Va bene.» Cerco di mettere a fuoco Andy. Sembra proprio che non riesca ad aprire l’occhio sinistro. «È importante?»

«Non lo so.»

E così mi alzo, m’infilo la vestaglia e mi dirigo verso l’atrio freddo e polveroso dove si trova il telefono.

«Cameron, sono Frank.»

«Oh, ciao.»

«Allora, ti stai divertendo?»

«Oh, sì», dico, sempre cercando di convincere la palpebra sinistra ad aprirsi. «Qual è il problema, Frank?»

«Ha chiamato il tuo signor Archer.»

«Ah, sì?» dico con voce stanca.

«Già. Ha detto che forse ti avrebbe fatto piacere sapere…» sento Frank che sposta dei fogli «…che il vero nome del signor Jemmel è J. Azul. J è l’iniziale, il cognome è A-Z-U-L. E che Azul conosce tutta la storia, ma che sta per partire per un viaggio all’estero… Partirà oggi pomeriggio. Questo è tutto quello che ha detto. Ho cercato di chiedergli di che cosa stesse parlando, però…»

«Un minuto. Aspetta un minuto», biascico, aprendo a forza la palpebra sinistra con un dito. Mi faccio male e l’occhio comincia a lacrimare. Faccio un respiro profondo, cercando di svegliarmi. «Ripeti da capo…»

«Ha te-le-fo-na-to il si-gnor Ar-cher…» riprende Frank scandendo le parole.

Ripete tutto il messaggio. Nel frattempo, penso: Parte oggi pomeriggio… e da dove?

«Okay», dico, quando Frank ha finito di parlarmi con quel tono, neanche fossi un lettore del Sun. «Frank, potresti farmi un grosso favore e vedere se riesci a scoprire chi è ’sto Azul?»

«Be’, al momento sono piuttosto occupato, Cameron. Non tutti affrontano le scadenze con la tua leggerezza…»

«Frank, per favore. Il nome suona familiare, mi pare di averlo visto… Cristo, non riesco a ricordare, il cervello non funziona. Ti prego, Frank, fammi un controllo, per favore, vuoi? Ti sarò debitore, Frank. Per favore.»

«Va bene, va bene.»

«Grazie. Se trovi qualcosa richiamami subito, okay? Lo farai?»

«Sì, sì. Va bene.»

«Bene. Magnifico. Grazie.»

«Se ti chiamo, però, mi farebbe piacere che venissi a rispondere un po’ più in fretta di ieri.»

«Cosa?»

«Il tuo signor Archer ha chiamato ieri.»

«Ieri?» ripeto, e sento che mi si chiude lo stomaco.

«Sì. All’ora di pranzo. È stata Ruby a prendere il messaggio. Io ero fuori; non appena sono rientrato, ho cercato di chiamarti, ma non ho avuto risposta. Ho provato anche con il tuo cellulare, ma non credo che funzioni lassù tra le montagne; ho trovato soltanto la registrazione che mi chiedeva di riprovare più tardi.»

«Oh, Cristo!»

«Senti, un’altra cosa…».

Sta per uscirsene con un’altra delle sue ridicole battute sul controllo ortografico, lo so. Non ci posso credere. Nel frattempo la mia testa va a mille, o almeno ci prova. Al momento sembra che sia ancora ferma ai bordi della pista, cercando di liberare i piedi dai pantaloni della tuta, saltellando tutto intorno e inciampando, mentre la corsa ha già avuto inizio. Da un’altra parte.

«…e se fosse un nome qualsiasi?» chiede Frank. «Se metà degli abitanti di Beirut si chiamassero Azul? Voglio dire, sembra una specie di…»

«Frank, ascolta», lo blocco, colpito da un’improvvisa ispirazione. La mia voce suona molto più calma e sobria di quanto io mi senta in realtà. «Credo di ricordare dove ho visto quel nome. L’ho visto sulle ultime pagine del Private Eye. Qualcosa che ha a che fare con… non lo so… Sai, il genere di cose che finiscono in fondo a quella rivista. Potrebbe essere collegato con la difesa, l’industria aerospaziale, i servizi segreti, o il traffico d’armi. Ti prego Frank, prova con Profile. Devi soltanto battere: SEARCH: AZUL e…»

«Lo so. Lo so.»

«Grazie, Frank. Vado subito a vestirmi. Se non ti sento entro mezz’ora, ti richiamo comunque. Ciao.»

Cristo, cinque uomini assassinati, per non parlare degli altri su cui sta investigando McDunn, e ora ’sto tizio che parte oggi pomeriggio. E quell’altro che ha telefonato ieri! Odio le scadenze! Mi sto facendo prendere dal panico, lo sento. Il cuore batte forte. Cerco di pensare, ma non so cosa fare. Deciditi!

Mi decido. Quando si è in dubbio sul da farsi, la cosa più importante è continuare a muoversi. La velocità è di vitale importanza. L’energia cinetica libera il cervello e confonde il nemico.


Trangugio il caffè bollente mentre m’infilo il cappotto; la mia sacca è posata sul bancone della reception nell’atrio dell’albergo. Andy, curvo, con gli occhi cisposi, mi osserva sbattendo le palpebre mentre addento una fetta di pane e la mando giù con il caffè. Andy sta fissando la mia sacca. Nel punto in cui s’incontrano le due cerniere, spunta fuori un calzino, simile a un’ernia bianca e molle. Apre le cerniere, infila dentro il calzino e richiude la sacca.

«Il telefono resta spesso isolato», dice con tono di scusa. «Probabilmente è stato il temporale di ieri sera.»

«Non ti preoccupare.» Guardo l’orologio. È passata da un pezzo l’ora di telefonare a Frank.

