INIEZIONE

«7970.»

«Sì… pronto?»

«Andy, sei tu?»

«Eh? Sì. Chi parla?» La voce è lenta, assonnata.

«Come sarebbe a dire, chi parla? Sei tu che mi hai chiamato. Sono Cameron. Ti ho lasciato un messaggio sulla segreteria telefonica neanche dieci minuti fa.»

«Cameron…»

«Andy! Che diamine, sono io, Cameron, il tuo amico d’infanzia, il tuo migliore amico. Ti ricordi di me? Ehi, sveglia!» Non riesco a capire perché Andy è così addormentato. D’accordo che è mezzanotte, però Andy non è mai andato a letto prima delle due.

«…Ah, sì, Cameron. Mi sembrava di riconoscere quel numero. Come stai?»

«Bene, e tu?»

«Oh, be’, io… io… sì, sto bene. Sto bene.»

«Mi sembri fatto.»

«Be’, sai…»

«Senti, se è troppo tardi, ti richiamo in un altro momento…»

«No, no, va benissimo.»

Sono seduto nello studiolo dell’appartamento, la TV è accesa, ma ho tolto l’audio; anche il computer è acceso e sul monitor c’è la schermata riepilogativa di Despot. È venerdì notte, e dovrei essere fuori a divertirmi, però sto aspettando la telefonata del signor Archer, e poi ho paura che, se faccio qualcosa di troppo gradevole, mi venga voglia di una sigaretta, perciò questa è un’altra buona ragione per rimanere a casa a guardare la TV e a giocare al computer. Ma poi ho cominciato a pensare ad Ares, a quei cinque morti e a quell’altro che sta marcendo in una cella a Baghdad e di colpo ho pensato: Cameron, tu hai in mano qualcosa che sembra uscito dalla penna di Pearl Frotwithe, mi sono spaventato e mi è venuta voglia di sentire una voce amica. Così ho chiamato Andy. Gli dovevo una telefonata da tempo, e non c’eravamo più visti da quel fine settimana dell’estate scorsa, ma ha risposto la segreteria; lui è lassù in quell’albergo buio, a soli duecento chilometri di distanza, però la voce giunge debole e lontana. Mi sembra quasi di sentirla riecheggiare nei grandi saloni vuoti di quell’edificio freddo e silenzioso.

«Allora, cos’hai fatto di bello?» gli chiedo.

«Non molto. Sono andato un po’ a pescare. Sono andato su in collina, sai, e tu?»

«Oh, le solite cose. Una scopata di tanto in tanto. Qualche articolo. Ah, ho smesso di fumare.»

«Di nuovo?»

«No, definitivamente.»

«Bene. Scopi sempre quella tipa sposata?»

«Temo di sì», ammetto, lieto che non possa vedere la smorfia che faccio. È imbarazzante: Andy conosce Yvonne e William fin da quando eravamo tutti a Stirling, ed era molto amico di William. Anche se poi ognuno è andato per la sua strada, non voglio proprio che Andy venga a sapere di me e di Yvonne. Ho sempre paura che immagini che si tratta di lei.

«Ah… come hai detto che si chiama?»

«Non credo di avertelo mai detto», gli dico, ridendo e appoggiandomi allo schienale.

«Hai paura che lo racconti a qualcuno, eh?» ribatte, in tono divertito.

«Già. Vivo con la paura costante che la nostra enorme cerchia di amici comuni lo venga a sapere.»

«Ah. Tu però dovresti scovarne una tutta per te.»

«Eh, sì», ribatto, imitando la parlata strascicata di uno che si è appena fatto. «Dovrei proprio trovarmi una pollastrella tutta mia.»

«Non hai mai seguito i miei consigli.»

«Continua a provarci. Chissà che un giorno o l’altro…»

«Sarai mica diventato dell’altra sponda, adesso?»

«Eh?»

«Lo sai, insomma, con gli uomini.»

«Cosa? Buon Dio, no! Voglio dire…» Guardo il ricevitore che stringo in mano. «No.»

«Era solo una domanda.»

«Perché? E tu?» gli chiedo e subito mi pento, perché il mio tono sembra quasi di disapprovazione, se non addirittura omofobico.

«Naa», fa Andy. «Naa, io… lo sai… quella roba non m’interessa più.» Se ne esce con una risatina e ancora una volta mi sembra di sentirla echeggiare nell’albergo avvolto dall’oscurità. «È soltanto che, lo sai, le vecchie abitudini sono dure a morire.»

«Però muoiono, no?» gli dico.

«Credo di sì. Di solito, sì.»

«Merda», esclamo e mi chino in avanti per far partire Despot sullo schermo. Sento il bisogno di fare qualcosa; normalmente, a questo punto, starei cercando le sigarette. «Stavo pensando di fare un salto su a trovarti. Non è che ce l’hai con me, vero, Gould?»

«Sono diventato un orso, amico», dice, ridendo di nuovo. «No, vieni, vieni pure. Prima chiamami, però. Sarò felicissimo di vederti. Non vedo l’ora. È passato tanto tempo dall’ultima volta.»

«Bene. Allora verrò presto.» Muovo il mouse per controllare la situazione geopolitica della partita. «Hai poi fatto qualcosa con quella fottutissima villona?»

«Eh? Ah, la mia tana, quassù.»

«Già, la tua tana.»

«No, niente. Non è cambiato niente.»

«Hai riparato qualcuna di quelle perdite?»

«No… Oh!»

«Che c’è?»

«Ti ho detto una bugia.»

«Le hai riparate.»

«No, mi ero dimenticato: qualcosa è cambiato.»

«Cioè?»

«Be’, un paio di soffitti sono crollati.»

«Oh, oh.»

«Be’, sai, quassù è molto umido.»

«Non si è fatto male nessuno, però?»

«Male? E chi doveva farsi male? Qui ci sono solo io.»

«Già. Quindi, se decido di venire e fermarmi da te c’è un sacco di posto, ma farò meglio a portarmi un ombrello oppure un sacco a pelo impermeabile, o magari una tenda. Giusto?»

«Ma no, dai, ci sono anche camere asciutte.»

«Va bene. Non so ancora quando verrò, ma sicuramente prima della fine dell’anno.»

«Perché non vieni su, diciamo… la settimana prossima o quella dopo?»

«Hmm», rifletto. Bisogna vedere che cosa succederà con le varie storie che sto seguendo, ma, teoricamente, potrei. Ho bisogno di prendermi una vacanza. Ho bisogno di cambiar aria. «Okay. Perché no? Probabilmente potrò fermarmi soltanto un paio di giorni, ma sì. Prenotami una stanza.»

«Bene. Quando pensi di arrivare?»

«Hmm, direi giovedì o venerdì. Te lo confermo.»

«D’accordo.»

Parliamo ancora un po’, rievocando i vecchi tempi; poi lo saluto.

