La macchina s’inerpica sulla stradina a una sola carreggiata che porta verso le basse colline; la luce dei fari crea una lunga galleria di luce tra le siepi. Indosso jeans neri, stivali neri, una polo blu scuro sopra una camicia blu e due maglie. Porto un paio di guanti di sottile pelle nera. Trovo un sentiero che si diparte dalla strada e conduce in un boschetto; proseguo con l’auto fin dove mi è possibile, poi spengo i fari. L’orologio sul cruscotto segna le tre e dieci. Aspetto un minuto. Non passa nessuno, sono quasi certo che nessuno mi abbia visto. Mi batte già forte il cuore.
Quando scendo dalla macchina, la notte è fredda. C’è una mezza luna, ma a tratti viene completamente oscurata da banchi di nuvole basse che si muovono veloci, lasciando cadere di quando in quando scrosci di pioggia ghiacciata. Il vento soffia forte tra i rami nudi degli alberi. Ripercorro il sentiero in direzione della strada e mi volto a guardare l’auto: è quasi completamente nascosta. Attraverso la striscia di asfalto, scavalco la staccionata, poi prendo il passamontagna dalla tasca dei calzoni e me lo tiro giù sul viso. Seguo la siepe che costeggia la strada, abbassandomi di colpo quando un’auto passa veloce lungo la strada; i fari spazzano la siepe sopra la mia testa. La macchina prosegue nella notte. Riprendo a respirare.
Arrivo alla staccionata in pendenza e la seguo, inciampando contro le pietre e i massi ai bordi del campo. I miei occhi non si sono ancora abituati all’oscurità. Il terreno è abbastanza solido, non troppo fangoso.
Arrivato alla siepe che delimita la parte bassa del campo, perdo un minuto buono a cercare un varco. Alla fine sono costretto a strisciarvi sotto, e la polo rimane impigliata. Ci sono alcuni alberi: non riesco a vederli, ma ne avverto la presenza a causa dei fischi e degli scricchiolii prodotti dal vento che soffia tra i loro rami.
Scendo slittando un argine fangoso e coperto di foglie, e attraverso un rigagnolo gelato; l’acqua mi entra in uno stivale. «Merda!» mormoro, poi, sempre sguazzando nel fango, risalgo l’altro argine, attaccandomi ai rami freddi dei cespugli e alle radici viscide degli alberi. Mi faccio strada scostando alcuni rami dei cespugli che crescono lungo il ruscello. Vedo le luci della strada davanti a me e le forme geometriche delle case buie. Sempre semiaccucciato in mezzo ai cespugli bassi, mi muovo diagonalmente nella boscaglia, verso la proprietà. Inciampo in un tronco e cado, ma senza farmi male. Arrivo al muro di mattoni alto un paio di metri che circonda il complesso e lo seguo a tastoni, incespicando in cumuli di terra e in calcinacci, finché non arrivo all’angolo.
Conto sessanta passi lungo il muro, poi lo abbandono per dirigermi verso l’albero più vicino. In quel momento, le nuvole si diradano e devo aspettare cinque minuti perché tornino a ricoprire la luna. Quindi mi arrampico sull’albero. Salgo quel tanto che basta per vedere la casa e identificarla grazie alla sua posizione e ai mobili da giardino, scendo, raggiungo il muro e mi tiro su. Rimango lì un attimo, con le mani che tremano e il cuore che batte all’impazzata. Osservo la casa buia davanti a me e la barriera di alti cespugli e di alberelli che la separano su entrambi i lati dalle altre ville.
La luna minaccia di scoprirsi di nuovo; sono costretto a saltar giù velocemente sul patio lastricato. Di fianco alla serra c’è un muretto che arriva a circa un metro dalla cima del muro di recinzione dell’intero complesso; ecco la mia via di fuga. Sulla casa, nel muro, ci sono luci di sicurezza dotate di sensori a infrarossi; se m’individuano, dovrò rinunciare: scavalcherò il muro, e scapperò per il bosco.
Attraverso silenzioso il patio e poi il prato, in direzione della casa; mi aspetto da un momento all’altro il bagliore delle lampade di sicurezza, che però restano spente. Arrivo nella zona in cui si trovano i mobili da giardino, vicino alla piscina coperta da un telo, e mi accuccio di fianco alla spettrale sagoma traforata della panca di metallo. Cerco la sporgenza in cui lo schienale della panchetta si congiunge al bracciolo, e i guanti di pelle restano impigliati nella superficie scabra della saldatura. Non ho abbastanza sensibilità. Mi tolgo un guanto e cerco meglio: il metallo è freddo e aguzzo contro la pelle. Trovo lo stucco: la chiave è infilata lì dentro. Con la punta delle dita sento il pezzettino di spago cui è attaccata, lo afferro e tiro piano. La chiave scivola fuori, tintinnando leggermente contro la panca. Mi rimetto il guanto.
A passi cauti, oltrepasso la serra, mi dirigo alla porta sul retro, infilo la chiave nella serratura e la giro. La porta si apre senza far rumore. La casa è silenziosa e odora di detersivo. Richiudo la porta a chiave. Mentre mi allontano, nell’angolo più lontano della stanza, in alto, si accende una debole lucina rossa, con un clic appena udibile. Ma l’allarme non parte: il sistema non è inserito.
Attraverso la lavanderia con estrema lentezza ed entro in cucina (si accende un’altra lucina rossa). Gli stivali stridono sulle piastrelle. Resto fermo un attimo, m’inginocchio, me li tolgo, e li lascio vicini alla lavastoviglie. Quando mi rialzo, scorgo il blocco di legno pieno di coltelli, appena visibile alla luce della luna, appoggiato sul piano di lavoro vicino al luccicante lavandino in acciaio inossidabile. Tiro fuori il coltello più grosso, mi volto ed esco dalla cucina, avviandomi per il corridoio in direzione delle scale, passando davanti al soggiorno e allo studio. Oltre le scale, si apre il salone su due piani; una lama di luce arancione, proveniente dai lampioni della strada, dietro gli alberi del giardino, rivela divanetti di pelle, sedie, scaffali pieni di videocassette, CD e libri, un paio di tavolini bassi e una grossa cappa di metallo sovrastante un caminetto rialzato che si trova al centro della stanza. Mentre vado verso le scale, un’altra lucina rossa brilla in un angolo superiore della stanza.
La moquette che ricopre i gradini è folta; i miei passi non fanno rumore; arrivo in cima e mi dirigo silenziosamente verso la camera da letto principale, facendo scattare un altro sensore. La porta si apre con un cigolio quasi impercettibile.
