FIAMMA LIBERA

La Mercedes station wagon scende borbottando il vialetto, entrando nelle pozzanghere scure che si sono formate sotto gli alberi grondanti d’acqua. Si ferma vicino al cottage immerso nel buio. Non appena si spengono i fari, tu accendi il visore notturno. Lui scende dalla macchina portando un grosso borsone da viaggio in pelle e si avvia verso l’ingresso della casa. È quasi completamente calvo, di corporatura media, anche se ha la pancia e il viso piuttosto grassi. Lo osservi mentre apre la porta. Poi entra, accende la luce nell’ingresso e chiude la porta. Senti l’allarme suonare brevemente prima che lui lo disinserisca. La pioggia scende fitta, e grosse gocce pesanti cadono dalle fronde degli alberi con piccoli tonfi sordi. Si accende una luce nella cucina, sul retro del cottage.

Gli dai un paio di minuti, riponi il visore notturno e tiri fuori un paio di occhiali spessi con la montatura di metallo, quindi vai verso il porticato sul davanti e cominci a bussare con insistenza alla pesante porta di legno.

Prendi la bottiglietta e l’assorbente igienico dalla tasca, passi le alette dell’assorbente intorno alle dita, lo inzuppi con il liquido contenuto nella bottiglietta, la metti via, e tieni il tampone puzzolente ben chiuso nel pugno.

Bussi ancora alla porta, con più forza.

«Sir Rufus!» gridi, quando senti dei rumori dietro la porta. «Sir Rufus! Sono Ivor Owen, abito qui vicino.» Sei abbastanza soddisfatto del tuo rude accento gallese. «Presto, Sir Rufus. La sua macchina!»

Senti una voce dall’accento inglese che borbotta: «Cosa?!» e il catenaccio che scorre. Lasci che la porta si apra del tutto. Il signor Carter ha in mano un fucile, ma lo tiene puntato verso il basso. Non sapresti dire se ha il dito sul grilletto oppure no, però non hai scelta; ti lanci in avanti, colpendolo con un forte pugno allo stomaco. Lui se ne esce con un: «Ooof!» e si piega in due, mentre anche le ginocchia gli cedono. Il fucile gli cade di mano; ti sposti di lato e gli premi l’assorbente sulla bocca, poi ti posizioni dietro le spalle e gli passi l’altro braccio intorno al collo. Lui riesce a spingerti all’indietro contro la parete: ti cadono gli occhiali, ma non molli la presa. Ansima ancora, cerca di respirare, e l’etere fa effetto velocemente. Si affloscia e crolla a terra. Ti abbassi insieme a lui verso il pavimento, continuando a tenergli l’assorbente premuto sul viso. Si dibatte ancora una volta — un movimento molto debole — e poi rimane immobile.

Le chiavi del cottage sono nella tasca dei calzoni. Appoggi l’uomo alla parete e ti dirigi alla porta. Spegni la luce nell’ingresso, prendi il visore notturno dallo zaino e ti guardi in giro. Sembra tutto tranquillo. Chiudi la porta a chiave, però non inserisci il sistema di allarme. Ti togli i baffi e la parrucca, raccogli gli occhiali rotti dal pavimento e infili tutto nello zaino. Poi prendi il passamontagna di seta e lo infili.

Dai un’occhiata alla cucina, ma il pavimento è di ardesia, non va bene. Lo trascini in soggiorno, fai cadere altro etere sull’assorbente, che gli lasci premuto sulla faccia, poi arrotoli il tappeto. Prendi la pistola sparachiodi dallo zaino e inchiodi l’uomo al pavimento, attraverso i vestiti, bloccando in cinque o sei punti le gambe dei calzoni e le maniche di giacca e camicia contro le spesse assi di legno. È un’operazione rumorosa. Gli togli l’assorbente dalla faccia e gli apri la bocca con la sparachiodi per accertarti che non si sia ingoiato la lingua. Poi gli giri la faccia di lato.

Sir Rufus Caius St. Leger Carter, per chiamarlo con il suo titolo completo e meravigliosamente inglese, sta sbavando sul pavimento polveroso.

Gli togli una scarpa e una calza, gli infili in bocca la calza appallottolata e gli sigilli le labbra con il nastro adesivo da carrozziere. Ci rifletti un attimo, punti la sparachiodi contro il polso della manica destra, proprio sopra il punto in cui la parte superiore del polso si congiunge con le ossa del braccio; il punto in cui i chiodi non si possono strappar via. Non sai neppure tu se farlo o no; i chiodi attraverso gli abiti lo terranno comunque immobilizzato, come un moderno Gulliver vestito da Armani; non c’è dunque bisogno d’inchiodargli anche le braccia. Sei convinto che sia più elegante usare la sparachiodi, ma non per fare la cosa più ovvia. Scuoti la testa e la metti via.