Metto giù il telefono e resto lì seduto davanti a Despot che va avanti da solo, ma non sto prestando molta attenzione al gioco. Sto pensando invece al mio vecchio amico, al figlio del ghiaccio, al nostro bambino prodigio, prima classico protagonista degli sfrenati anni ’80, e poi vittima.

Sono sempre stato geloso di lui, ho sempre desiderato avere quello che aveva lui, anche quando sapevo bene di non volerlo davvero.

Andy sembrava sempre in anticipo su di me. Due anni prima che io andassi a Stirling, lui aveva già incominciato a St. Andrew’s un corso sponsorizzato dall’esercito, e quando scoppiò la guerra delle Falkland lui era già tenente dei fucilieri. Si fece una marcia forzata da San Carlos a Tumbledown, rimase ferito in un attacco abborracciato a una postazione argentina e si meritò una medaglia al valore, rispedita però indietro in seguito alla notizia che l’ufficiale a capo dell’attacco era stato promosso, invece di essere condotto davanti alla corte marziale. L’anno seguente, Andy lasciò l’esercito e cominciò a lavorare in una grossa agenzia pubblicitaria di Londra; fece carriera (fu lui a inventare lo slogan dell’IBM: «Siete maniaci della perfezione? Noi, sì» e quello della Guinness: «Ci facciamo una birra?») poi, improvvisamente, si licenziò per aprire il Gadget Shop a Covent Garden. Né Andy, né il suo socio — che aveva lavorato pure lui in un’agenzia di pubblicità — avevano la minima esperienza di vendita al dettaglio, ma possedevano un sacco di idee e molta fortuna; inoltre si servirono dei loro contatti nel mondo dei media (me, per esempio) per lanciare un’enorme campagna pubblicitaria sotto forma di articoli su se stessi e sulla loro iniziativa. Il negozio e il suo catalogo di vendita per corrispondenza si rivelarono un immediato successo. In meno di cinque anni, Andy e il suo socio aprirono altre venti filiali, fecero una modesta fortuna e poi vendettero tutto, per una somma enorme, a una grossa catena di vendita al dettaglio, un paio di mesi prima del crollo della Borsa dell’87.

Andy si prese una vacanza di sei mesi, fece il giro del mondo — sempre in prima classe — scorrazzò per gli Stati Uniti in sella a una Harley Davidson, e andò in crociera nei Caraibi a bordo di uno yacht. Stava facendo un viaggio attraverso il Sahara, quando sua sorella Clare morì. Dopo il funerale, rimase a bighellonare per qualche mese nella tenuta dei suoi, a Strathspeld, poi passò un po’ di tempo a Londra, non facendo nulla, a parte frequentare i vecchi amici e i nightclub. Dopo di che, sembrò spegnersi. Divenne più tranquillo, quindi addirittura misogino; acquistò un grosso albergo fatiscente nelle Highlands occidentali e lì si ritirò a vivere da solo, apparentemente ridotto in miseria, ma senza fare assolutamente nulla, a parte bere smodatamente, finendo quindi con l’ubriacarsi in pratica tutte le sere e diventando anche un po’ hippy, sul genere: «Cioè… Che sballo… Mi sento flippato…» Ogni tanto va a pescare con la sua barchetta, passeggia per le colline o se ne sta a letto a dormire mentre l’albergo — situato in un tranquillo, oscuro villaggio un tempo assai animato, ora invece tagliato fuori da tutto a causa di una nuova strada e della soppressione del ferry — cade silenziosamente a pezzi intorno a lui.


«Cameron! ‘Kirkton of Bourtie’.»

«Che cos’è, Frank?»

«È un piccolo villaggio vicino a Inverurie.»

«Dove?»

«Lascia perdere. Indovina cosa…»

«Mi arrendo.»

«’Kippur o Bourbon’! Ah, ah, ah!»

«Piantala, non ce la faccio più dal ridere.»

Mi sono preso il fine settimana di ferie e l’ho passato a disintossicarmi, senza toccare neppure un granello di polvere bianca, e senza bere niente di più pericoloso per l’organismo del tè forte. Questo regime ferreo ha avuto anche il vantaggio di aiutarmi a tenere sotto controllo la mia voglia di fumare. Ho giocato molto a Despot, facendo avanzare velocemente il mio livello storico fino a qualcosa che assomiglia ai prodromi di una rivoluzione industriale, ma poi i miei nobili si sono ribellati, i barbari provenienti da sud hanno sferrato un attacco insieme a quelli dell’ovest, e c’è stato un fortissimo terremoto che ha portato anche a un’epidemia. Una volta risolti tutti questi problemi, mi sono ritrovato in una situazione paragonabile a quella di Roma dopo lo scisma con l’impero d’Oriente, e con il pericolo che i barbari del sud non fossero più così tanto barbari, o che addirittura si rivelassero più civilizzati della mia gente. Questo poteva risolversi in una completa disfatta strategica. Il mio Impero si è leccato le ferite e io mi sono divertito un mondo a ordinare l’esecuzione rituale di parecchi generali. Nel frattempo, la mia tosse è molto peggiorata e credo proprio che mi verrà il raffreddore; quel maledetto del signor Archer non ha più chiamato, ma, se non altro, mi è arrivata una lettera dalla società della mia carta di credito con una bella notizia, caso più unico che raro: mi hanno innalzato il limite d’utilizzo e quindi ho un po’ più di scoperto con cui poter giostrare.

«Credi che il nostro caro Mr Major riuscirà a farla franca con il voto di Maastricht?» mi chiede Frank, mentre la sua faccia rubizza fa capolino da dietro il mio schermo, come la luna da dietro una collina.

«Probabile», ribatto. «I suoi membri dell’assemblea sono una manica di smidollati leccaculo e, anche se ci fosse un qualche pericolo, quegli stronzi dei liberal-democratici salveranno il culo ai Tories, come al solito.»

«Ti andrebbe di fare una scommessina?» chiede Frank, strizzando un occhio.

«Sul risultato?»

«Sul margine della maggioranza dello zio John.»

«Venti sterline che il margine sarà di due cifre.»

Frank riflette. Poi annuisce. «Va bene.»

Sono tornato a occuparmi dei problemi dell’industria navale, e ho intervistato alcune persone ai cantieri Rosyth, che potrebbero essere chiusi entro breve, lasciando così altri seimila lavoratori sulla strada. Molto dipende dal fatto che riescano ad aggiudicarsi il contratto di manutenzione per i sottomarini Trident.

Ho già scritto un centinaio di parole, quando squilla il telefono.

«Pronto. Parla Cameron Colley.»

«Cameron, oh, Cameron, grazie al cielo ci sei! Ero sicura di aver sbagliato di nuovo a calcolare il fuso; ne ero proprio convinta, davvero. Cameron, è assurdo, davvero, non ce la faccio proprio più. Non riesco neppure a parlargli. È impossibile. Non so perché l’ho sposato, proprio non lo so. È pazzo, è pazzo sul serio. La cosa potrebbe anche non interessarmi più di tanto, ma sta facendo ammattire anche me. Vorrei che tu gli parlassi, che gli dicessi qualcosa, davvero. Sono sicura che non ascolterebbe neppure te, però… Be’, forse potrebbe anche ascoltarti.»