In testa al grande letto matrimoniale si scorge un debolissimo chiarore verde. Mentre avanzo, intravedo i numeri di un orologio digitale. La luce verdastra lambisce le lenzuola candide e il volto di una persona, sola, che dorme. Mi avvicino molto lentamente, tenendo il coltello davanti a me. La osservo respirare. Tiene un braccio fuori delle coperte, pallido e nudo, penzoloni. Ha i capelli corti, neri, e il volto minuto, da maschiaccio, sopracciglia sottili e scure, naso piccolo, labbra pallide un po’ imbronciate e un mento appuntito e triangolare che ben si accompagna agli zigomi alti e marcati.
Le vado più vicino. Lei si muove impercettibilmente. Tengo il coltello in una mano e con l’altra afferro il piumino: lo strappo via di colpo, gettandolo dietro di me e scoprendo il corpo nudo e pallido. Faccio un balzo in avanti e le premo una mano sulla bocca. Lei spalanca gli occhi, cerca di allontanarmi, ma io la spingo contro il letto, sempre tenendole la mano premuta sulla bocca. Sollevo il coltello in modo che lei possa vederlo. Lei si dibatte, spalanca ancora di più gli occhi: la tengo bloccata contro le lenzuola con il mio peso e continuo a tenerle la mano guantata sulla bocca, anche se lei non fiata. Le appoggio la lama del coltello contro la gola; lei s’immobilizza.
«Un solo rumore e sei morta, capito?» dico. Sembra che non mi abbia sentito, continua a fissarmi. «Capito?» le ripeto e questa volta annuisce in fretta. «Ti ho avvisata», sibilo, togliendole la mano dalla bocca. Lei non urla.
Mi sollevo, sempre tenendole il coltello vicino alla gola. Abbasso la cerniera dei jeans. Non porto mutande, e l’uccello esce fuori, già duro. Lei mi fissa negli occhi. Deglutisce. Vedo un’arteria che le pulsa nella parte alta del collo lungo e bianco, sotto il mento. La sua mano scivola lentamente verso il lato del letto. Io la guardo e la mano si ferma. Ora ha un’espressione terrorizzata. Le appoggio la lama di nuovo contro il collo e guardo verso il bordo del materasso. Lei sta tremando. Allungo una mano sotto il materasso, sopra la traversa di legno dell’enorme letto. Sento un manico. Tiro fuori un coltello da caccia con una lama seghettata di venticinque centimetri. Faccio un debole fischio, e poi lo getto sul tappeto, verso la finestra. Lei continua a fissarmi.
«Girati», le dico. «In ginocchio, come un cane. Subito.»
Respira forte, ansimando, con la bocca aperta. Sta tremando tutta.
«Obbedisci!» le sibilo.
Si gira a pancia in giù e poi si alza, mettendosi a quattro zampe.
«La faccia sul letto», le ordino. «Le mani lassù.»
Appoggia la faccia sulle lenzuola e posa le mani davanti a sé. Prendo le manette dalla tasca e gliele faccio scattare ai polsi. Mi fermo per indossare un preservativo, poi salgo sul letto dietro di lei, appoggio il coltello sulle lenzuola, a portata di mano, le afferro i fianchi e la attiro verso di me, sopra il mio uccello.
Urla, quando le entro dentro. È bagnatissima; bastano pochi colpi e sto per venire; lei ansima, geme, urla: «Oh, sì, scopami, sì!» e poi è tutto finito. Le crollo addosso, quindi rotolo di lato e quasi mi taglio un orecchio sulla lama gelida del coltello da cucina posato sulle lenzuola.
Lei resta sdraiata su un fianco, e mi osserva, ancora ansimante, le mani bloccate dietro la schiena, con un’espressione strana e intensa sul volto. «Tutto qui?» dice, dopo un po’.
Faccio un respiro profondo. «No», rispondo.
La tiro bruscamente in ginocchio con la faccia contro le lenzuola, le allargo le natiche e le infilo un indice nell’ano, su fino a metà. Lei boccheggia. Avvicino la testa al suo culo e lascio cadere un po’ di saliva sulla nocca, nel punto in cui è stretta dall’anello di muscolo, poi spingo dentro tutto il dito. Boccheggia nuovamente. Comincio a muovere il dito dentro e fuori, sfregandole la clitoride con l’altra mano. Dopo un po’ uso due dita e quasi subito ho un’altra erezione; tolgo il primo preservativo e ne infilo un altro, gli sputo sopra e, aiutandomi con le dita, le infilo lentamente il cazzo nel retto.
Lei viene con un urlo; io non pensavo che sarei venuto, ma mi sbagliavo.
Crolliamo insieme sul letto, respirando all’unisono. Mi tiro fuori da lei. Apro le manette e restiamo abbracciati. Lei mi toglie il passamontagna.
«Dove sono le tue scarpe?» mi chiede dopo un po’, con un filo di voce.
«In cucina. Erano incrostate di fango. Non volevo sporcare dappertutto.»
Ride piano nel buio.
«Ma ero io, ad avere il controllo», dice, sopra il rumore dell’acqua che scorre, mentre m’insapona le spalle e la schiena. «Dovevo soltanto dire il tuo nome e sarebbe stata finita. Era questo l’accordo. Mi fido di te.»
«E che differenza fa?» le chiedo. «Chiunque ci avesse visti avrebbe affermato che io ero uno stupratore e che tu venivi violentata.»
«Ma noi sapevamo che non era così.»
«E sta tutto lì? Voglio dire, soltanto nel pensarlo? E se fosse stato un vero violentatore?»
«E se tu avessi sbagliato casa?»
«Ho controllato i mobili.»
«E tu eri proprio tu; ti muovevi come fai tu, parlavi come parli tu; avevi il tuo odore.»
«Però…»
«Senti, a me è piaciuto», m’interrompe, insaponandomi il fondoschiena e le natiche. «Non credo che vorrei ripeterla, ma è stata un’esperienza interessante. E tu? Che effetto ti ha fatto?»
«Ero nervosissimo… Temevo che non sarei riuscito a farmelo venir duro, anzi ne ero certissimo, specialmente perché risento ancora degli strascichi della sbronza di ieri, e poi invece… mi sono eccitato. Credo sia successo quando mi sono accorto che tu lo eri…»
«Hmm, non prima?»
«No!»
«No.»
«Insomma, mi sentivo malissimo. Mi sentivo uno stupratore.»