Lui geme, apre lentamente gli occhi e cerca di muoversi: non ci riesce, è ovvio. Le urla gli escono dal naso. Ormai ti stai abituando a questo rumore.

Lasci che urli e si agiti per un po’, intanto vai in cucina e, da lì, nel ripostiglio: vicino alla porta sul retro ci sono un paio di bombole di gas. Servono per la cucina e per il riscaldamento del cottage. Una è vuota, in attesa di essere ritirata. L’altra sembra piena. La fai rotolare fino al punto in cui si trova Sir Rufus, il quale, benché inchiodato al pavimento del soggiorno, sta facendo un gran casino. L’ambiente è molto freddo, eppure lui sta sudando. Un angolo del nastro adesivo che gli chiude la bocca si è staccato, e lui sta cercando di urlare qualcosa, ma non si capisce una parola.

Trascini una poltrona fin dove lui possa vederla, vicino al caminetto di pietra scura. Fai rotolare la bombola fino alla poltrona, poi la sollevi e l’appoggi ai braccioli, contro lo schienale. C’è il rischio che la poltrona si rovesci all’indietro, allora la spingi contro il caminetto, in modo che resti ferma. Sir Rufus sta ancora cercando di togliersi il bavaglio. Frughi nello zaino e tiri fuori la valvola e il pezzo di tubo di gomma che ha attaccato un cannello di ottone. Li colleghi alla bombola.

Si sente un rumore secco alle tue spalle, come se Sir Rufus stesse sputando. «Senta! Per amor del cielo! Cosa sta facendo? Sono ricco, posso…»

Ti avvicini a lui, gli piazzi un piede sopra la testa e versi altro etere sull’assorbente.

«Senta! Posso procurarmi del denaro! Cristo! No…!»

Gli premi l’assorbente sulla faccia. Oppone resistenza, si dibatte per un po’, quindi si affloscia. Gli metti un’altra striscia, più lunga, di nastro adesivo sulla bocca.

Ci vuole un po’ a sistemare il cannello sul sedile della poltrona. Poi, mentre stai provando il flusso di gas, senti un rumore, una specie di fischio seguito da un conato; ti giri in tempo per vedere due rivoletti di vomito che zampillano dalle narici di Sir Rufus e schizzano sulle assi del pavimento.

«Merda!» sussurri. Ti precipiti verso di lui, e gli strappi dalla bocca il nastro adesivo.

Boccheggia e sputacchia, sembra che stia per soffocare. Ha un altro conato; il vomito gli esce dalla bocca e si riversa sul pavimento. Senti odore d’aglio. Tossisce ancora un po’, poi riprende a respirare più normalmente.

Quando comincia a emettere suoni quasi comprensibili, e quando sei sicuro che non annegherà nel proprio vomito, lo afferri per quei pochi capelli che ha sulla nuca e gli giri il nastro adesivo intorno alla testa un paio di volte, chiudendogli nuovamente la bocca.

Riponi la tua roba nello zaino, mentre lui si muove, prima lentamente, poi con maggior energia, e i rumori gli escono dal naso prima deboli, poi più forti: gemiti, seguiti da quelle che, se potesse aprire la bocca, sarebbero urla.

Ti accucci di fianco alla poltrona, dove il tubo di gomma della bombola scende e fa un’ansa prima di terminare nel cannello. Posata sul cuscino della poltrona c’è la grata di ferro del caminetto; ha un’aria tetra, e indubitabilmente è fuori posto. Hai legato il cannello di ottone alla grata con il fil di ferro, puntandolo contro la superficie rossa e graffiata della bombola di gas circa quindici centimetri più sopra.

La testa di Sir Rufus è a circa un metro e mezzo dalla poltrona. La può vedere bene.

«Bene, Sir Rufus», dici, giocherellando con un ricciolo immaginario, e sempre imitando il cantilenante accento gallese. Dai un colpetto alla bombola. «Lei sa cos’è un blevey, vero?»

Sembra che gli stiano per schizzare gli occhi fuori dalle orbite. La voce, uscendo dal naso, risulta strozzata.