«Senti», sospira, grattandosi il mento e sbadigliando, «la polizia locale potrebbe anche voler parlare con te…»

«Lo so. Li chiamerò e comunicherò loro i miei movimenti, non ti…»

«No. Sto parlando della polizia locale.»

«Cosa? E perché?»

«Oh», fa lui con un sospiro. «La notte scorsa, quando i ragazzi se ne sono andati, c’è stato un po’ di casino là fuori. Pare che Howie e i suoi amici abbiano teso un’imboscata ai due hippy e mi sa che uno è finito all’ospedale. La polizia sta cercando Howie. In ogni caso, quando è successo, tu dormivi, ma è possibile che vogliano parlarti comunque, quindi…»

«Cristo! Io…» Non finisco la frase. Squilla il telefono. Lo afferro e urlo: «Cosa c’è?»

«Cameron, sono Frank.»

«Oh, ciao! Hai trovato qualcosa?»

«Credo di sì. Potrebbe trattarsi di un certo Jemayl Azul», dice, e sillaba il nome. Intanto io penso Jemayl… Jemmel… hmm… «Cittadino inglese», prosegue Frank. «Madre inglese, padre turco. Nato il 17.3.1949, ha studiato a Harrow, Oxford e Yale.»

«Ma lavora nella difesa o…?»

«Ha una società che si occupa di armi. Legami con i sauditi, sì, però ha venduto armi praticamente a tutti, compresi Libia, Iran e Iraq. In passato ha acquistato un sacco di piccole aziende inglesi, il più delle volte per chiuderle. La cosa è stata oggetto di una interrogazione alla Camera. Gli israeliani lo hanno accusato di aver venduto informazioni di carattere nucleare all’Iraq nel 1985. Avevi ragione sul fatto che il suo nome era comparso sul Private Eye. E non solo una volta. Ho qui i ritagli…» Si sente un altro fruscio di fogli. «Secondo il rapporto, qui, Jemmel era uno dei nomi di copertura che lui ha usato per la scalata a quelle aziende, e anche sui conti bancari. Che te ne pare?» Frank mi sembra compiaciuto.

«Brillante, Frank. Assolutamente brillante», esclamo. «Dove si trova?»

«Mi risultano indirizzi a Londra e Ginevra, e un ufficio a New York… Ma la sua base è a Jersey, nelle Channel Islands.»

«Numero di telefono?»

«Ho già controllato: non appare sull’elenco. Al recapito della società risponde una segreteria telefonica. Ma ho chiamato un mio amico a St-Helier che lavora al giornale locale e lui pensa che il tuo uomo sia a casa.»

«Bene. Bene…», dico, riflettendo. «E l’indirizzo?»

«Aspen, Hill Street, Gorey, Jersey.»

«Bene, bene…» Sto ancora riflettendo. «Frank, sei stato brillante, mi hai dato un aiuto incredibile. Potresti passarmi Eddie?»


«Cosa?» sbotta Eddie, quando ho finito.

«Da Inverness a Jersey. Su, Eddie. Ho qualcosa di grosso per le mani. Me lo pagherei io, ma la mia carta di credito è al limite.»

«Sarà meglio che sia qualcosa di buono, Cameron.»

«Eddie, potrebbe trattarsi di una cosa veramente grossa, non sto scherzando.»

«Be’, se lo dici tu, Cameron. Ma le tue spedizioni all’estero non sono mai state terribilmente fruttuose…»

«Su, Eddie, costa poco. E, in ogni caso, Jersey non è ‘all’estero’, e io sto rinunciando a un giorno di ferie.»

«E va bene. Ma in classe turistica.»


«Che vita!» borbotta Andy, caricando il mio borsone nel bagagliaio della 205.

«Già», dico, salendo in macchina. Sento che il mal di testa mi sta ritornando alla grande. «E il bello è che, agli inizi, sembra pure una cosa esotica. Poi non ci si fa più caso.»

Chiudo la portiera e tiro giù il finestrino. Non sono del tutto certo di essere in grado di guidare, ma devo farlo, se voglio arrivare a Inverness in tempo per il volo.

«Sei sicuro di sapere quello che stai facendo?» mormora Andy con un’espressione dubbiosa.

«Sempre in caccia di notizie», gli spiego, con un gran sorriso. «Ci vediamo presto.»


Arrivo all’aeroporto di Inverness in novanta minuti, sotto scrosci improvvisi di grandine portati da nuvole alte e grigie. Colonna sonora di Count Basie e risposta islamica a Pavarotti fornita dalla mole ancor più colossale di Nusrat Fateh Ali Khan, la voce di un angelo, drogato perso, udita in sogno; anche se non ho la minima idea di quello che sta cantando, spesso ho il terribile sospetto che dica qualcosa del tipo: «Ehi, facciamo la festa a Salman Rushdie, yeah, yeah, yeah».

Il biglietto è pronto al bancone. Ufficialmente sono ancora in ferie; quindi mi faccio forza e non leggo i giornali. Mi viene in mente di comprare delle sigarette, ma il mal di testa è ancora lì, in agguato dietro gli occhi, e ho paura che fumare una sigaretta mi faccia venire da vomitare. Ciò di cui ho realmente bisogno è qualcosa di origine chimica, bianco e cristallino, però non ne ho e non saprei proprio dove andare a cercarlo, qui a Inverness. Sento il bisogno di fare qualcosa, e così acquisto uno stupido videogioco tascabile da bambini e mi siedo a giocare, mentre aspetto. Il volo è in ritardo, ma di poco. Cambio a Gatwick sotto un cielo sereno e un venticello fresco; il 146 atterra a Jersey in condizioni climatiche relativamente miti. Riesco persino ad affittare una macchina con la carta di credito, il che sembra già un miracolo di per sé.