«Ciao, mamma», faccio io, con voce stanca, e m’infilo una mano in tasca, dove dovrebbe trovarsi il pacchetto di sigarette.

«Cameron, che devo fare? Dimmelo tu. Dimmi cosa deve fare una poveretta con un uomo così impossibile. Giuro che sta peggiorando di giorno in giorno, davvero. Vorrei tanto che fosse una mia fissazione, ma purtroppo non lo è, giuro che non lo è. Sta peggiorando, davvero. Non sono io, è lui. Anche i miei amici mi danno ragione. Sarà…»

«Qual è il problema, mamma?» Prendo una matita posata sulla scrivania e comincio a rosicchiarla.

«Quello stupido di mio marito! Mi ascolti oppure no?»

«Sì, ma cosa…?»

«Vuole comprare una fattoria! Una fattoria! Alla sua età!»

«Cosa, un allevamento di pecore?» chiedo, visto che sta telefonando dalla Nuova Zelanda e mi sembra di capire che laggiù le pecore abbondino.

«No! Di angora… Capre o conigli, o quale che sia l’animale da cui si ricava quella roba. Cameron, la situazione sta diventando insostenibile. Lo so che non è il tuo vero padre, ma mi pare che andiate d’accordo e forse ti starà a sentire. Senti, tesoro, non potresti fare un salto qui e cercare di convincerlo a ragionare?»

«Fare un salto lì? Santo cielo, mamma, è…»

«Cameron! Mi sta facendo uscire matta!»

«Senti, mamma, cerca di calmarti…»

Comincia così l’ennesima maratona telefonica di mia madre: come al solito si lamenta — e lo fa con estrema dovizia di particolari — di una qualche nuova, paventata avventura commerciale del mio patrigno, avventura destinata, secondo lei, a ridurli sul lastrico. Bill, il mio patrigno, è un neozelandese forte e robusto, tranquillo e spiritoso, che prima vendeva macchine usate e ora è in pensione. Mia madre l’ha conosciuto tre anni fa, durante una crociera nei Caraibi. Un anno dopo è andata a vivere in Nuova Zelanda. Grazie alla pensione e agli investimenti di Bill, se la passano molto bene, ma ogni tanto a lui viene voglia di rimettersi in affari. Queste idee non si concretizzano mai, e di solito non si tratta neppure di proposte commerciali serie; capita che Bill dica qualcosa di assolutamente innocuo, tipo: «Oh, guarda, a Auckland c’è un fast-food in franchising in vendita per cinquantamila», e, immediatamente, mia madre dà per scontato che lui intenda comprarlo e rovinarsi.

Lei continua a cianciare, mentre io scorro lentamente sul terminale i dispacci della Reuters e della Press Association per vedere cosa sta succedendo nel mondo. È una tipica reazione da giornalista, piuttosto istintiva e pienamente compatibile con i ben cadenzati «hmm» e «ahh» da bravo figlio che emetto a giusti intervalli durante il suo monologo.

Alla fine riesco a chiudere la telefonata, non prima di averla convinta che Bill non getterà tutti i loro risparmi in una qualche fattoria diroccata e che — come al solito — la soluzione sta nel parlarne con lui. Le prometto di andare a trovarli, probabilmente l’anno prossimo. Dopo qualche tentativo di salutarla — mia madre è una di quelle persone che ti fanno gli auguri, ti salutano, ti ringraziano per averle chiamate o per esserti fatto trovare quando ti hanno chiamato, ti ridicono addio e poi, improvvisamente, si lanciano in un nuovo argomento —, riesco finalmente a dirle l’ultimo «ciao» e a concludere la telefonata senza riattaccarle in faccia. Mi appoggio alla spalliera della sedia, esausto.

«Mi sembra di capire che era mammina, vero?» dice Frank, tutto gioviale, dall’altra parte del monitor.

Prima ancora che possa rispondere, il telefono squilla di nuovo. Sussulto e afferro il ricevitore, tremando all’idea che sia di nuovo lei, che abbia dimenticato di dirmi qualcosa.

«Sì?» esordisco in tono stridulo.

«Salve, questa è la voce della civiltà», risponde un’armoniosa voce dall’accento inglese.

«Come?»

«Cameron, sono Neil. Volevi parlarmi?»

«Oh, ciao, Neil.» Neil è un mio ex collega che si è trasferito a Londra per lavorare in Fleet Street quando Fleet Street non era ancora piena di banche giapponesi. Suo padre lavorava nei Servizi segreti durante la guerra di Corea, e in quel periodo ha conosciuto Sir Andrew (il nostro direttore che si sta riprendendo dall’infarto). Neil è tradizionalista fino al midollo, ma ciò non toglie che sia anche simpatico; fuma oppio e adora la Famiglia Reale, disprezza il socialismo e la Thatcher in eguai misura, e vota liberale perché la sua famiglia l’ha sempre fatto, sin dai tempi in cui i liberali si chiamavano Whigs. Va a caccia di cervi e a pesca di salmoni. Ogni anno va a sciare a Saint Moritz. Guida una Bentley S2. Il termine raffinato sembra essere stato coniato espressamente per lui. Adesso lavora, come free-lance, in un settore piuttosto vicino a quello dello spionaggio industriale, talvolta per qualche quotidiano, ma principalmente per società e industrie. «Come stai?» dico, guardando il monitor e aggrottando la fronte. Proprio in quel momento, Frank si alza e, ficcandosi la biro tra i denti, si allontana.

«Sto bene e sono molto occupato», ribatte Neil con la sua parlata un po’ strascicata. «Cosa posso fare per te?»

«Puoi dirmi che cos’hai scoperto a proposito di quei cinque tizi che sono passati a miglior vita in circostanze molto sospette fra l’86 e l’88. Sai, quei tipi che avevano tutti a che fare con Sellascale, Winfield o Atomiclandia o come diavolo si chiama adesso.»

C’è un attimo di pausa. «Ah», fa Neil e sento che si accende una sigaretta. Mi viene l’acquolina in bocca. Fortunato bastardo. «Quella vecchia questione.»

«Già», confermo, appoggiando i piedi sulla scrivania. «Quella vecchia questione che sembra un romanzo di spionaggio e per la quale nessuno ha mai trovato una spiegazione decente.»

«Non c’è niente da spiegare, intelligentone», dice lui con un sospiro. «Solo uno sfortunato susseguirsi di circostanze.»

«Suona tanto come una Poco Attendibile Lunga e Lacunosa Affermazione, no?»