«Ma certo che lo sa», prosegui, sorridendo dietro il passamontagna e annuendo. «Quella nave, quella sua gasiera — be’, non sua, della sua società — ne ha provocato proprio uno quando è saltata in aria nel porto di Bombay, giusto?» Annuisci ancora; è una costante oscillazione della testa, un continuo dondolio che associ alla parlata gallese. «Un migliaio di morti, mi pare, no? Be’, però si trattava solo d’indiani. Siete ancora in causa, no? È una vera vergogna che queste cose richiedano sempre tanto tempo, no? Certo, modificare la struttura della società, far figurare che la nave era l’unico bene, insomma, questo le rende la vita un poco più facile, no? Immagino che resterà ben poca disponibilità per i risarcimenti.»

Tossisce con il naso, poi starnutisce e sembra che stia cercando di dire qualcosa.

«Cose terrificanti, i blevey, dicono.» Scuoti la testa. «Si è mai chiesto che effetto deve fare, da vicino?» Annuisci di nuovo. «Io, sì. Be’…» Ti volti e dai un colpetto alla bombola grossa e fredda «…ecco, ne ho preparato uno tutto per lei.»

Giri il rubinetto zigrinato della valvola. Il gas esce sibilando piano. Prendi un accendino dalla tasca e lo avvicini alla bocca del piccolo cannello di ottone legato alla grata. Lo azioni e il gas prende fuoco: una fiammella gialla e blu diretta contro la bombola.

«Oh», prosegui, «è un po’ troppo basso, non le pare, Sir Rufus? Potrebbe volerci tutta la notte!» Giri lentamente il rubinetto della valvola finché il getto esce con un ruggito e la potente fiamma gialla e blu colpisce la superficie curva della bombola, avvolgendola completamente. «Così va meglio.» Ora Sir Rufus sta proprio urlando e ha la faccia tutta rossa. Speri che non gli venga un infarto prima dell’esplosione. Sarebbe… be’, sarebbe esattamente quello che ci si può aspettare da un tipo come Sir Rufus: cavarsi fuori da una situazione scomoda usando una scappatoia. Peccato che tu non possa restare lì per vedere come va a finire.

Ti dirigi alla porta d’ingresso e dai una rapida occhiata in giro con il visore notturno; senti il rombo distante proveniente dal soggiorno e ti tremano le mani, anche se sai che ci vorrà ancora un po’, e senti le sue urla deboli, quasi infantili.

Sta ancora piovendo. Chiudi la porta a chiave e ti allontani veloce nella notte.

Cinque minuti più tardi, mentre stai per avviare la moto e cominci a preoccuparti che qualcosa non abbia funzionato, che Sir Rufus sia riuscito in qualche modo a liberarsi, che il getto di gas si sia esaurito, che la sua amante sia arrivata prima del previsto e che avesse una chiave, o che qualcos’altro sia andato storto, un’esplosione squarcia il silenzio, una luce fiabesca rischiara la notte, illuminando tutta la vallata spazzata dagli scrosci e le nuvole basse cariche di pioggia. Una piccola nube di gas incandescente si solleva e si gonfia nell’oscurità come un fungo luminoso. Metti in moto e ti allontani, mentre il rombo dell’esplosione rimbalza ancora tra le colline gallesi.


«Bene, signor Colley, sarà meglio che le spieghi perché siamo qui.»

«A me sta bene», dico, con un po’ più di sicurezza di quella che sento.

L’ispettore McDunn e il sergente Flavell sono seduti di fronte a me, dall’altra parte del tavolo della sala riunioni. La sala riunioni del Caley si trova proprio sopra l’ufficio del direttore, nella mansarda ricavata sotto il tetto spiovente dell’edificio. La sala ha un imponente soffitto a cassettoni ed è arredata con un tavolo massiccio, dall’aria veneranda, e con sedie che sembrano riproduzioni in scala della poltrona regale che si trova nell’ufficio del direttore. Le pareti sono coperte da pannelli di quercia; vi sono appesi ritratti mediocri ed estremamente formali dei precedenti direttori, volti severi che ti fissano per ricordarti che questo è uno dei più vecchi giornali del mondo. Trovandosi ancora più in alto dell’ufficio del direttore, la sala gode di una vista persino più suggestiva, ma, sebbene io non sia mai entrato qui dentro, non mi perdo troppo a guardare fuori dalla finestra.