La Nova è completa di cartina della zona; guido per stradine tortuose e ordinate e, anche in quelle poche miglia, ho la sensazione che l’isola, in confronto alla Highlands occidentali, sia dannatamente pulita, meglio curata e di certo più affollata. Gorey è facile da trovare: è situata sulla costa orientale, direttamente sulla spiaggia; la cittadina è cresciuta intorno al promontorio su cui si trova quel castello che ho sempre creduto si trovasse a St-Helier. Per rintracciare Hill Street ci vuole un po’ di più, ma Aspen non può passare inosservata: una villa lunga e bianca, subito sotto la cresta di una collina bassa e coperta di alberi, circondata da muri bianchi e da ringhiere ornamentali nere, con piccoli arbusti sistemati in grossi contenitori di legno. Tetto di tegole. Notevole. Anche il suo prezzo deve essere notevole.

Ci sono alti cancelli di ferro brunito, ma sono aperti e così entro nel vialetto di mattoni rosati che porta fin davanti alla casa.

Scendo dalla macchina, suono il campanello e aspetto. Nel vialetto non ci sono altre macchine, però, attaccato alla casa, c’è un garage a due porte. Il sole si sta tuffando dietro gli alberi e si è alzata una lieve brezza che fa frusciare le foglie degli arbusti e mi spedisce un po’ di polvere nell’occhio sinistro, il quale comincia di nuovo a lacrimare. Suono ancora una volta. Guardo attraverso la buca delle lettere, ma non riesco a vedere nulla. Infilo una mano e, dall’altra parte del massiccio portone, palpo una scatola.

Dopo qualche minuto di attesa, faccio un giro intorno alla casa, sotto archi moreschi e muri bassi e bianchi, passo davanti a un campo da tennis in astroturf e a una piscina grande quasi quanto il campo da tennis, scoperta e immobile. M’inginocchio per sentire l’acqua. Tiepida.

Cerco di esaminare l’interno della casa attraverso le finestre, ma sono coperte con quelle tapparelle esterne di plastica che usano in Francia oppure schermate dall’interno con veneziane.

Torno alla macchina, pensando che forse il signor Azul è uscito un attimo e ritornerà. Naturalmente è anche possibile che lo abbia mancato del tutto e che sia già partito per il suo viaggio. Gli darò tempo mezz’ora, magari un’ora, poi chiamerò il giornale locale e chiederò di parlare con il contatto di Frank. Prendo in considerazione l’idea d’ingannare l’attesa con il giochino che ho comprato a Inverness, ma i casi sono due: o non mi ha ancora preso a sufficienza, oppure il mio palato sofisticato me lo ha già fatto venire a noia.

Mi viene il dubbio che ci sia qualcosa che non va nel mio piano d’attesa, e chiudo gli occhi per farli riposare un poco, ma, mentre sbadiglio e m’infilo le mani sotto le ascelle, penso che un riposino non è poi una brutta idea, purché non mi addormenti.


Andy corre sul ghiaccio. Io ho cinque anni; lui, sette. Strathspeld è tutta coperta di neve, il cielo è immobile e splendente, il sole è nascosto da una foschia abbagliante, radiosa, e la luce pare trattenuta dagli strati di nuvole alte che dominano la gelida distesa bianca. Le cime delle montagne sembrano arrotondate, gli spuntoni di roccia paiono sfregi violenti tracciati contro il bianco. Anche le colline e i boschi sono imbiancati, gli alberi sono coperti di ghiaccio, e il lago è duro e soffice al contempo: infatti è completamente ghiacciato, ma sotto uno strato di neve fresca. Qui, oltre il giardino della grande casa, il bosco e i laghetti ornamentali, il lago si restringe e diventa nuovamente un fiume, s’incanala serpeggiante e tumultuoso verso le rocce e le cascate, oltre la gola poco profonda più a valle. Da qui, di solito, si sente in lontananza il fragore delle cascate, ma oggi c’è solo silenzio.

Osservo Andy che corre. Gli grido qualcosa, però non lo seguo. Su questo lato l’argine è basso, solo mezzo metro al di sopra della bianca distesa del fiume coperto di neve. L’erba e le canne intorno a me sono schiacciate dall’inattesa nevicata notturna. Sull’altro lato, nel punto verso cui Andy si sta dirigendo, l’argine è alto e ripido; l’acqua ha eroso la collinetta, ha trascinato via sabbia, ghiaia e pietre, lasciando una sorta di sporgenza di terreno con le radici degli alberi che spuntano libere, messe a nudo; la chiazza di ghiaia scura sotto la sporgenza irregolare è l’unico punto visibile che non sia coperto dalla neve.

Andy corre e urla; le falde del cappotto svolazzano, le mani sono coperte dai guanti, le braccia sono spalancate, la testa è piegata all’indietro, le orecchie del berretto sbattono come ali. È quasi a metà strada e, all’improvviso, la paura e il dispetto che ho avvertito in precedenza si tramutano in gioia, esaltazione, ebbrezza. Ci avevano detto di non venire in questo posto; potevamo giocare con la slitta, tirarci palle di neve e fare pupazzi di neve fin che volevamo, ma non dovevamo assolutamente avvicinarci al lago e al fiume, perché c’era pericolo che vi cadessimo dentro. Eppure, dopo aver giocato per un po’ con la slitta sul pendio vicino alla fattoria, Andy ha voluto venirci comunque; nonostante le mie proteste, abbiamo attraversato il bosco e siamo arrivati fin qui; allora ho detto: «E va bene, a patto che guardiamo soltanto». Ma Andy ha cacciato un urlo, è saltato giù dall’argine sulla riva innevata e si è messo a correre sulla superficie perfettamente piatta del fiume, diretto verso l’altra riva. Sulle prime ero arrabbiato con lui, avevo paura per lui, ma ora, improvvisamente, provo un gran senso di gioia, vedendolo correre là in mezzo, nella distesa fredda e piatta del fiume immobile, libero, caldo e vivace nel silenzio gelido e ovattato.