«Ma non lo eri.» Fa scivolare le mani tra le mie natiche, m’insapona le cosce e poi l’interno delle gambe. «Stavi facendo una cosa sulla quale ho sempre fantasticato.»
«Ah, stupendo! Dunque quel vecchio stronzo di Jamieson aveva ragione. Segretamente, ogni donna desidera essere violentata.»
Yvonne mi dà un colpetto sui polpacci. «Non essere stupido. Nessuna vuole essere violentata, ma certe hanno delle fantasie. Il controllo non è un semplice dettaglio, Cameron… Sapere che si tratta di qualcuno di cui ti puoi fidare non è un fattore secondario: fa differenza.»
«Hmm.» Sono poco convinto.
«Gli uomini come Jamieson odiano le donne, Cameron. O forse odiano le donne che non sono totalmente sottomesse agli uomini, le donne che non riescono a tenere sotto controllo.» Fa risalire le mani lungo le gambe, m’infila le dita tra le natiche, sfiorandomi l’ano e facendomi sollevare in punta di piedi; poi le sue mani tornano sulle gambe. «Forse gli uomini come lui meriterebbero che succedesse anche a loro», dice. «Di venire aggrediti e violentati, cioè; così capirebbero se gli piace o no.»
«Sì», annuisco, rabbrividendo nonostante il caldo, perché ci stiamo inoltrando su un territorio pericoloso. «Sai, con tutte quelle parrucche, le giarrettiere e le toghe ridicole; secondo te, non se lo vanno a cercare? Capisci cosa intendo?» Mi va il vapore in gola e comincio a tossire.
Mi domando se dovrei dirle qualcosa a proposito della polizia e sul fatto che il giudice Jamieson ha subito «una grave aggressione», qualsiasi cosa significhi. Dopo la sbronza pomeridiana con Al non sento più quel gran bisogno di confidarmi che avevo prima, e non so decidere se sia giusto coinvolgere Yvonne oppure no.
Mi lava i piedi. «Oppure», procede, «Germaine Greer e Andrea Dworkin hanno ragione, e hanno ragione pure Pickles e Jamieson: tutti gli uomini sono stupratori e alle donne piace essere violentate.»
«Stronzate.»
«Hmm…»
«A me non piace che mi si faccia sentire come uno stupratore.»
«Va bene, allora non lo faremo più.»
«E l’idea che tu me l’abbia chiesto continua a sembrarmi… sconvolgente.»
Lei resta in silenzio per un po’. «L’altro giorno…» riprende (mi sta insaponando la parte anteriore delle gambe, ma da dietro), «quando sei stato costretto a guardarti tutta una puntata di Eldorado in quella posizione molto scomoda, ti è piaciuto, no?»
Sta passando le mani insaponate lungo le mie cosce.
«Be’… alla fine sì», ammetto.
«Ma se te lo avesse fatto qualcun altro…» dice piano, così piano che quasi non riesco a sentirla sopra il dolce scroscio della doccia. Mi sta insaponando le palle, palpandole con delicatezza, massaggiandole. «…Qualcuno che non conoscevi — maschio o femmina — che ti avesse legato, lasciandoti indifeso in un luogo in cui nessuno ti avrebbe potuto aiutare neanche se avessi urlato, e se ci fosse stato un grosso coltello sotto il materasso… come ti saresti sentito, allora?»
Si alza e comincia a sfregarsi contro di me, toccandomi l’uccello ancora quasi completamente moscio. Guardo attraverso il vapore e i rivoletti d’acqua che scorrono sul vetro della cabina della doccia. Intravedo il bagno fiocamente illuminato e mi domando che cosa farei se d’un tratto vedessi comparire William, con la borsa da viaggio in mano, e un’espressione del tipo: Sorpresa! Tesoro, sono qui!
«Di sasso», ammetto. «Sarei rimasto pietrificato dalla paura. Anzi, afflosciato dalla paura.»
Mi sta tirando con delicatezza l’uccello. Lui non vorrebbe; trovo veramente difficile crederlo, perché non sono del tutto convinto di volerlo neanch’io — mi sento così esausto e dolorante — ma lui sta davvero rispondendo, sta crescendo e sta diventando duro, si sta rizzando tra le sue mani insaponate che lo palpano.
Mi posa il mento sulla spalla e punta un’unghia appuntita contro la giugulare. «Voltati, schiavo», mi sibila.
«Sì, padrona.»
Dopo un’ora di sonno, Yvonne mi sveglia e mi comunica che devo andarmene. Mi giro dall’altra parte e faccio finta di dormire, ma lei strappa via il piumino e accende tutte le luci. Sono costretto a rimettermi gli abiti sporchi e fradici di sudore e ad andare in cucina, brontolando mentre lei mi prepara un caffè. Mi lamento per gli stivali bagnati e lei mi dà un paio di calze di William; le infilo e bevo il caffè, continuando a piagnucolare perché non mi lascia mai passare la notte con lei, e le dico che per una volta, solo per una volta mi piacerebbe tanto svegliarmi con lei al mattino, fare una bella colazione da persone civili, seduti sul soleggiato terrazzo fuori della camera da letto… Lei però mi ordina di sedermi, mi allaccia gli stivali, mi toglie la tazza di caffè dalle mani e mi caccia fuori dalla porta. Quindi mi avverte che ho esattamente due minuti di tempo prima che inserisca il sistema di allarme e metta i sensori delle luci di emergenza in stand by. Sono costretto a tornare indietro per la stessa strada da cui sono venuto: scavalco il muro, attraverso il bosco e il ruscello — dove questa volta mi bagno tutti e due i piedi — poi, risalendo l’argine, cado, sporcandomi ancora di fango. Riesco a inerpicarmi sull’altra sponda e a oltrepassare la siepe, dopo essermi graffiato una guancia e aver nuovamente strappato la polo; attraverso il campo a fatica, affondando nel fango sotto la pioggia battente, e arrivo alla macchina. Quando non riesco a trovare le chiavi vengo preso dal panico, ma poi mi viene in mente che, per sicurezza, le avevo messe nella tasca dei jeans chiusa con il bottone, invece che nella tasca laterale come faccio di solito. Per ultimo sono pure costretto a mettere un po’ di frasche secche sotto le ruote anteriori perché ’sta macchina del cazzo si è impantanata. Finalmente riesco a partire e a tornare a casa. Anche alla debole luce del lampione si vede benissimo il disastro che i miei abiti infangati hanno fatto sul sedile.