Neil ride, probabilmente ripensando al codice di acronimi che avevamo ideato nell’anno in cui ci eravamo trovati a lavorare insieme. «No, è una Vera E Reale Inconfutabile Tesi… maledizione, qual era l’ultima parola?»

«Assodata», gli rivelo, sorridendo. «Non abbiamo mai trovato niente di meglio.»

«Giusto. Be’, è proprio così.»

«Sul serio?» faccio, cercando di non ridere. «Tutti ’sti tizi che, guarda caso, erano collegati alla British Nuclear Fuels Ltd., al quartier generale per le Comunicazioni governative o ai Servizi segreti dell’esercito, sono morti così, di morte violenta, nel giro di venti mesi? Stai scherzando…»

«Cameron, mi rendo conto che il tuo animo menscevico vorrebbe tanto che ci fosse dietro una cospirazione fascista assolutamente irrazionale, ma la banale verità è che tale cospirazione non esiste. O, se esiste, è molto remota, troppo remota per essere opera di un qualsiasi Servizio segreto di mia conoscenza. Non c’è mai stato il minimo indizio attendibile che sia stato qualcuno dei nostri; quelli del Mossad — gli unici in grado di portare a termine un’azione così ben riuscita senza disseminare sulla scena del delitto impermeabili con dentro scritto il nome, il grado e il numero di matricola dell’agente — non avevano moventi plausibili; lo stesso dicasi dei nostri amici di Mosca, dato che, dopo la triste fine del loro Stato socialista, gli agenti dell’ex KGB stanno praticamente facendo a gomitate per autodenunciarsi e per confessare i loro peccati, e nessuno di loro ha mai accennato a quei cinque defunti figli della Cumbria e dintorni.»

«Sei, se contiamo anche il dottore che ha effettuato l’autopsia sui tre stoccafissi della Cumbria.»

«Sia come sia…» concede Neil con un sospiro.

Sto riflettendo. La decisione che mi accingo a prendere potrebbe essere molto importante. Devo parlare a Neil del signor Archer e di Daniel Smout? Oppure devo tenere le informazioni per me? Cristo, questa storia potrebbe rivelarsi la cosa più grossa dai tempi del Watergate; un complotto — se ho capito bene — che coinvolge tutto l’Occidente, o forse soltanto il governo di Sua Maestà, o perlomeno un gruppo di persone in grado di fornire armi nucleari al nostro ex alleato nella lotta contro i cattivi Mullah — e ora nemico pubblico numero uno — Saddam Hussein e ciò mentre la guerra Iran-Iraq si stava mettendo maluccio per lui.

«Sai», riprende Neil, con un altro sospiro, «ho la terribile sensazione che mi pentirò di avertelo chiesto, ma… Che cosa ti spinge a fare simili ricerche? A meno che, ovviamente, la triste notizia di queste cinque morti non sia giunta soltanto adesso in Caledonia…»

«Be’, vedi…» annaspo, giocherellando con il cavo del telefono.

«Allora?» dice Neil, con quel suo tono sul genere: «Perché mi stai facendo perdere tempo prezioso?»

«Ho ricevuto una telefonata da una persona che afferma di sapere com’è andata; sostiene anche che ci sono almeno altri due nomi coinvolti nella vicenda.»

«E chi sarebbero?»

«Fino a ora ne conosco soltanto uno.» Faccio un respiro profondo. Farò come il signor Archer, gli darò un pezzo per volta. «Smout», gli dico. «Daniel Smout. Il nostro uomo a Baghdad.»

Neil rimane in silenzio per qualche secondo. Poi sento che esala un profondo respiro. «Smout.» Pausa. «Capisco.» Altra pausa. «Quindi», prosegue, lentamente, come se stesse riflettendo, «se l’Iraq fosse coinvolto, non è impossibile che il Mossad potesse interessarsi alla faccenda. Anche se uno dei nostri suicidi era di fede semitica…»

«Anche Vanunu lo era.»

«Già. Hmm. Interessante. Ti rendi conto, però, che c’è la possibilità che il tuo informatore sia un mitomane?»

«Già, è possibile.»

«Fino a ora si è rivelato attendibile?»

«No. È una fonte nuova, per quanto ne so. Mi ha dato una serie di nomi, punto e basta. Potrebbe benissimo essere un mitomane. È molto probabile, anzi. Voglio dire, tu non lo penseresti? Pensi che lo sia?» Sto parlando a vanvera. Improvvisamente mi sento molto stupido e un po’ nervoso.

«Hai detto che c’era un sesto nome», scandisce Neil. «Qualche indizio?»

«Di lui ho quello che il mio amico definisce il nome in codice.»

«E cioè?»

«Be’…»

«Cameron, giuro che non ho intenzione di fregarti lo scoop, se è questo che ti preoccupa.»

«No, certo», rispondo. «Questo lo so. È solo che… potrebbe anche essere un buco nell’acqua.»

«È possibile, ma…»

«Senti, Neil, mi piacerebbe parlarne con qualcuno.»

«E cioè?»

«Qualcuno dell’ambiente, capisci.»

«Qualcuno dell’ambiente», ripete con voce piatta.

Cristo, come vorrei avere una sigaretta! «Sì», ribadisco. «Qualcuno dell’ambiente. Qualcuno che lavora nei Servizi segreti. Qualcuno che mi guardi negli occhi e mi dica che l’MI6 o chi altri non ha avuto niente a che fare con ’sta storia. Qualcuno con cui possa parlare liberamente.»

«Hmm.»

Lascio che ci rifletta un po’. Alla fine, Neil dice: «Be’, di sicuro c’è qualcuno con cui parlare. Senti, mi rivolgerò a qualche mio contatto, per vedere che reazione ha. Ma so già che chiunque, prima di essere coinvolto, vorrà sapere con chi sta trattando. Vorrà sapere il tuo nome».

«Lo immaginavo. Non c’è problema, puoi dirglielo.»

«Bene. Allora ti farò sapere qual è stata la reazione, d’accordo?»

«D’accordo.»

«A dirti la verità, farebbe piacere anche a me interessarmene, sempre supponendo di non avere a che fare con un mitomane.»

«Okay», dico, scrutando il monitor e cercando di sbirciare oltre la libreria. A chi posso scroccare una sigaretta? mi domando. «Be’, sei molto gentile, Neil. Ti ringrazio molto.»

«Figurati. Senti, quand’è che vieni in città? Non è che voi Picti dovete chiedere un permesso di viaggio per muovervi, o qualcosa di simile?»


Arrivi a casa del signor Oliver, a Leyton, alle nove, come hai concordato con lui nel pomeriggio, durante l’incontro nel suo negozio di Soho. Ha avuto tutto il tempo di rientrare, di far cena, di guardare una delle sue soap opera preferite e di farsi una doccia. Il suo appartamento si trova al primo piano di un edificio in un gruppo di case a schiera in mattoni; al pianterreno c’è una fila di negozi, di ristoranti e di uffici. Premi il pulsante del citofono.