Penso che ce l’ha fatta, che è arrivato dall’altra parte del fiume, e avverto dentro di me un trionfale senso di gregaria soddisfazione, quando sento un rumore secco. Andy è caduto. Penso che sia inciampato, che sia caduto in avanti, ma non è sdraiato sulla neve, è affondato fino alla vita in una pozza scura che si sta allargando nel bianco tutto intorno a lui. Andy sta lottando, cerca di uscirne. Non riesco a credere che stia succedendo, non riesco a credere che Andy non riuscirà a saltar fuori con un balzo. Ora sto urlando di paura, sto urlando il suo nome.

Andy continua a lottare, girando su se stesso e affondando sempre di più, mentre pezzi di ghiaccio s’impennano nell’aria creando piccoli spruzzi di neve, e lui cerca disperatamente di trovare un appiglio per tirarsi fuori. Sta urlando, mi sta chiedendo aiuto, eppure quasi non lo sento, perché sto gridando così forte da farmela addosso per lo sforzo di lasciar uscire la voce. Allunga le mani verso di me, mi grida qualcosa, però rimango impietrito, terrorizzato, urlante, e non so cosa fare, non riesco a pensare, anche se lui continua a gridarmi di aiutarlo, di andare da lui, di prendere un ramo; l’idea di mettere piede su quella superficie bianca e insidiosa mi paralizza, e non riesco a immaginare come trovare un ramo, non riesco a pensare a cosa fare: guardo da una parte, verso gli alti alberi che sovrastano la gola nascosta, e dall’altra, lungo la riva del lago, verso la rimessa delle barche, ma non ci sono rami, c’è solo neve, neve dappertutto. Andy smette di lottare e scivola dentro il bianco.

Rimango immobile, ammutolito, intontito. Aspetto che riemerga: non succede. Faccio un passo indietro, mi volto e incomincio a correre; l’umidità appiccicaticcia e tiepida tra le cosce diventa fredda, mentre corro come un matto sotto gli alberi ammantati di neve, verso la casa.

Finisco nelle braccia dei genitori di Andy che stanno passeggiando tra i laghetti insieme ai cani; sembra che passi un’eternità prima che riesca a raccontare quello che è successo, perché la mia voce non vuole saperne di uscire. Vedo la paura nei loro occhi quando mi chiedono: «Dov’è Andrew? Dov’è Andrew?» Finalmente riesco a dirglielo, e la signora Gould lancia uno strano urlo stridulo, il signor Gould le dice di andare a chiamare gli altri in casa e di telefonare all’ambulanza e poi corre via, lungo il sentiero che porta al fiume con i quattro labrador che abbaiano eccitati dietro di lui.

Corro a casa con la signora Gould e facciamo scendere tutti — mamma, papà, e gli altri ospiti — al fiume. Mio padre mi porta in braccio. Giunti sulla riva, vediamo il signor Gould sdraiato a pancia in giù sul ghiaccio, che cerca di allontanarsi dal buco; tutti urlano e corrono di qui e di là. Scendiamo lungo il fiume, verso il punto in cui si restringe prima di precipitare nella gola; mio padre scivola e ci manca poco che mi lasci cadere. Il suo alito sa di whisky e di cibo. Qualcuno urla. Hanno trovato Andy, oltre l’ansa del fiume, nel punto in cui l’acqua riappare da sotto una crosta di ghiaccio e di neve, e gira vorticosa, ma un po’ rallentata intorno alle rocce e ai tronchi incastrati immediatamente prima del bordo della cascata, il cui rumore, oggi, anche così da vicino, risulta lontano e ovattato.

Andy è lì, bloccato fra un tronco coperto di neve e una roccia avvolta dal ghiaccio; il viso è terreo e bluastro, immobile. Suo padre entra in acqua e lo tira fuori.

Comincio a piangere, nascondendo il viso contro la spalla di mio padre.

Il medico del paese è tra gli ospiti; lui e il padre di Andy sollevano il corpo immobile, lasciano che l’acqua gli esca dalla bocca, poi lo stendono su un cappotto sopra la neve. Il medico preme il petto di Andy, mentre sua moglie gli soffia in bocca. Quando il cuore riprende a battere e dalla gola esce un gorgoglio, sembrano loro i più sorpresi. Andy viene avvolto nel cappotto e portato di corsa alla casa, immerso fino al collo nell’acqua calda e, quando arriva l’ambulanza, gli somministrano l’ossigeno.


Era rimasto sott’acqua, sotto la crosta di ghiaccio, per dieci minuti e anche di più. Il medico sapeva che alcuni bambini, certi più piccoli di Andy, erano sopravvissuti senz’aria nell’acqua fredda, ma non aveva mai visto niente di simile.

Andy si riprese in fretta, respirando l’ossigeno, tossendo e sputando nell’acqua calda del bagno; poi lo asciugarono, lo misero in un letto caldo e i suoi genitori rimasero a vegliarlo. Il medico temeva che avesse subito un danno cerebrale, ma Andy sembrava sveglio e intelligente come sempre, i suoi ricordi degli anni passati erano precisi sin nei minimi dettagli e, quando il medico lo aveva sottoposto ai test sulla memoria, i risultati erano stati superiori alla media. Poi, alla riapertura della scuola dopo le vacanze invernali, lui aveva ripreso ad andar bene come prima.