Sono troppo stanco per dormire, e così gioco un po’ a Despot, ma non sono concentrato e il mio Impero, dopo i disastri precedenti, si trova ancora in una situazione disperata, tanto che mi chiedo se non valga la pena di ricominciare da capo. Questo tuttavia significherebbe ritornare molto indietro, agli albori della civiltà. Con Despot, si è spesso tentati di fare uno scambio di PDV, cosa che, per chi non conosce il gioco, suona come una specie di dettaglio innocente e trascurabile, e invece non lo è affatto. In realtà, infatti, non si scambia soltanto il Punto di Vista, ma anche l’attuale Livello di Potere Dispotico; uno scambio che non è mai favorevole! Pure ammesso che si tratti di un signorotto locale, di un re, di un generale, o di un personaggio vicino al sovrano, uno scambio non è da prendere alla leggera perché, nel preciso momento in cui rinunci all’attuale Livello di Potere Dispotico, è il computer che prende il comando e lui sì, che ci sa fare. Se aspetti troppo a scambiare, se resisti troppo a lungo, vieni assassinato, ed è finita. Ti ritrovi in una caverna in compagnia di altri venti cavernicoli coperti di pulci e con la brillante idea di accendere il fuoco! Se invece scambi troppo presto e il computer prende in mano la situazione, riuscendo a fare un miracolo e a salvare il culo del Despot che hai appena abbandonato, arriva la polizia segreta che, nel cuore della notte, bussa alla porta di casa tua, ti strappa alla famiglia e ti consegna all’oblio: la macchina si dichiara immediatamente vincitrice e tu finisci comunque in quella merdosa caverna.
Per un’ora riesco a tenere a galla la civiltà, poi mi arrendo, salvo e me ne vado a letto. Ho fumato sei sigarette senza neppure accorgermene.
Sono sempre deciso ad andarmene in collina. Mi sveglio tardi, ma riposato. Telefono ad Andy e gli confermo la mia prossima visita, chiamo Eddie e mi prendo tre giorni liberi, quindi avverto la polizia (la base è a Fettes, anche se l’ispettore è tornato a Londra): mi comunicano che non possono ancora restituirmi il mio portatile. Infine, dopo aver ripulito un minimo la macchina, lascio la città. Attraverso il ponte grigio sotto una pioggia battente accompagnata da forti colpi di vento — il limite di velocità sul ponte è stato ridotto a sessanta ed è vietato il transito ai veicoli alti — con la mia 205 che sculetta sui Dunlop ogni volta che una raffica la investe.
Prendo la M90, costeggiando Perth e dirigendomi a nord sulla A9, con quel frustrante alternarsi di carreggiate a corsia singola e doppia e con quei minacciosi cartelli che avvertono che la strada è pattugliata da auto civetta; ma il bello viene dopo Dalwhinnie! La colonna sonora è fornita da Nirvana, Michelle Shocked, Crowded House e Carter USM. A mano a mano che proseguo verso ovest, la pioggia diminuisce e colgo gli ultimi sprazzi di un epico tramonto insanguinato sopra l’isola di Skye e su Kyle, con i grandi riflettori che colorano di verde le pietre scure dell’Eilean Donan Castle. Arrivo a Strome in quattro ore e venti minuti, giusto in tempo per vedere le stelle che fanno capolino nelle chiazze color porpora che si aprono tra le nuvole scure e gonfie di pioggia.
«Che bastardo! Che assoluto, maledetto bastardo! Ecco come si fa! Bastardo!»
Ricompensa, redenzione, ma anche conoscenza! Mi trovo nell’albergo buio sulle rive del lago scuro ed è quasi mezzanotte. Sono ubriaco, ma non fatto, e così pure Andy e il suo amico Howie. Sono seduto nella vecchia sala da ballo al pianoterra, che dà sulle acque del lago da cui s’innalzano le spettrali montagne grigie illuminate dalla luna, con le cime coperte di neve che brillano appena, e sto giocando al computer. Infatti, pensate un po’, sto giocando a Xerium e, salendo e precipitando, ho appena scoperto come superare le Montagne di Zound. Finalmente, finalmente!
È facile, ma è una vigliaccata. Dunque: tu trasporti un carico di carburante, uno schermo di protezione, un ordigno nucleare e un missile. Bene: devi caricare il carburante e l’arma nucleare, alzarti in volo, salire di otto clic, lasciar cadere l’ordigno nucleare ai piedi delle montagne, tornare a tutta velocità verso la base, prendere su lo schermo di protezione, fare il pieno di carburante (attento però a non farlo proprio mentre l’ordigno nucleare esplode, scuotendo la terra) e, badando di avere un solo missile a bordo, salire come un matto, arrivare alla massima quota e poi rimanere in aria al di sopra della nuvola atomica che si sta alzando! La nuvola sale sotto di te e ti trascina oltre il tuo limite massimo. Lo schermo ti protegge — anche se avrai bisogno di fare qualche acrobazia per mantenere la stabilità nelle correnti termiche radioattive — poi, non appena la nube si dissipa, esci e scendi, oltre le montagne — sembrano così piccole! — ti precipiti attraverso la vallata stretta, molli il missile quando il sistema radar della base nemica t’individua e usi il carburante che ti resta per fuggire lontano, mentre il missile distrugge la base. Semplice.
«Bastardo», ripeto, mentre dirigo dolcemente l’aereo verso un punto di rifornimento, dove arrivo con un atterraggio molto morbido. Scuoto la testa. «Cavalcare il fungo atomico! Questo non mi era mai passato per la testa!»
«Non sei sufficientemente agguerrito», spiega Andy, riempiendomi il bicchiere di whisky.
«Già. Bisogna essere veri uomini per giocare a Xerium», dice Howie, facendomi l’occhiolino e sollevando il bicchiere. È un ragazzone robusto che vive in un villaggio vicino, ed è uno dei compagni di sbronza di Andy. Mi sembra un po’ un sempliciotto, e ha un atteggiamento molto poco corretto verso le donne, però è divertente, anche se in maniera rozza. Ehi, gli uomini sono uomini!
«Bisogna essere un po’ pazzi per giocarci», precisa Andy, tornando a sedersi sulla sua poltrona. «Bisogna essere… be’… sufficientemente pazzi.»
«Esatto», annuisce Howie, svuotando il bicchiere. «No, no, grazie», dice poi ad Andy, quando questi fa per riempirglielo. «Sarà meglio che vada. Non posso far tardi al mio ultimo giorno di lavoro alla Forestale.» Si alza e si rivolge a me: «Mi ha fatto piacere conoscerti. Ci vediamo». Mi tende una mano. Una stretta decisa, da uomo.