«Sì?»

«Signor Oliver? Sono Mellin. Si ricorda di me, questo pomeriggio?»

«Ah, sì. Venga.» La serratura scatta con un ronzio.

Dentro, oltre il pesante portone munito di una robusta serratura, l’atrio è coperto da una folta moquette e le pareti sono tappezzate con una carta in stile Regency dall’aspetto costoso. Alle pareti sono appesi paesaggi vittoriani con cornici molto elaborate. Il signor Oliver compare in cima alle scale.

È un ometto grassottello, con una carnagione giallastra e capelli così neri che sospetti siano tinti. Indossa un cardigan di cashmere sopra calzoni e panciotto. La camicia è di seta greggia. Fazzoletto da collo. Pantofole. Emana un forte profumo di Polo.

«Buonasera», gli dici.

«Salve», risponde lui con un accento molto strascicato. Quando arrivi in cima alle scale, lui fa un passo indietro, ti porge una mano grassottella e intanto ti squadra da capo a piedi. Preferiresti che la luce — proveniente da un lampadario in miniatura appeso nell’ingresso — fosse meno forte. I baffi ti fanno il solletico sotto il naso. Gli stringi la mano. La stretta del signor Oliver è umidiccia, ma piuttosto decisa. Il suo sguardo si posa sulla cartella rigonfia che tieni nell’altra mano. «Si accomodi», dice, e con un cenno t’invita a entrare.

Il salotto è un po’ pretenzioso. Il signor Oliver predilige tappeti bianchi e folti, divani in pelle nera, tavolini tutti in acciaio e cristallo, e un sistema HI-FI integrato con televisione, stereo e videoregistratore che occupa quasi tutta una parete.

«Si sieda. Gradisce un drink?» dice il signor Oliver, con la sua strana parlata, così strascicata che fai quasi fatica a capire le parole.

Ti siedi sul bordo di una poltrona di pelle, chino in avanti, con l’aria un po’ tesa e la cartella posata sulle ginocchia. Indossi un abito da quattro soldi e hai ancora i guanti infilati.

«Hmm, be’, sì, grazie», rispondi, cercando di sembrare nervoso e poco sicuro di te. Nervoso lo sei, ma non per il motivo che vuoi fargli credere.

Il signor Oliver va verso un mobile bar in cristallo scuro e metallo cromato. «Che cosa preferisce?»

«Hmm, avrebbe del succo d’arancia?»

Il signor Oliver ti studia e ripete: «Succo d’arancia». Si china per aprire il piccolo frigorifero alloggiato nel mobile bar.

Si prepara una vodka con Coca-Cola e si siede sul divano alla tua sinistra. Hai l’impressione che ti stia fissando in maniera strana, e hai paura che il tuo travestimento non sia riuscito a ingannarlo. Tossisci nervosamente.

«Dunque, signor Mellin», fa lui. «Che cos’ha portato per me?»

«Be’…» incominci, mentre ti guardi in giro. Sei rimasto a sorvegliare la casa per tutto il pomeriggio e sei convinto che nell’appartamento non ci sia nessun altro, ma non ne sei matematicamente certo. «Come le ho già detto, hmm… al negozio, si tratta di materiale un po’… speciale. Un materiale per il quale, mi risulta, c’è una certa richiesta.»

«Speciale in che senso?»

«Be’… è… come dire… di… di natura violenta. Anzi, molto violenta. Con… con la partecipazione di… bambini. Mi hanno detto che lei… che lei potrebbe… che lei tratta questo genere di… hmm… articolo.»

Il signor Oliver increspa le labbra. «Be’, bisognerebbe essere idioti per dire in giro una cosa simile, non pensa? Insomma, nessuno confesserebbe una cosa del genere a un estraneo, capisce che intendo?»

«Oh», fai tu, con aria delusa. «Quindi lei non…»

«No, non ho detto niente. Le sto soltanto dicendo che bisogna essere molto… prudenti, capisce?»

«Ah.» Annuisci. «Sì. Sì, certo. Certo, bisogna essere… prudenti. Capisco. Capisco cosa intende.»

«Perché non mi fa vedere quello che ha portato? Daremo un’occhiata e poi decideremo, eh?»

«Sì. Bene. Certo. Hmm… quello che le ho portato è… hmm… soltanto una parte, giusto per darle un’idea, ma credo che dimostri ampiamente…»

«Un video, giusto?»

«Sì, esatto. Un video.» Apri la cartella, tiri fuori una cassetta VHS60, e gliela porgi, alzandoti, dopo aver posato la valigetta sul pavimento di fianco a te.

«Grazie.» La prende e va verso il videoregistratore. Tu rimani immobile, in piedi.

La cassetta non entra. Senti gemere il meccanismo del videoregistratore. Il signor Oliver si china per guardare meglio. Gli vai dietro.

«Hmm, c’è qualche problema?» chiedi.

«Sì, sembra che non…»

La cassetta non entra perché tu hai incollato lo sportellino che protegge il nastro. Il signor Oliver non riesce a finire la frase. Lo colpisci alla nuca con lo sfollagente. Però, dato che stava girando la testa verso di te, il colpo non va perfettamente a segno.

Cade di lato; con una mano cerca di attaccarsi ai componenti dell’HI-FI, ma riesce solamente a spingere il lettore CD e l’amplificatore contro il muro. «Cosa…» annaspa. Con lo sfollagente gli assesti un colpo in pieno viso, rompendogli il naso; poi, mentre l’uomo scivola a terra, gli schiacci l’inguine con un piede. Si piega in due, e si affloscia di lato sul pavimento, ansimando e boccheggiando.

Ti guardi intorno, frenetico; temi che da un momento all’altro una qualche gigantesca governante si precipiti nella stanza brandendo una mazza da baseball. Hai l’altra mano infilata nella tasca della giacca, dove si trova la Browning, ma fortunatamente non compare nessuno. Ti chini in avanti e colpisci il signor Oliver sulla nuca. E questa volta lo vedi afflosciarsi all’istante.

Gli pieghi le braccia dietro la schiena e lo ammanetti; quindi vai verso la cartella per prendere le cose di cui hai bisogno.

Quando è tutto a posto e la videocamera è pronta, devi soltanto aspettare che si svegli. Scendi al portone, lo chiudi a chiave e fai scorrere anche il catenaccio, poi fai un giro della casa per accertarti che non ci sia nessuno.

La camera da letto del signor Oliver è tutta legno, ottone, pellicce e velluto rosso. C’è una vetrinetta che contiene una collezione di oggetti militari, in particolare cimeli delle SS. Su uno scaffale ci sono numerosi libri sul nazismo e su Hitler. I video privati del signor Oliver si trovano in un finto armadio di tek e noce. Sotto il tappeto persiano è nascosta una grossa cassaforte a pavimento con apertura a combinazione.