Era un miracolo, diceva sua madre, e il giornale locale era d’accordo. Andy e io non capimmo mai esattamente cosa fosse successo: in seguito, poi, lui non accennò mai a quel giorno in mia presenza, a meno che non fosse proprio necessario. Neppure suo padre amava parlarne, e affrontava l’argomento sminuendone l’importanza e scherzandoci sopra. A poco a poco, anche la signora Gould finì con il parlarne sempre meno.

Alla fine, sembrava che fossi rimasto soltanto io a ritornare con il pensiero a quella mattinata fredda e immobile, ricordando in sogno le urla, la mano tesa in cerca di aiuto — un aiuto che non potevo dare — e il silenzio che era seguito alla scomparsa di Andy sotto la superficie ghiacciata.

Talvolta mi capitava anche di pensare che, dopo l’incidente, lui era cambiato, anche se sapevo che, con il tempo, le persone diventavano diverse, e che tali cambiamenti avvenivano ancora più in fretta alla nostra età.

Ma, anche così, c’erano volte in cui temevo che un qualche danno ci fosse stato… Un danno non necessariamente imputabile alla mancanza d’ossigeno, bensì al risultato di quella esperienza, allo shock del viaggio nel freddo, dello scivolare sotto il grigio coperchio di ghiaccio (forse — mi sono ripetuto spesso da allora — era andata perduta la sua incoscienza infantile, la sua istintiva follia, e quindi, in fondo, era stato un bene). Da quell’episodio, però, non riuscii più a immaginare Andy impegnato a fare qualcosa di così folle e spontaneo, a sfidare il destino con aggressività e disprezzo, scatenato, ridente e a braccia spalancate come in quella corsa sul ghiaccio.


Ti sei già messo i baffi, la parrucca e gli occhiali, cui hai applicato lenti protettive scure, perché è una giornata molto luminosa. Suoni alla porta, tenendo d’occhio il vialetto per timore che arrivi qualche macchina, e intanto t’infili i guanti di pelle. Stai sudando, sei nervoso; sai che ti trovi in una posizione difficile, che stai per correre grossi rischi, per mettere a repentaglio la tua fortuna, quell’energia che deriva dal sentirsi dalla parte della ragione, a posto, senza dare troppo per scontato, senza irridere o sfidare il destino. Tutto ciò è in pericolo, perché stai rischiando oltre il consentito, e forse punti troppo forte sulla possibilità che tutto vada alla perfezione. Anche il semplice fatto di esserti spinto così lontano potrebbe aver già messo a dura prova la tua buona stella… e c’è ancora molto da fare. Comunque, in caso di un insuccesso, affronterai la sconfitta di petto, senza fuggire né lamentarti. Hai fatto molto più di quanto pensavi ti fosse concesso e quindi, in un certo senso, quello che verrà da ora in poi è tutto di guadagnato: anzi, è così già da un po’, e quindi non puoi davvero lamentarti, e non intendi farlo caso mai la fortuna decidesse di abbandonarti proprio ora.

Viene alla porta come se niente fosse: niente servitù, niente videocitofono, e questo è sufficiente a darti il via. Non hai tempo per le raffinatezze, quindi ti limiti a sferrargli un calcio nelle palle ed entri in casa mentre lui crolla, in posizione fetale, sul pavimento. Chiudi la porta, togli gli occhiali perché distorcono la vista, e gli dai un calcio in testa. Troppo piano. Gliene molli un altro — sempre troppo piano — mentre lui si trascina sul pavimento, una mano all’inguine e l’altra alla testa, e intanto emette una serie di rumori come se sputasse o soffiasse. Lo colpisci con un altro calcio.

Questa volta s’immobilizza di colpo. Non credi di averlo ucciso, né di avergli spezzato la colonna vertebrale, ma, se anche fosse successo, non puoi farci niente. Ti assicuri che non possa essere visto dalla fessura della cassetta delle lettere, coperta da una scatola sigillata, quindi ispezioni l’ingresso con lo sguardo. Un ombrello da golf. Lo prendi. Non arriva nessuno. Prosegui a passi veloci, vedi la cucina ed entri, poi tiri giù le veneziane. Trovi un coltello da pane, ma tieni anche l’ombrello. In un cassetto della cucina trovi del nastro adesivo e torni nell’ingresso. Sposti l’uomo: adesso ti trovi fra lui e la porta. Gli leghi insieme mani e polsi. Indossa un paio di calzoni sportivi dall’aria molto costosa e una camicia di seta. Mocassini morbidi di coccodrillo e calze con il monogramma. Manicure fresco. Un profumo che non riconosci. I capelli sono leggermente umidi.

Gli togli le scarpe e gli infili entrambi i calzini in bocca; anche questi sono di seta, quindi riesci a farne una palla molto piccola. Gli chiudi la bocca con il nastro adesivo, metti il rotolo di nastro in tasca e lasci lì l’uomo per andare a controllare il resto della casa; in ogni stanza in cui entri, tiri giù le veneziane. Una volta tornato in cucina, individui la porta della cantina. Al primo piano senti della musica e un rumore di acqua che corre.

Ti avvicini piano a una porta aperta. È una camera da letto, probabilmente quella padronale. Letto di ottone, enorme, forse persino placcato d’oro. Le coltri sono un po’ in disordine; oltre le finestre, schermate da tende color pastello, si vede un terrazzo, illuminato in pieno dal sole. I rumori provengono dal bagno privato della camera. Entri nella stanza, controllando la posizione degli specchi; da come sono messi, non dovrebbero rivelare la tua presenza alla persona che sta in bagno. Ti avvicini alla porta. La musica è forte. È una canzone degli Eurythmics, Sweet Dreams are Made of This. Da una presa nella parete del bagno parte un cavo elettrico. Interessante.