«Bene», sospira Andy, alzandosi anche lui. «Ti accompagno, Howie. Grazie per essere venuto.»
«Figurati. Non lo dire neanche. Mi ha fatto molto piacere vederti.»
«…una piccola festa di addio, domani sera?»
«Sì, perché no?»
Si allontanano sul pavimento della sala da ballo, che brilla debolmente, diretti più o meno verso le scale.
Scuoto la testa rivolto allo schermo dell’Amiga. «Cavalcare il fungo atomico!» dico tra me. Mi alzo dalla poltrona scricchiolante per sgranchirmi le gambe, e, sempre con il bicchiere in mano, vado verso le grandi vetrate che si estendono dal pavimento al soffitto, formando un’intera parete della sala da ballo, e che danno sul giardino, sulla ferrovia e sulla spiaggia del lago. Delle nuvole rimane solo qualche brandello, la luna è lassù da qualche parte e inonda il paesaggio di luce argentata. Più avanti, a destra del lago, brilla qualche luce, ma la massa delle montagne sul lato più lontano s’innalza scura contro il cielo stellato; sulle cime innevate, il grigio diventa bianco.
Nel salone c’è odore di umidità. È illuminato soltanto dalla luce che proviene dalle scale e dalla lampada appoggiata sul vecchio tavolo a cavalletto su cui è sistemato il computer. Ai lati delle sei altissime finestre a bovindo, pendono tendaggi sbiaditi e a brandelli. Il mio respiro si condensa in nuvolette bianche e appanna il bicchiere. Tutti i vetri sono sporchi e alcuni anche rotti: un paio sono stati sostituiti da pezzi di compensato. Sotto due finestre sono stati sistemati alcuni secchi per raccogliere lo sgocciolio delle infiltrazioni, ma uno è straripato e tutto intorno si è formata una pozza d’acqua che ha scolorito e fatto gonfiare il parquet, che in altri punti invece sembra bruciato. In vari punti, la sbiadita tappezzeria a righe si è staccata dalle pareti, arrotolandosi su se stessa: le strisce pendono come giganteschi trucioli da un pezzo di legno piallato.
La sala da ballo è disseminata di scadenti sedie di legno, di tavoli sgangherati, di vecchi tappeti muffiti arrotolati; scorgo un paio di vecchie moto con cumuli di pezzi di ricambio posati o ammucchiati su teloni sporchi di grasso, e quella che sembra una friggitrice industriale con tanto di cappa, filtri, tubi e ventola.
L’albergo si trova ai piedi di una stradina ripida che si diparte dalla strada principale e scende tra gli alberi. È proprio a causa della collina e della massa scura degli alberi, posti dietro l’albergo, verso sud, che il sole non batte mai sull’edificio in inverno e di rado persino in estate. Un tempo la strada principale arrivava fin qui e il ferry ti portava sulla costa settentrionale del lago; poi, però, il sentiero che girava intorno al lago è stato allargato per farne una strada, e il ferry è stato soppresso. Sì, la ferrovia che congiunge Inverness a Kyle passa sempre di qui e il treno si ferma, se qualcuno lo chiede, ma senza il servizio di ferry e con il traffico automobilistico dirottato altrove, il posto è andato in malora; ci sono ancora alcune case, un negozio di artigianato, il marciapiede della ferrovia, un attracco, un complesso abbandonato che era stato di proprietà di Marconi, e l’albergo.
Tutto qui. All’inizio del paese c’è un cartello che si trova lì da anni, da quando hanno aperto la nuova strada: STROME FERRY-NO FERRY. E questo dice già tutto.
Da qualche parte, al piano di sopra, sento una porta che si chiude. Bevo il mio whisky e osservo le acque color inchiostro del lago. Non penso che Andy abbia mai avuto intenzione di concludere qualcosa con questo albergo. Come tutti gli altri suoi amici, sulle prime ho dato per scontato che volesse gestirlo, investirci del denaro, ristrutturarlo. Pensavamo che avesse una qualche idea segreta per guadagnare un sacco di soldi e che in breve tempo ci avrebbe stupito con quello che aveva saputo fare di questo posto; saremmo venuti tutti qui, osservando meravigliati la folla che era riuscito ad attirare… Ora invece non penso più che stesse cercando un luogo per avviare un’impresa commerciale; credo che stesse cercando un posto che si confacesse al suo stato d’animo esausto, stufo di tutto, scazzato.
«Bene», dice Andy, dall’oscurità. Entra nel salone e chiude la porta a due battenti. «Hai voglia di un po’ di fumo?»
«Oh! Ne hai?»
«Be’, sì», risponde, avvicinandosi. Resta a osservare il lago. È alto più o meno come me, ma ha preso l’abitudine di stare leggermente curvo e sembra più basso e più vecchio di quanto sia in realtà. Indossa un paio di calzoni di velluto a coste, un tempo di buona qualità però ormai così consumati da essere quasi lisi sul sedere e sulle ginocchia, e innumerevoli strati di camicie, pullover pieni di buchi e cardigan. Ha la barba lunga di una settimana: una condizione permanente, a giudicare dalle ultime volte che l’ho visto. «Howie assomiglia a molti altri ragazzi di quassù», dice. «Gli piace bere, ma per il resto ha un atteggiamento strano.» Si stringe nelle spalle e, dalla tasca di uno dei cardigan, tira fuori un portasigarette d’argento. «Ma nella zona ci sono anche un paio di hippy; sono tipi giusti.»
«Ehi», esclamo, ricordando di colpo. «Ti ha chiamato la polizia?»
«Sì», ammette, aprendo il portasigarette e rivelando una decina di spinelli arrotolati con cura. «Un tizio che si chiama Flavell; mi ha chiesto a che ora ti ho richiamato l’altra sera. Gliel’ho detto.»
«Bene. Immagino che dovrò andare a fare rapporto sui miei spostamenti alla locale polizei, domani.»
«Eh, sì. Viviamo in un fottuto Stato di polizia», dice lui con aria stanca, offrendomi una canna. «Allora, ne vuoi?»
Alzo le spalle. «Be’, normalmente no, sai…» Ne prendo una. «Grazie.» Rabbrividisco. Ho addosso la giacca e il Drizabone, ma ho molto freddo lo stesso. «Possiamo andare in un posto caldo?»
Andy, il figlio del ghiaccio, mi guarda e sorride.