Scegli un gruppo di video particolarmente rappresentativi e li porti giù, in salotto, dove il signor Oliver, ancora privo di sensi, è seduto, ammanettato e legato a una poltroncina di pelle e metallo che hai preso dalla stanza degli ospiti. Lo hai imbavagliato con una sciarpa di seta, dopo avergli infilato in bocca un calzino, il tutto recuperato dalla sua camera da letto. Il braccio destro è strettamente legato al bracciolo di pelle imbottita. Gli hai tolto il cardigan e gli hai arrotolato una manica della camicia.

Mentre aspetti che riprenda conoscenza, guardi i video che hai portato dalla camera da letto.

Alcuni riprendono atti di sodomia di gruppo su bambini, per la maggior parte maschi, asiatici e sudamericani. Altri mostrano alcune donne montate da asini e da altri animali in quella che sembra una prigione. Gli uomini che assistono alla scena hanno tutti i baffi e indossano divise militari. Probabilmente si tratta di seconde o di terze copie e la definizione delle immagini non è sufficiente per consentirti d’identificare con esattezza le uniformi, però ti sembrano irachene. Ci sono un paio di video che potrebbero provenire dalla stessa fonte e che mostrano uomini, donne e bambini che vengono torturati con ferri da stiro, asciugacapelli, arricciacapelli e così via. Non c’è alcuna ripresa di atti sessuali o di violenze che si concludano con la morte della vittima, ma ti chiedi che cosa mai possa contenere la cassaforte a pavimento che hai scoperto.

Il signor Oliver incomincia a gemere e a lamentarsi dietro al bavaglio e tu indossi rapidamente la maschera da gorilla. Aspetti che apra gli occhi, poi fai partire la piccola videocamera Sony. Prendi la bomboletta di gas dalla cartella, apri la valvola e aspiri.

«Signor Oliver», dici, con una voce stridula e assurdamente infantile. «Bentornato tra noi.»

Con gli occhi spalancati, lui osserva prima te e poi la videocamera, appoggiata sul piccolo cavalletto sopra il tavolino.

Prendi un’altra boccata di elio. «Sarà la star del suo video personale… Divertente, no?»

Si agita, ruggendo dietro il bavaglio. Vai alla valigetta e ne tiri fuori un flacone per medicinali, uno di quelli con l’imboccatura larga. La boccetta è chiusa con un pezzo di pellicola trasparente, fermata da elastici. Agiti il flacone ed estrai dalla valigetta la siringa.

Quando vede questi oggetti, il signor Oliver urla.

Aspiri altro elio, poi alzi la boccetta panciuta e gli mostri il liquido spesso e biancastro contenuto all’interno. «Riesce a immaginare che cos’è?» gli chiedi con una voce da bambino depravato.

La siringa è gigantesca, non uno di quegli affarini usa e getta che usano medici e drogati. È fatta di acciaio inossidabile e vetro; lo stantuffo è equipaggiato con due ganci di metallo per le dita, e può contenere fino a 20 cc di liquido. Rovesci il flacone sigillato con la pellicola di plastica e infili la punta del grosso ago nel liquido denso e perlaceo. Sotto il bavaglio, il signor Oliver continua a urlare.

Aspiri ancora un po’ di gas e gli spieghi quello che gli farai.

Le sue urla soffocate diventano sempre più stridule finché non sembra che anche lui abbia inalato l’elio.


Il giorno seguente frego una Lambert Butler a Rose, della redazione esteri; la fumo seduto alla mia scrivania e provo un vero sballo, seguito da un profondo disgusto per me stesso. Giuro che è davvero l’ultima che fumo. Stavolta ne sono proprio convinto e decido che merito un premio: comprerò qualcosa, sfruttando il recente innalzamento del limite di utilizzo della mia carta di credito. La macchina ha bisogno di una revisione, a me servirebbe un vestito nuovo e la moquette dell’appartamento è quasi lisa, ma nessuna di queste ipotesi dilapidanti possiede un reale potere di autogratificazione, anzi. Mentre me ne sto seduto a rileggere l’articolo sul whisky — che sto mettendo insieme molto lentamente — mi sento la bocca asciutta e intanto penso a che cosa potrei fare con tutta quella grana in più.

Apro un cassetto e tiro fuori una rivista di computer. Cinquecento pagine patinate e interamente a colori più un dischetto gratis per meno di due sterline. È il numero di novembre, ma i prezzi potrebbero già essere superati; di solito con i computer scendono, ma questa volta magari sono saliti perché, ora che siamo usciti dallo SME e la sterlina sta colando a picco nei confronti del dollaro, il prezzo dei componenti fabbricati all’estero sarà sicuramente aumentato.

Sfoglio la rivista, alla ricerca delle pubblicità dei laptop.

Cazzo, uno di questi me lo posso permettere; uno a colori, voglio dire, uno sul quale giocare a Despot. Anzitutto perché lo posso detrarre dalle tasse (in fondo, lo uso per lavoro) e secondariamente perché sto smettendo di fumare: significa un risparmio di almeno venti sterline alla settimana, anche ammettendo che non la piantassi con l’anfetamina. In questi ultimi tempi, il prezzo dei laptop 386 è sceso velocemente, e gli schermi a colori non sono più considerati un lusso nel mercato dei portatili. Ma sì, si può fare!

Prima che la parte del mio cervello più dotata di buon senso trovi argomentazioni convincenti sul fatto che con quel denaro potrei fare dell’altro, chiamo una ditta di Cumbernauld di cui ho sentito parlare molto bene e faccio due chiacchiere con uno dei venditori. Discuto con lui di quello che mi serve, e conveniamo che tanto vale prendere un 486. Questo significa spendere un po’ di più di quello che pensavo, ma in fondo ne vale la pena. È necessario anche un hard disk decente e, ovviamente, una batteria di ricambio. Inoltre, avrò bisogno di un cavo per trasferire i dati dal mio PC di casa al laptop e viceversa. Con un piccolo extra, poi, posso avere anche un hard disk rimovibile, cosa che non solo rende i miei dati più sicuri, ma consente una facile sostituzione del disco rigido se questo finisse con il rivelarsi insufficiente. Dopotutto, stiamo parlando di una macchina di qualità: non avrò più bisogno di cambiarla per molti anni. Vale la pena spendere un po’ di più per garantirsi un prodotto che non diventi obsoleto troppo in fretta. Loro non ritirano l’usato, ma il venditore mi assicura che non avrò la minima difficoltà a vendere un Toshiba, anche se il modello è vecchio; dopotutto un Tosh è sempre un Tosh.

Ci mettiamo d’accordo sull’esatta configurazione. Ne hanno uno pronto. Posso andare a prenderlo oggi, domani, quando voglio, oppure me lo possono recapitare loro nel giro di due giorni, e la consegna costa solo un deca.