La voce canta insieme alla canzone, poi diventa un borbottio. Ti senti mancare il cuore. Speravi che fosse solo in casa. Sbirci dalla fessura tra la porta e lo stipite. La stanza da bagno è molto grande. In un angolo c’è una Jacuzzi incassata nel pavimento, e dentro vedi una persona giovane, che si muove sinuosa nell’acqua spumeggiante. Di razza bianca, con i capelli corti, neri. Non sapresti dire se è maschio o femmina. Le indagini che hai fatto sul signor Azul non riguardavano la sua vita sessuale.

La grossa radio portatile si trova a meno di un metro dal bordo della Jacuzzi. E ci sono almeno due metri di cavo sul pavimento.

Il giovane, o la giovane, riprende a cantare, seguendo la canzone e gettando la testa all’indietro. Probabilmente è femmina: il collo è molto liscio, senza pomo d’Adamo.

I tuoi occhi si posano di nuovo sul cavo.

Ti si secca la bocca. Che fare? Sarebbe così veloce, così facile, e semplificherebbe di molto le cose. È quasi come se il fato dicesse: «Guarda, ti sto rendendo le cose più facili. Falla finita, subito!» Chiunque sia, la persona nella vasca frequenta quest’uomo e se non sa chi è, be’, colpa sua.

Ma non sei convinto. Questo viola il tuo codice, va contro le linee di condotta che ti sei imposto fin dall’inizio. Ci devono essere regole, leggi, per ogni cosa. In fondo, persino in guerra ci sono regole. Magari il fato ti sta proponendo una sfida, ti sta sottoponendo alla prova del fuoco, ti sta offrendo una soluzione apparentemente semplice per risolvere un problema, una soluzione che, però, decreterà la tua fine. Se scegli la via più comoda, fallirai, e allora niente potrà più salvarti, né l’abilità né la determinazione né la rettitudine che possiedi, e ancora meno la fortuna, perché proprio quella ti si rivolterà contro.

La persona nella vasca sembra abbastanza rilassata. Ti avvicini al letto, posi l’ombrello e cominci a frugare nei cassetti e negli armadi a muro ai lati della testiera. Continui a lanciare occhiate in direzione della porta del bagno. I cassetti si aprono e si richiudono senza far rumore: uno dei vantaggi dell’aver scelto come vittima un ricco anziché un poveraccio.

Trovi una pistola. Una Smith Wesson calibro 38. Carica. E una scatola con cinquanta colpi. Ti concedi un sospiro quasi impercettibile e sorridi.

Appoggi il coltello vicino all’ombrello, soppesi la pistola e la infili sotto il piumino per togliere la sicura senza far rumore. Guardi di nuovo nel cassetto. Niente silenziatore. Sarebbe stato chiedere troppo.

Però, in un altro cassetto, trovi qualcosa di ancora più utile. Resti a fissare l’armamentario che hai davanti, e un senso di euforia ti cresce dentro. Hai fatto la scelta giusta e sei stato premiato. Lanci un’occhiata in direzione dei massicci elementi tubolari che compongono la testiera dell’enorme letto e sorridi.

Prendi il cappuccio fetish dal cassetto. Si chiude con una cerniera sul retro e ha solo un alloggiamento per il naso con due piccoli fori alla base. Tiri fuori il tuo coltellino e fai due buchi per gli occhi, senza mai perdere di vista la porta del bagno.

Provi il cappuccio, lo togli di nuovo, e allarghi i buchi appena fatti. Lo rimetti, tiri su la cerniera fino a metà. Odora di sudore e di quel profumo che piace al signor Azul. Afferri un paio di manette dal cassetto e vai in bagno, puntando la pistola contro la persona immersa nella vasca.

«Jem», chiama lei, «cosa stai…?»

Decidi di usare la voce alla Michael Caine. Non sembra proprio quella di Michael Caine, ma neanche la tua, ed è questo che conta.

«Non sono il tuo bello, tesoro, e ora esci da quella vasca del cazzo, fa’ come ti dico e non ti farò del male.» Soddisfacente, e poi anche la maschera contribuisce ad alterare la voce.

Lei ti fissa a bocca aperta. Non è proprio il momento adatto perché il campanello si metta a suonare, però è quello che succede. Lei guarda oltre le tue spalle.

«Fai solo un rumore, tesoro», le mormori, «e sei storia passata. Capito?»

Il campanello d’ingresso squilla di nuovo. La canzone degli Eurythmics finisce. Metti un piede sul cavo della radio e lo trascini abilmente sulle piastrelle del bagno, staccandolo dal retro dell’apparecchio. Quasi quasi ti aspetti che la canzone seguente parta comunque, grazie alle batterie; invece la radio resta silenziosa.

La ragazza ti fissa.

La osservi. Pare tutto stranamente astratto, come se non t’interessasse davvero quello che avverrà dopo. Anche se la ragazza farà rumore, probabilmente non le sparerai, e comunque è improbabile che possa fare un rumore tale da essere udita dall’esterno; la casa è grande e, sebbene ci siano molte superfici dure e lucide sulle quali il suono potrebbe riverberare, non sei convinto che un urlo sarebbe in grado di raggiungere qualcuno che si trovasse al portone, e forse neppure in fondo alle scale o fuori delle finestre a doppi vetri che danno sul terrazzo. Senza contare, ovviamente, che potresti anche avere il tempo di colpirla, stordendola, prima che lei riesca a prendere fiato. Ma è pericoloso, potrebbe anche non funzionare, e preferiresti non dover pensare anche a questa eventualità.

Il campanello non suona una terza volta.

Prendi un accappatoio di spugna appeso dietro la porta e glielo getti. Finisce sul bordo della Jacuzzi; lei lo afferra. «Bene. Ora infilati questo.»