Siamo seduti nel salottino vicino alla sua camera da letto, all’ultimo piano dell’albergo; fumiamo spinelli e beviamo whisky. So che domani starò malissimo — anzi, oggi stesso, tra un po’ — ma non me ne frega niente. Gli racconto dell’articolo sul whisky, del filtraggio a freddo e dei coloranti, ma pare che sappia già tutto. Il salottino è abbastanza spazioso e non saprei se definirlo trasandato o vissuto: tende di velluto spelacchiato, mobili di legno vecchi e massicci, tanti cuscini molto imbottiti e ricamati e — posato di traverso su un grande tavolo in un angolo — un vecchio personal IBM; ha un’unità disco esterna ed è collegato a un modem. Vicino c’è una stampante Epson.
Siamo seduti davanti a un vero caminetto, con veri ceppi che ardono, mentre una stufa a ventola, posata sulla moquette scura e lisa al centro della stanza, ronza. Finalmente mi sono scaldato. Andy è seduto su una decrepita poltrona imbottita; in alcuni punti, la finta pelle marrone è consumata fino al supporto di tela, e sui braccioli è così sporca che è diventata di un bel nero lucido. Giocherella con il bicchiere di whisky e fissa il fuoco. L’unica concessione che ha fatto al calore della stanza è stata quella di togliersi un cardigan.
«Eh, sì», sta dicendo, «eravamo la generazione alla quale tutto era permesso. Nel 79, lo ricordo, pensavo che fosse ormai tempo di agire, di provare qualcosa di diverso, di radicale. Sembrava che, dagli anni ’60 in poi, ci fosse stato un unico tipo di governo: si presentava sotto due forme leggermente diverse, ma era uguale nella sostanza. Dopo lo scoppio di energia nella prima metà degli anni ’60, pareva che tutto fosse in declino; l’intero Paese era come intasato, stretto da regole, regolamenti, normative e da un ennui generalizzato, endemico, infettivo. Non sono mai riuscito a decidere chi avesse ragione, se i socialisti — magari i rivoluzionari — o gli arcicapitalisti, e sembrava proprio che in Gran Bretagna non l’avremmo mai scoperto; infatti, in qualsiasi direzione andasse il voto popolare, alla fine non portava mai a un vero cambiamento di direzione. Heath non era particolarmente determinante per il partito degli affari, come Callaghan non lo era per la classe lavoratrice.»
«Non sapevo che fossi così favorevole alla rivoluzione», ribatto, sorseggiando il mio whisky. «Ho sempre pensato che tu fossi un devoto capitalista.»
Andy si stringe nelle spalle. «Volevo semplicemente un cambiamento. Sembrava proprio la cosa necessaria. Non importava molto da che parte venisse. Non ne ho mai parlato molto, perché volevo lasciarmi aperte tutte le strade. Avevo già deciso di entrare nell’esercito, e non sarebbe stata una buona cosa se nelle mie note personali avessero scritto che ero un sostenitore di un qualche gruppuscolo di sinistra. A volte, tuttavia, pensavo che se ci fosse stata qualche… non so… qualche rivolta armata, qualche sollevazione popolare…» Fa una piccola risata. «Ricordo un periodo in cui la cosa non sembrava poi così improbabile, e io pensavo… be’, se dovesse mai succedere qualcosa di simile, e loro avessero ragione e l’establishment torto… allora non sarebbe male che nell’esercito ci fossero persone come me, simpatizzanti del movimento… quale che fosse.» Scuote la testa, sempre fissando il fuoco. «Adesso sembra una cosa piuttosto stupida, no?»
Mi stringo nelle spalle. «Non chiederlo a me. Stai parlando con uno che pensava che l’unico modo per migliorare il mondo fosse quello di diventare giornalista. Senza dubbio questo mi mette in fondo alla classifica come stratega e pensatore.»
«Non era mica un’idea sbagliata», ribatte Andy. «E se ora ti senti deluso, in parte è colpa di ciò di cui stavo parlando. L’atteggiamento radicale della Thatcher sembrava così vigoroso; quella promessa, quel nuovo benessere, asciutto e sobrio, cui tutti potevamo aspirare: ci veniva data l’occasione di seguire un piano dinamico, spronati da qualcuno che non si sarebbe tirato indietro a metà strada. Avrebbe spazzato via tutte le inefficienze, gli accordi comodi, il lassismo, i lati peggiori e soffocanti di uno Stato assistenziale; era una boccata d’aria fresca, una crociata, un qualcosa cui potevamo partecipare tutti…»
«Se eri nato ricco, oppure se eri deciso a essere un bastardo più bastardo dei tuoi compagni.»
Andy scuote il capo. «Tu hai sempre odiato troppo i Tories per vedere le cose con chiarezza. Ma il punto è che non ha importanza chi aveva ragione, e ancora meno chi avrebbe dovuto averla; ha importanza quello che la gente pensava, perché è questo ad aver prodotto il nuovo stile di vita della nostra era; il consenso ha portato a un punto morto, a una sterilità d’idee e quindi bisognava dare una scossa al sistema, correre con il Paese lo stesso tipo di rischio estremo che si corre almeno una volta negli affari, se si vuole avere successo; scegliere la crescita, accettare di far parte del sistema monetarista.» Sospira, tira fuori di nuovo il portasigarette e me lo porge. Prendo un altro spinello.
«E io sono uno di quelli che l’hanno fatto», dice, accendendosi lo spinello con lo Zippo. «Sono stato un soldato leale nella crociata per riconquistare la cittadella del potere economico britannico.»
Andy continua a fissare il fuoco, mentre io fumo lo spinello.
«Anche se, ovviamente, prima di quello avevo già fatto la mia parte: ero stato uno dei Nostri Ragazzi, uno del Corpo di Spedizione, avevo fatto parte della Task Force che aveva riconquistato la popolarità perduta di Maggie.»
Non so cosa dire; seguendo la nuova, recente politica, frutto della acquisita maturità, non dico niente.
«Ed eccoci qui», riprende Andy, chinandosi in avanti e battendosi le ginocchia con il palmo delle mani. Gli do un colpetto sul gomito e lui prende lo spinello. «Grazie.» Fa un tiro. «Eccoci qui, dopo aver fatto il nostro esperimento; ci sono stati un partito, un’idea dominante, un piano da seguire, una leader forte — e la sua ombra grigia — e tutto è andato in merda, in cenere. La base industriale è talmente ridotta all’osso che esce fuori il midollo, le vecchie inefficienze vagamente socialiste sono state rimpiazzate da altre, capitaliste e più rabbiose, il potere è stato centralizzato, la corruzione istituzionalizzata, e ne è nata una generazione senza arte né parte, che pensa solo a forzare la portiera di una macchina con un attaccapanni e a sapere quale solvente ti dà lo sballo migliore prima di arrivare al punto di vomitare o svenire.» Tira una boccata profonda dallo spinello prima di passarmelo.