Decido di andare a prendermelo. Gli do il numero della mia carta di credito per il deposito e rimaniamo d’accordo che andrò da loro, in ditta, nel giro di due ore. Dovrò acquistare quell’accidente a credito, ma il sistema di finanziamento che adottano mi sembra ragionevole. (Sono vicino al limite dello scoperto, anche se è quasi ora che arrivi lo stipendio e riporti, anche se per poco, il mio conto corrente in nero, prima che ritorni tranquillamente in rosso per il resto del mese.) Ci sarebbero anche alcuni conti da pagare, ma quelli possono aspettare.

Sono così eccitato che finisco l’articolo sul whisky in mezz’ora.

«Bene, Frank», gli dico, infilandomi la giacca. «Io vado a Cumbernauld.»

«Ah, vuoi dire Combustibile.»

«Come?»

«Controllo ortografico: ‘Combustibile’. Ah, ah.»

«Ah, già.»

«Torni, più tardi?»

«Ne dubito.»


Faccio il giro della stanza, con il respiro che si fa veloce e profondo. Lei continua a piroettare su se stessa, seguendomi, mettendosi di fronte a me, con il corpo che luccica. Ansimo; il petto si alza e si abbassa, le mani sono tese davanti a me, i piedi stridono sulle piastrelle. Sento il cazzo che dondola tra le gambe. Lei emette un rumore — mezzo grugnito, mezzo risata — e fa un balzo verso il bagno. La afferro per una caviglia, ma il balzo si rivela una finta; lei schizza nella direzione opposta, aprendo la porta. La pelle unta d’olio mi scivola tra le dita, barcollo e rischio di cadere nella Jacuzzi, dopo aver picchiato il ginocchio contro la base piastrellata. Lei scompare, sbattendosi la porta alle spalle. Massaggio il punto dolorante, poi apro la porta di scatto, attraverso di corsa lo spogliatoio e arrivo nella stanza fiocamente illuminata. Nessun segno della sua presenza. Rimango lì in piedi, continuando a massaggiarmi il ginocchio, respirando con la bocca per fare meno rumore possibile e poterla sentire. Il letto è molto grande, ancora disfatto, le testate di mogano brillano nel debole chiarore proveniente dai punti luce nascosti dietro i mobiletti laterali che, collegati da mensole, formano un blocco unico con la testiera. Vado di fianco al letto, mi giro per lanciare un’occhiata in direzione del bagno, poi mi accuccio lentamente, sentendo il cazzo che s’infila tra le caviglie con un delizioso fremito di anticipazione. Sollevo le coperte, scivolate di lato sul pavimento, e lancio una rapida occhiata sotto il letto.

Improvvisamente percepisco un rumore dietro di me e faccio per voltarmi e alzarmi (in un lampo, capisco che si era nascosta nell’armadio dello spogliatoio), ma è troppo tardi. Mi piomba addosso, colpendomi la schiena e il fianco, togliendomi il fiato e gettandomi sul letto, dove cado a faccia in giù sulle lenzuola di raso nero, schiacciandomi dolorosamente l’uccello tra le cosce. Prima che possa fare un solo movimento, lei mi si siede sopra, a cavalcioni; le gambe agili e muscolose, unte d’olio, scivolano sui miei fianchi, mentre il bel culetto sodo mi schiaccia la parte bassa della schiena, imprigionandomi ancora di più. Mi afferra il braccio destro, lo torce finché non urlo di dolore e poi lo tira in alto, verso il collo, tenendolo bloccato lì, circa un centimetro sotto il punto in cui il dolore diventerebbe insopportabile, solo qualche centimetro sotto il punto in cui l’omero si romperebbe.

Ben mi sta. Ho voluto giocare a questo gioco con una donna che ha frequentato un corso di autodifesa femminile, che regolarmente mi straccia a squash — o con la tecnica o con la forza, dipende dall’umore in cui è — e che si allena seriamente con i pesi. Percuoto le lucide lenzuola nere con l’altra mano.

«Va bene. Hai vinto.»

Grugnisce, poi spinge in su il braccio finché non urlo di dolore. «Ho detto va bene!» urlo. «Farò tutto quello che vuoi!»

Mi lascia andare, rotola giù dalla mia schiena e si sdraia di fianco a me, ansimando e ridendo a ogni respiro, con i seni che si sollevano e si abbassano, e improvvisamente si mette a ridacchiare, facendo tremare appena il ventre piatto. Allora mi sollevo e mi getto su di lei, ma lei rotola via. Atterro sulle lenzuola. Lei tira via una gamba che è rimasta imprigionata sotto di me, si alza in piedi e resta lì a osservarmi, di fianco al letto, con le braccia lungo i fianchi. Tiene i piedi leggermente divaricati. Fisso il triangolino scuro dei peli pubici, gemendo piano.

«Devi avere pazienza», dice lei, facendo un respiro profondo e passandosi una mano tra i capelli corti. Si volta e si allontana sulla folta moquette color crema, camminando in punta di piedi come una ballerina. Arrivata davanti a un armadio a muro, si allunga per prendere qualcosa dal ripiano più alto, e io lancio un altro gemito, drammatico, osservando i muscoli dei polpacci e delle natiche che si contraggono, le fossette in fondo alla schiena che si fanno più profonde e più lunghe, mentre l’ombra dei seni danza sulle ante dell’armadio in frassino lucido e, sull’altro lato, si riflette, nuda e bella da far male, sugli specchi. È in punta di piedi, e sta cercando qualcosa a tastoni sul ripiano dell’armadio. La collinetta carnosa del suo sesso spunta scura tra le gambe, un frutto prezioso, succulento, appena intravisto. Mi lascio cadere all’indietro sul letto, incapace di sopportare oltre.

Dieci minuti dopo sono inginocchiato sul letto, piegato all’indietro, con le gambe larghe e i polsi legati alle caviglie con legacci di seta; il cazzo, così duro da farmi male, rizzato davanti a me, è assolutamente rampante, ma anche stranamente vulnerabile. Sto ansimando, mi fanno male i muscoli; basterebbe uno spiffero d’aria sul cazzo per venire. Lei intanto stringe l’ultimo, inutile, legaccio e mi scivola accanto, mi passa davanti; è così voluttuosamente magra, tonica e muscolosa, ma morbida e umida al contempo, che ormai non gemo più. Sento che mi viene da ridere, e rido, con gli occhi rivolti al soffitto, e sento il peso dell’uccello congestionato che ballonzola di qua e di là al ritmo della risata. Lei scende dal letto, prende il telecomando e annuncia che vuole guardare una soap opera intitolata Eldorado. Mi metto a urlare e lei ride mentre il Trinitron si accende con un clic e lei alza il volume per soffocare le mie urla: rimango lì, in preda al dolore che si sta facendo quasi insopportabile, con lei che se ne sta seduta nella posizione del loto, ridacchiando e facendo finta di essere molto interessata a quella soap di merda. Sono costretto a trascinarmi lentamente all’indietro, sulle ginocchia e sulle caviglie, per un metro o giù di lì, finché non arrivo ai cuscini e alla testiera dove posso appoggiare le spalle doloranti e togliere un po’ di peso da tutti i muscoli del corpo, così almeno mi pare.