L’ispettore è un uomo massiccio, con i capelli scuri, e un accento che sembra per metà di Glasgow e per metà inglese. Indossa un abito scuro e un cappotto nero. Il giovane sergente Flavell, cui è affidato il compito di portare una valigetta non proprio di lusso, potrebbe essere un Richard Gere con i baffetti, ma la giacca a vento blu trapuntata che indossa sopra l’abito rovina tutto l’effetto. Se non altro, però, lui sta caldo. Ho lasciato la giacca in redazione, sullo schienale della mia sedia, e quassù fa freddo. Quando sono arrivato nel suo ufficio, Eddie mi ha presentato i due poliziotti, ha detto che volevano scambiare qualche parola con me e ha suggerito che ci servissimo della sala riunioni.

L’ispettore si guarda intorno. «Immagino che si possa fumare qua dentro, no?» chiede.

«Penso di sì.»

Il sergente Flavell vede un posacenere sul davanzale di una finestra e va a prenderlo. L’ispettore si accende una Benson Hedges. «Fuma?» mi chiede, vedendo che lo fisso.

Scuoto la testa. «No, grazie.»

«Dunque, signor Colley», dice l’ispettore in tono pratico. «Stiamo indagando su una serie di gravi aggressioni e di omicidi, e su altri crimini collegati. Pensiamo che lei potrebbe essere in grado di aiutarci e vorremmo farle qualche domanda, se non le dispiace.»

«Assolutamente no», replico, inspirando a fondo mentre la nuvola di fumo che si alza dalla sigaretta di McDunn passa sopra il tavolo e viene verso di me. Ha un buon odore.

«Sergente, le spiace…?» dice McDunn.

Il sergente prende dalla valigetta una busta gialla formato A4 e la porge all’ispettore, il quale ne estrae un foglio e me lo porge. «Immagino che lei riconosca questo.»

È la fotocopia di una recensione televisiva che ho scritto circa quindici mesi fa. Non è esattamente il mio campo, ma il tizio che se ne occupa di solito si era beccato un’infezione a un occhio e io avevo colto volentieri l’occasione per esprimere un mio parere. «Sì, l’ho scritto io», dico, sorridendo. Diamine, c’è il mio nome in testa all’articolo, proprio vicino al titolo: UN GIUSTIZIERE RADICALE?

L’ispettore McDunn fa un debole sorriso. Rileggo il pezzo mentre i due mi osservano.

Rileggendolo, ricordo e sento che mi si rizzano i peli sulla nuca. Non mi succedeva da almeno vent’anni.

«Allora?» chiedo, porgendoglielo.

L’ispettore scorre il foglio per un attimo e poi legge a voce alta: «’Forse qualcuno dovrebbe realizzare una di queste trasmissioni per quelli di noi che sono stufi di veder puniti i soliti sospetti (padroni di casa corrotti, giovani che fanno abuso di sostanze stupefacenti e, ovviamente, l’inevitabile spacciatore di droga: tutti individui riprovevoli, malvagi, senza dubbio, ma troppo prevedibili, troppo facili) e regalarci un Vero Vendicatore, un Giustiziere Radicale che si scagli contro altri cattivi. Qualcuno che dia a gente come James Anderton, il giudice Jamieson e Sir Toby Bissett quello che si merita, ripagandola con la sua stessa moneta, qualcuno che attacchi i truffatori legalizzati e i trafficanti d’armi (compresi i ministri della Corona… Capito, signor Persimmon?), qualcuno che si opponga ai magnati che privilegiano il loro profitto a danno della sicurezza degli altri, come fa Sir Rufus Carter. Qualcuno che punisca i capitani d’industria che continuano a ripetere a pappagallo il vecchio adagio secondo il quale viene prima l’interesse dei loro azionisti, e intanto chiudono fabbriche in attivo e gettano in strada migliaia di lavoratori, in modo che i loro ricchi investitori che vivono nelle contee intorno a Londra o a Marbella possano guadagnare quel piccolo extra che fa sempre così comodo — vero, tesoro? — quando si pensa di cambiare la macchina e di prendere una BMW serie 7 oppure di trasferire lo yacht in un porticciolo più chic.’» L’ispettore mi rivolge un sorriso fugace e senza allegria. «Quindi l’ha scritto lei, signor Colley?»

«Colpevole», ammetto, e faccio una risatina. Nessuno dei due scoppia a ridere fragorosamente, né si batte le mani sulle ginocchia per il divertimento o è costretto ad asciugarsi le lacrime dagli occhi. Mi schiarisco la gola. «Come sta quel simpaticone del signor Anderton? Si sta godendo la pensione?» Mi appoggio allo schienale, e sento gli intagli del legno contro la schiena. Ho freddo.