«Già», faccio, prendendolo. «Ma non è che sia tutta colpa tua. Tu hai fatto la tua parte, però… Islagiatt.»
«Allora sembrava una buona idea…»
«Cristo, amico, non ho mai pensato che nessuno di voi ragazzi dovesse andare là, ma non credo che sarei stato capace di fare quello che hai fatto tu, laggiù alle Falkland. Voglio dire, anche se mai ci fosse stata una guerra che avessi ritenuto degna di essere combattuta, anche se fossi stato chiamato, be’, io sono un codardo, non sono fisicamente in grado di farlo. Tu, sì. Tu l’hai fatto. ’Fanculo il giusto e lo sbagliato della guerra, una volta che ci sei dentro, sotto il fuoco nemico, e i tuoi compagni saltano in aria intorno a te, devi essere in grado di funzionare. Se non altro, tu questo l’hai fatto. Io non sono affatto sicuro che ci sarei riuscito.»
«E allora?» dice, guardandomi. «Sono forse più uomo soltanto perché ho imparato a uccidere la gente e l’ho fatto?»
«No, intendevo solo…»
«E comunque», m’interrompe Andy, «non è servito a un cazzo, visto che avevamo un capitano che non sapeva neppure da che parte cominciare e non aveva il coraggio di ammetterlo, uno che ha dovuto mandare uomini in gamba in un fottuto campo di battaglia unicamente per provare quanto era coraggioso.» Andy prende un ceppo posato davanti al caminetto e lo mette nel fuoco, urtando gli altri ceppi e sollevando una nuvola di scintille.
«Be’», dico, «non saprei…»
«E sbagli», fa lui, alzandosi e andando verso un angolo della stanza. C’è uno sportello mezzo aperto che dà su quello che sembra un profondo armadio a muro dalla forma stranamente cubica: è un montacarichi. Solleva la parte superiore dello sportello di metallo e, contemporaneamente, la parte inferiore si abbassa. Andy infila una mano, prende una bracciata di legna, e la porta al caminetto. «Abbiamo tutti le nostre responsabilità, Cameron. Non si può sfuggire.»
«Cristo, Gould, come la metti giù dura, amico mio», gli dico, cercando di alleggerire l’atmosfera, ma con l’unico risultato di suonare patetico anche a me stesso.
Andy si siede, prende lo spinello che gli offro, e sistema ordinatamente i ceppi intorno al caminetto per farli asciugare.
Mi lancia un’occhiata. «Già, e ho anche un’ottima memoria. Non ti ho ancora perdonato per non aver cercato di salvarmi dal ghiaccio, quella volta.» Tira una lunga boccata, mentre me ne rimango lì in silenzio a riflettere. Oh, merda. Andy mi restituisce lo spinello con un gran sorriso. «Stavo scherzando», conclude. «Ci ho marciato per vent’anni, su questa storia, per fare il macho con gli altri uomini e portarmi a letto le ragazze.»
Verso le quattro del mattino, Andy mi mostra la mia stanza, un piano più sotto. C’è una stufetta accesa e nel letto singolo c’è una coperta elettrica. Prima di andare a letto, mi chiedo se non avrei dovuto dirgli qualcosa a proposito del signor Archer, delle sue telefonate e di Ares. Sono venuto quassù pensando che avrei dovuto farlo; supponevo che avrei sentito il bisogno di scaricare ’sto peso su qualcuno, però, chissà perché, non si è mai presentato il momento giusto per affrontare l’argomento.
Pazienza. Mi ha fatto comunque bene parlare.
Mentre mi addormento, rivivo l’inizio di quel sogno in cui corro tra i boschi, ma riesco ad allontanarlo. Poi non ricordo più nulla.
Il giorno seguente, mentre Andy dorme ancora, prendo a) qualche analgesico e b) la macchina per andare a Kyle of Lochalsh ad avvisare la polizia locale che mi trovo qui.
Mentre entro in città, vedo una Escort blu con una luce sul tetto e mi ci fermo dietro. Un sergente esce da un portone che una targa sul muro indica essere lo studio di un dentista; mi avvicino a lui, gli dico il mio nome e spiego che l’ispettore McDunn mi ha chiesto di notificare i miei movimenti. Il sergente, un uomo magro con i capelli grigi, mi fissa con un’espressione studiatamente sospettosa e prende nota del mio nome e dell’ora. Ho l’impressione che pensi che sono soltanto un innocuo svitato. E comunque non dice granché; forse gli fa ancora male la bocca per la seduta dal dentista. A ogni modo non posso indugiare, cercando di avviare una conversazione, perché improvvisamente il mio intestino decide di svegliarsi e devo precipitarmi nel bar più vicino, alla ricerca di una toilette.
Dio mio, come odio quando vado al cesso e la merda puzza di whisky.
Quella sera Andy dà una festa, in parte in mio onore, in parte perché il giorno seguente il suo amico Howie parte per andare a lavorare su una piattaforma petrolifera. Al pomeriggio andiamo a fare una passeggiata su per le colline; ansimo e tossisco dietro ad Andy che cammina svelto e senza fatica su per ’sto sacramento di sentiero immerso nel bosco. Una volta tornati in albergo, lo aiuto a mettere in ordine il bar, ancora sepolto dai resti dell’ultima festa, che ha avuto luogo qualche mese or sono. Il bar è comunque ben fornito, sebbene manchi la birra alla spina, e ci siano soltanto lattine. Sembra che Andy procurerà tutto il carburante per la festa, quindi non deve essere così al verde come mi hanno detto.
Alla festa si presentano una ventina di persone, per metà locali — la maggior parte uomini, anche se c’è pure una coppia sposata e altre due ragazze — e per metà giramondo, hippy in stile New Age arrivati con vari autobus e furgoncini, come quelli che si vedono nelle piazzole di sosta e nei tratti di strada abbandonati, là dove tracciati vecchi e tortuosi sono stati sostituiti da percorsi più diretti e veloci.
In termini di riuscita, è un party che emulsiona piuttosto che amalgamare; c’è una certa ostilità tra alcuni dei ragazzi delle Highlands (ben rasati, capelli corti) e gli hippy (tutto l’opposto) che aumenta in maniera proporzionale al crescente livello della sbronza collettiva. Mi sa che gli indigeni siano perfettamente consapevoli del fatto che gli hippy ogni tanto si allontanano per tirarsi una pista e che questo non vada loro a genio. Andy sembra non farci caso e chiacchiera con tutti, perfettamente a suo agio.