Immobilizzato e costretto a sorbirmi quella stronzata, dopo cinque minuti anche il mio cazzo cede e comincia ad ammosciarsi, ma lei si gira e, veloce e leggera, lo sfiora con la punta della lingua. La imploro di succhiarmelo, lei però si volta dall’altra parte e si rimette a guardare la televisione. Mi divincolo e tiro, ma mi ha legato troppo stretto, e ora le ginocchia mi fanno davvero male. Cerco di farla ragionare. «Senti, ora mi fa veramente troppo male», le dico; lei continua a ignorarmi. Ogni tanto si limita a controllare lo stato della mia erezione, e a darmi leccate o succhiatine velocissime, ardenti e terribilmente frustranti, oppure un solo colpetto con due dita inumidite di saliva; non posso fare altro che urlare per la frustrazione, il desiderio e il dolore, tutti in eguale e immensa misura, quando, se Dio vuole, finalmente, grazie al cielo, ’sta coproduzione anglo-americana di merda finisce, parte la musica e scorrono i titoli di coda. A questo punto, però, lei passa su MTV. Non è ancora finita! ’Sta stronza, che si diverte a stuzzicarmi e a tormentarmi, si alza dal letto ed esce dalla stanza. Sono così sorpreso che non riesco neppure a parlare: me ne resto lì, con la bocca aperta e l’uccello in resta. Sono così arrabbiato che cerco sugli elementi componibili di fianco al letto un qualche oggetto da rompere per procurarmi qualcosa di tagliente con cui recidere i legacci. Ho quasi deciso per il piano di cristallo che si trova di fianco al letto dalla sua parte — piano sul quale si trova ancora un bicchiere con un dito di vino rosso —, quando lei ritorna nella stanza, con un bicchiere scintillante in una mano, una tazza fumante nell’altra e un sorrisetto divertito sulle labbra. So che cos’ha intenzione di fare e comincio a implorarla. «No, ti prego; lasciami andare, mi fanno male le braccia, le gambe, le ginocchia; non potrò mai più camminare, ti prego, ti prego!» Tutto inutile; s’inginocchia davanti a me, si porta il bicchiere alle labbra e, lanciandomi un’occhiata divertita, si fa scivolare in bocca un cubetto di ghiaccio… poi abbassa la bocca sul cazzo.

Arriva quindi la volta del caffè bollente, ma solo per poco: non è ancora abbastanza: di nuovo il ghiaccio, poi il caffè, e poi il ghiaccio. A questo punto sto davvero piangendo, per il dolore, il desiderio e l’insopportabile frustrazione; sto piangendo e implorando, la sto supplicando di smetterla, quando, finalmente, lei sputa via l’ultimo cubetto di ghiaccio, posa bicchiere e tazza di fianco al bicchiere di vino, avanza e mi monta a cavalcioni, facendomi scivolare dentro di lei velocemente e senza difficoltà; è ancora più calda del caffè, tanto calda da scottarmi, da bruciarmi. Faccio un piccolo «Ah» di sorpresa, mentre lei si muove su e giù, mi mette le dita sulla gola e porta l’altra mano dietro di sé, a toccarmi le palle, e improvvisamente sto venendo, piangendo e singhiozzando, scosso dagli spasmi, lei s’immobilizza e sussurra: «Tesoro, tesoro». Spingo e pompo come un matto e i movimenti rendono il dolore alle giunture delle gambe e delle braccia insopportabile e gradevole al tempo stesso.

I legacci sono diventati troppo stretti per riuscire a scioglierli; è costretta a tagliarli con la lama scintillante del coltello da caccia che tiene sotto il materasso dalla sua parte, nel caso che le entrasse in casa qualche stupratore.

Rimango sdraiato, circondato dalle sue braccia, ansimante, stremato, esausto; mentre il dolore dei muscoli e delle ossa gradualmente si attenua e le lacrime sul mio viso si asciugano, lei mormora: «Com’è statò?»

«Fottutamente geniale», sussurro.


La mattina seguente arrivo al giornale di buon’ora, con il computer nuovo, tutto felice dopo la mia volata a Cumbernauld e la mia serata con Y (il mio nuovo computer supersexy non l’ha affatto impressionata; non tutti però sono maniaci del computer e, se dovessi scegliere chi tenere in grembo, se lei o lui, sceglierei lei) dopo la quale sono tornato a Cheyne Street; Y vuole che me ne vada prima che si faccia troppo tardi, perché è preoccupata che i vicini del loro residence superchic s’impiccino. Ero così stanco che, anche se morivo dalla voglia di provare il nuovo laptop e assicurarmi che Despot girasse bene (finalmente un portatile! Gioia orgasmica e straordinaria!), mi sono addormentato sul divano; a un certo punto della notte, sono riuscito a trascinarmi fino al letto e, una volta tanto, a farmi una bella nottata di sonno. Mi alzo all’alba, o poco dopo, per una volta arrivo in ufficio leggermente in anticipo e, come entro, vedo Frank davanti alla reception; sto per mostrargli il mio nuovo giocattolo, ma lui mi guarda, preoccupato, mi prende da parte, mi porta in un angolo e mi dice: «Cameron, Eddie vuole vederti. Ci sono un paio di poliziotti su da lui».

«Cosa c’è?» chiedo, ridendo. «Ancora il Fettesgate?» Fettesgate è il nome dato a un piccolo scandalo che ha coinvolto la polizia del Lothian: un gay, convinto di essere stato vittima di un sopruso, era riuscito a entrare (con imbarazzante facilità) nel quartier generale della polizia di Fettes, trovando, e fotocopiando, un sacco di materiale compromettente.

«No», risponde Frank. «Non ha niente a che fare con quello, pare. Hanno chiesto di te.»

«Di me?»

«Sì. Espressamente di te.»

«Sai chi sono?»

«No.»

«Hmm.» Conosco parecchi poliziotti, alcuni anche in posizioni importanti, come conosco avvocati, dottori, politici e funzionari in un sacco di enti pubblici. Niente per la quale. «Non riesco a immaginare perché», sbotto, stringendomi nelle spalle. «Hai idea di che si tratti?»

Frank sembra a disagio. Lancia un’occhiata in direzione del portiere, seduto dietro al bancone poco lontano da noi, e si volta per dargli la schiena. Avvicina la testa alla mia e mormora: «Be’, Morag ha sentito qualcosa di quello che si dicevano attraverso l’interfono…»

Porto una mano alla bocca e faccio una risatina. Ero sicuro che la segretaria di Eddie lo spiasse. Fino ad adesso, però, non sapevo che si confidasse con Frank.

«Cameron», dice Frank, abbassando ancora di più il tono di voce, «pare che stiano facendo indagini su alcuni omicidi.»

Загрузка...