Ti aspetti che la ragazza si rannicchi e cerchi d’infilarsi l’accappatoio prima di uscire completamente dall’acqua, oppure che ti volti la schiena; invece lei si alza in piedi di fronte a te e indossa l’accappatoio con gesti lenti, fissandoti con un’espressione quasi provocante. Ha un bel corpo, e il tipico ciuffetto verticale di peli pubici che hanno le modelle o le ragazze che portano costumi da bagno molto sgambati.

Quando le punti la pistola alla testa, lei la piega all’indietro con un sospiro rassegnato e un po’ nervoso, ma non tenta di reagire, neppure quando la ammanetti dietro la schiena. Le metti una striscia di nastro adesivo sulla bocca, la conduci in cucina e, da lì, in cantina. Quando attraversi l’ingresso, vedi che il signor Azul si trova esattamente dove l’hai lasciato.

In cantina trovi molta corda. Le giri un pezzo di nastro intorno alle dita, bloccandogliele; poi fai sedere la ragazza sul pavimento e la leghi a un banco da lavoro di legno massiccio. Togli gli oggetti appuntiti o taglienti che si trovano sul banco, e controlli che non ci sia nulla a portata delle gambe della ragazza. Quindi te ne vai, portandoti appresso un bel po’ di corda.

Torni dal signor Azul, e lui non c’è più.

Per un istante ti senti invadere dallo sconcerto, mentre la tua fortuna vacilla e minaccia di abbandonarti; rimani lì a fissare il punto in cui lui giaceva, legato e in posizione fetale, davanti alla porta, osservi ammutolito la distesa di moquette vuota, come se fissarla servisse a qualcosa.

Poi ti volti e corri nel salone.

E infatti eccolo, sempre rannicchiato e con le mani bloccate dal nastro adesivo: ha arrancato fin lì mentre tu eri giù in cantina. Ha rovesciato un tavolino su cui era posato il telefono e, nel momento in cui entri e lo vedi, sta cercando di raddrizzare l’apparecchio.

Si contorce e abbassa il viso sui pulsanti. Picchia tre volte con il naso sui tasti, poi striscia fino alla cornetta ed emette urla soffocate da sotto il bavaglio. A quel punto, tu armi il cane della pistola; lui sente il rumore e si volta. E ti vede, appoggiato al muro: stai facendo dondolare la spina del telefono staccata.

Lo trascini al piano superiore e lo getti sul letto. Lui si dibatte, cerca di urlare. Si sta facendo buio e, prima di accendere le luci, chiudi le tende rosa pastello. Il signor Azul grida da sotto il nastro adesivo e attraverso i calzini di seta. Lo colpisci. Non sviene — è solo stordito —, ma tu riesci comunque ad assicurarlo al letto con l’altro paio di manette e con i legacci di pelle che hai trovato nel cassetto insieme al cappuccio. Sei soddisfatto: è legato ben stretto, il letto è solido e i legacci sono morbidi, ma spessi. Funzionano perfettamente. Lui si agita.

Poi prendi la corda che hai portato dalla cantina, ne misuri quattro pezzi e li tagli con il coltellino.

Gliene leghi un pezzo intorno al braccio destro, più vicino possibile all’ascella, sopra la camicia. T’inginocchi sul letto e tiri con energia finché la corda non affonda nella seta pallida. Il signor Azul lancia un urlo da sotto il bavaglio, un urlo strozzato, stridulo, angosciato.

Fai lo stesso con l’altro braccio.

Gli leghi anche le gambe, facendogli passare la corda intorno alla piega dell’inguine e tirando vigorosamente, strizzando il tessuto dei calzoni. Il signor Azul sgroppa su e giù sul letto, in una bizzarra parodia di parossismo sessuale. Ha gli occhi fuori delle orbite ed è coperto di sudore. Sta diventando tutto rosso in faccia, mentre il cuore si sforza per pompare sangue nelle arterie bloccate dalle corde.

Allora estrai dalla giacca la scatoletta di plastica e gli mostri l’ago della siringa. Lui continua a sgroppare, sta scuotendo anche la testa. Non sei sicuro che abbia capito, ma non t’importa granché. Lo pungi una volta su tutti e quattro gli arti. Questa è una raffinatezza cui hai pensato soltanto di recente e di cui sei giustamente orgoglioso. Significa che, anche se lo scoprono in tempo, cioè prima che sopravvenga la necrosi, sarà comunque Hiv-positivo.

Lo lasci lì e scendi a controllare che la donna stia bene. Le urla del signor Azul, da lontano, suonano aspre e roche.

Quando te ne vai, è il tramonto. Esci e chiudi a chiave la grande casa silenziosa. Il sole arancione arde dietro gli alberi sopra la casa, il venticello è più fresco che freddo, e profuma di fiori e di mare. Pensi che in fondo questo sarebbe un luogo piacevole, anche se un po’ noioso, in cui ritirarsi.


Mi sveglio di soprassalto, con un cattivo sapore in bocca e la palpebra sinistra bloccata un’altra volta. È quasi buio. Guardo l’orologio. Dove cazzo è finito ’sto Azul? Faccio un altro giro intorno alla casa. Tutte le luci sono spente. Ritorno in macchina, cerco di telefonare con il cellulare, ma ha le batterie scariche e pare proprio che la Nova non abbia un accendino. Mi dirigo verso St-Helier.


Merda! Ho appena telefonato al giornale locale, però l’amico di Frank è uscito e non vogliono darmi il numero per rintracciarlo.

Sono in una cabina telefonica vicino al porto. Osservo una Lamborghini Countach che passa rombando sulla strada e scuoto la testa, incredulo. Una Lamborghini. Larga più di due metri e alta neppure uno. Proprio la macchina giusta da usare su un’isola piena di stradine strette, tutte curve e saliscendi, e con un limite di velocità di novanta chilometri all’ora. Mi domando se il proprietario sia mai arrivato a ingranare la terza.