Faccio del mio meglio per amalgamarmi. All’inizio mi trovo meglio con i ragazzi delle Highlands, e tengo loro testa, un bicchiere loro, un bicchiere io, una lattina loro, una lattina io, fumando le loro sigarette e soffrendo per le loro battute del tipo: «No, grazie, io fumo», quando offro le mie Silk Cut. Ma, strada facendo, a mano a mano che la mia sbronza prende quota, comincio a sentirmi a disagio per il loro atteggiamento nei confronti degli hippy e ancora di più verso le donne, specialmente quando Howie, il ragazzo che ho conosciuto la sera precedente, racconta che menava la moglie, che ora quella puttana si trova in uno di quei centri di assistenza per le donne, e aggiunge che, se mai dovesse ritrovarla, la prenderà a calci da qui all’eternità. Gli altri gli fanno notare che non è una gran bella idea, ma ho l’impressione che lo dicano soltanto perché pensano che in questo modo lui finirebbe in prigione.
Mi trovo a gravitare sempre più verso gli hippy.
A un certo punto vedo Andy fermo davanti alle finestre del bar; sta osservando il lago scuro con occhi spalancati.
«Ti senti bene?» gli chiedo.
Mi risponde solo dopo qualche secondo. «Qui siamo a dieci metri sopra il livello del mare», mormora, accennando con la testa verso la riva.
«Non mi dire.» Accendo una sigaretta.
«Sul Queen Elizabeth II, il ponte a quel livello lo chiamavamo ponte Exocet, perché è a quell’altezza che viaggia il missile.»
Ah, ricordi delle Falkland. «Be’», ribatto, guardando fuori, nel buio, verso l’estremità del lago, «a meno che tu non abbia un vicino particolarmente incazzato con ottimi contatti con i trafficanti d’armi…»
«È l’unica cosa su cui ho ancora degli incubi», mormora Andy, continuando a fissare il lago invisibile; gli occhi sono sempre spalancati. «Non è ridicolo? Incubi sul fatto di saltare in aria per colpa di un fottutissimo missile, dieci anni fa. Non c’ero neppure, io, su quel ponte. Eravamo alloggiati due piani sopra…» Si stringe nelle spalle, beve e si volta verso di me. «La vedi spesso, tua madre?»
«Eh?» biascico, confuso per l’improvviso cambio di direzione. «No, ultimamente no. È ancora in Nuova Zelanda. E tu? Sei più tornato a Strathspeld?»
Scuote la testa, e mi vengono i brividi nel ricordare questo suo gesto, ormai diventato un tic nervoso, ripetuto all’infinito, dopo il funerale di Clare, a Strathspeld, nell’89. Un gesto d’incredulità, di rifiuto, di non accettazione.
«Dovresti andarci», mi dice. «Dovresti andare a trovarli. Sarebbero contenti.»
«Vedremo», replico. Una folata di vento spinge la pioggia contro i vetri e fa tremare la finestra. Il rumore è forte e mi coglie di sorpresa. Trasalisco; Andy invece si limita a voltarsi lentamente e a guardare fuori, nell’oscurità, con quella che potrebbe essere un’espressione di disprezzo, poi ride, mi mette un braccio intorno alle spalle e suggerisce di andare a farci un altro drink.
Più tardi, sopra l’albergo scoppia un temporale; i lampi serpeggiano dietro le montagne sull’altro lato del lago e i tuoni fanno vibrare le finestre. Va via la luce: accendiamo candele e lampade a gas e in sette — il nocciolo duro del gruppo, composto da Andy, Howie, altri due ragazzi del posto, una coppia di giramondo e me — finiamo nella sala biliardo, dove c’è un tavolo dall’aria decrepita. Una perdita nel soffitto ha trasformato l’intera superficie verde, già coperta di macchie, in una palude profonda un millimetro, con l’acqua che sgocciola dalle buche, scende lungo le grosse gambe e va a inzuppare la moquette. Giochiamo a biliardo alla luce delle sibilanti lampade a gas, costretti a colpire con forza la palla bianca anche nei tiri più delicati, a causa della resistenza causata dall’acqua; le palle fanno un rumore sibilante, simile a uno strappo, mentre corrono sul tavolo, a volte sollevando piccoli spruzzi dietro di loro. Mi sento davvero ubriaco e anche un po’ fatto, colpa di due spinelli piuttosto forti fumati in giardino con gli hippy, ma questo snooker acquatico giocato nella penombra è davvero divertente e continuo a ridere come un pazzo. A un certo punto, metto un braccio intorno al collo di Andy e gli dico: «Sai una cosa? Io ti amo, vecchio mio, e quello che conta non sono l’amicizia e l’amore? Perché la gente non lo capisce e non si comporta decentemente con il prossimo? È che al mondo ci sono troppi bastardi!» Andy si limita a scuotere la testa, io cerco di baciarlo, ma lui mi allontana con delicatezza e mi rimette in equilibrio, prima appoggiandomi contro un muro, poi puntellandomi con una stecca da biliardo contro il petto. Non so perché, ma lo trovo davvero troppo divertente, rido al punto che cado a terra e ho notevoli problemi a rialzarmi. Andy e uno degli hippy devono portarmi di peso nella mia stanza. Mi mollano sul letto, e mi addormento immediatamente.
Sogno di Strathspeld, e delle lunghe estati della mia infanzia passate in una trance di oziosi piaceri, conclusasi quel giorno, con quella corsa nel bosco (ma da questo ricordo fuggo, come ho imparato a fare con il passare degli anni); vago per il bosco e per le piccole valli nascoste, lungo le rive dei laghetti ornamentali, del fiume e del lago; sono vicino alla vecchia cabina per i bagni, sotto il sole accecante e violento, con la luce che danza sull’acqua, e vedo due figure, nude, sottili e bianche nell’erba oltre il canneto; mentre le osservo, la luce dorata diventa argentea, quindi bianca, gli alberi sembrano rattrappirsi, le foglie scompaiono nel gelido scintillio di quella vampata bianca, mentre tutto, intorno a me, si fa sempre più brillante e più scuro al contempo, e riducendosi a un’immagine in bianco e nero: gli alberi sono neri e spogli, il terreno è totalmente coperto di un manto bianco e le due figure sono scomparse, mentre una, ancora più piccola — con stivali, guanti e le falde del cappotto che svolazzano — corre ridendo attraverso la distesa bianca del lago ghiacciato.
Qualcuno urla e chiede aiuto.