Forse dovrei telefonare alla polizia. «Pronto? Ho appena avvistato un povero scemo che si porta in giro l’equivalente di un’oscena somma di denaro. C’è una ricompensa?» (Allettante.)


Sono tutti irreperibili, ’sti bastardi. Frank non è a casa, Azul non è sull’elenco, provo a telefonare al giornale locale, ma non possono — o non vogliono — aiutarmi, la compagnia aerea si rifiuta di dare informazioni sui passeggeri. Riaggancio. «Merda!» urlo esasperato e la mia voce rimbomba forte dentro la cabina. Telefono a casa di Yvonne e William, però mi risponde la voce di William sulla segreteria telefonica. Mi viene in mente che Yvonne aveva accennato che sarebbe stata qualche giorno fuori casa, per lavoro. Considero l’ipotesi di chiamarla sul cellulare, ma so che lei non sopporta che lo faccia, e così lascio perdere. Oh, ’fanculo. Se fossi un investigatore privato o qualcosa del genere, me ne tornerei a casa del signor Azul, troverei il modo di entrare e scoprirei qualcosa di veramente interessante: un cadavere, o magari una bellissima donna (oppure mi farei dare una botta in testa e mi sveglierei rinsavito). Invece sono stanco, ho ancora mal di testa, ho esaurito le idee e mi sento a pezzi, persino imbarazzato, maledizione. Che cazzo ci faccio in questo posto? Cosa mi aspettavo? Diamine, stamattina sembrava un’idea così geniale…

Faccio ancora in tempo a prendere il volo di ritorno per Blighty che fa coincidenza con l’ultimo volo per Inverness. Al diavolo l’articolo. A volte una ritirata strategica è l’unica soluzione. Persino il benedetto sant’Hunter sarebbe d’accordo. Se proprio sento il bisogno di fare qualcosa, posso sempre dar sfogo alla mia creatività cercando d’inventare una storia che plachi le ire di Eddie. Sì, sarà facile! Riporto la Nova all’aeroporto.

Ho un’ora da far passare. È tempo di andare al bar. Comincio con un bloody mary, perché, in un certo senso, si tratta della colazione, poi mi pulisco il palato con una bottiglia di Pils. Compro un pacchetto di Silk Cut e ne fumo una con concentrazione — facendo attenzione a godermela, non fumandola solo per abitudine — poi riesco a mandar giù anche un paio di gin and tonic belli robusti e ristoratori prima che chiamino il volo; così mi rimane appena il tempo di un solitario whisky buttato giù di corsa, giusto per dare un minimo di supporto morale alle esportazioni scozzesi.

Quando salgo sull’aereo non sento più alcun dolore, consumo la frettolosa cena precotta e proseguo a gin and tonic; atterro a Gatwick e, dopo una sosta nella zona fumatori del bar e un altro Gordon mandato giù di corsa, prendo la coincidenza. In aereo, rinuncio al secondo pasto della sera, ma non agli alcolici che lo accompagnano, poi mi addormento tranquillamente in qualche punto sopra le Midlands. Vengo svegliato da una bionda piuttosto figa, con un sorriso reso impudente dalle fossette: siamo qui, siamo arrivati, siamo atterrati, siamo in attesa al gate. Le chiederei che cosa fa più tardi, perché sono abbastanza sbronzo da non prendermela quando mi dirà di no, ma so di essere troppo stanco e di avere nuovamente la palpebra sinistra inchiodata; temendo che tutto ciò mi dia un’aria da gobbo di Notre-Dame, mi limito a risponderle con un: «Ah, grazie», che può suonare distaccato, o forse triste, non saprei.

Entro nel terminal pensando che, se non altro, l’odore di fogna che a volte ti assale quando arrivi nella cara vecchia Edimburgo sembra sparito. Non credo che riuscirei a sopportarlo, in questo momento. Proseguo verso l’atrio degli arrivi, ma c’è qualcosa che non va. Arrivato nel punto in cui l’atrio si unisce al terminal principale mi fermo di botto, assalito improvvisamente da un senso di orrore e di confusione. È tutto troppo piccolo, e non ha la forma giusta! Questa non è Edimburgo! ’Sti cordiali buffoni incompetenti mi hanno portato nell’aeroporto sbagliato! Teste di cazzo! Non sanno neppure seguire una rotta? Cristo, ci scommetto che non c’è neppure un volo di ritorno da… Dove diavolo mi trovo?

Scorgo il cartello che annuncia BENVENUTI A INVERNESS e contemporaneamente ricordo dove ho lasciato la macchina e da dove sono partito questa mattina: il tutto solo un attimo prima di arrivare al bancone più vicino per chiedere, con il tono più offeso e indignato, di essere riportato immediatamente a Edimburgo, su un Lear privato se necessario, oppure condotto in limousine al più vicino albergo a cinque stelle, per cena, pernottamento, colazione e illimitato accesso al bar, il tutto naturalmente a spese della compagnia aerea.

Una figura da emerito stronzo scampata per un pelo.

La gente che mi passa vicino mi guarda in maniera strana. Scuoto la testa e con calma faccio rotta verso il parcheggio.

È già un po’ tardi e non sono assolutamente in condizioni di guidare. Prendo la 205, ma non vado oltre la periferia di Inverness; mi fermo dopo pochi minuti alla prima insegna accesa di Bed and Breakfast che incontro. Parlo lentamente e con educazione con la gentile coppia di mezza età di Glasgow che lo gestisce, poi auguro loro la buonanotte, chiudo la porta della mia stanza e mi addormento immediatamente sul letto senza neppure togliermi la giacca.

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