«Sta bene, signor Colley», dice l’ispettore, infilando la fotocopia dell’articolo nella busta e porgendola al sergente. «Sta bene, credo.» McDunn intreccia le dita delle mani posate sul tavolo davanti a sé. «Ma il giudice Jamieson e sua moglie hanno subito un’aggressione, quest’estate, mentre erano in vacanza a Carnoustie; e, come lei saprà, Sir Toby Bissett è stato assassinato sui gradini della sua abitazione di Londra lo scorso agosto, mentre il signor Persimmon è stato ucciso un mese fa, nella sua casa nel Sussex.»

Sto strabuzzando gli occhi, me ne rendo conto. «Cosa?» esplodo. «Giuro che non lo sapevo! Non è trapelato niente a proposito di Persimmon… Pensavo che fosse morto in pace nel suo letto!»

«Come lei certamente comprenderà, signor Colley, c’era un problema di sicurezza connesso alla morte del signor Persimmon.»

«E siete riusciti a tenerla nascosta per un mese?»

«Avevamo bisogno di un necrologio su uno dei giornali di Londra», spiega il sergente, facendo una smorfia ironica. «Ma si sono dimostrati disposti a collaborare.»

E non si è neanche saputo niente dal tam-tam della giungla dei giornalisti. Merda. Doveva trattarsi del Telegraph.

«E poi, venerdì notte, qualcuno ha fatto saltare per aria Sir Rufus Carter mentre si trovava nel suo cottage nel Galles. Era carbonizzato. Sono riusciti a malapena a identificare il corpo.»

Per un attimo non reagisco. Oh, Dio mio. «Ah, scusi, come ha detto?»

Ripete la frase e poi chiede: «Le dispiace se le chiediamo che cos’ha fatto venerdì sera, signor Colley?»

«Come?… Ah, sono rimasto a casa.»

Il sergente Flavell rivolge un’occhiata significativa all’ispettore, che, però, non la ricambia. Fa uno strano rumore con la bocca, come se aspirasse aria tra i denti, come se avesse infilato qualcosa fra un dente e l’altro e cercasse di toglierlo. Non credo che lo faccia consapevolmente. «Tutta la notte?» chiede.

«Eh?» Sono un po’ distratto. «Sì, tutta la notte. Stavo… lavorando.» Capisco che ha notato la mia esitazione. «E giocando al computer.» Guardo l’ispettore e poi il sergente. «Non c’è una legge che impedisce di giocare al computer, vero?»

Cristo, che stronzata! Mi sento un ragazzino davanti al preside, mi sembra di essere tornato a quella volta in cui Sir Andrew mi strapazzò a causa della mia fallimentare trasferta nel Golfo. Già allora era stata dura, ma questa volta è una cosa spaventosa. Non riesco a credere che mi stiano davvero rivolgendo ’ste domande. Non penseranno mica che sia un assassino? Sono un giornalista. Sono cinico, insensibile e via discorrendo, faccio uso di droga, guido troppo forte e odio i Tories e tutti i loro lacché, ma non sono un fottuto assassino, per Dio! Il sergente tira fuori un taccuino e incomincia a prendere appunti.

«Si è incontrato con qualcuno, quella sera?» chiede McDunn.

«Senta, io ero qui, a Edimburgo. Non ero nel Galles. Come diavolo avrei potuto andare da qui al Galles?»

«Non la stiamo accusando di niente, signor Colley», fa l’ispettore, con aria leggermente contrita. «Ha visto qualcuno quella sera, sì o no?»

«No, sono rimasto a casa.»

«Vive solo, signor Colley?»

«Sì. Ho lavorato un po’ e poi ho giocato a un gioco che si chiama Despot.»

«Non è venuto nessuno a farle visita, l’ha vista qualcuno?»

«No, nessuno.» Cerco di ricordare che cosa è successo quella sera. «Ho ricevuto una telefonata.»

«A che ora?»

«A mezzanotte.»

«Da chi?»

Ho un attimo di esitazione. «Sentite», dico, «mi state accusando di qualcosa? Perché, se è così, è ridicolo, ma io voglio un avvocato…»

«Lei non è accusato di nulla, signor Colley», m’interrompe l’ispettore, calmo e vagamente offeso. «Queste sono semplici indagini, tutto qui. Lei non è in arresto, lei non è costretto a dirci nulla e, se vuole, può richiedere la presenza di un avvocato.»

Certo, e se non collaboro potrebbero anche arrestarmi, o almeno farsi dare un mandato di perquisizione per l’appartamento. (Oh, oh! Ci sono dell’hashish, un po’ di anfe e almeno una vecchia pasticca di acido.)

«Be’, è solo che… Sono un giornalista, capite? Devo proteggere le mie fonti, se…»

«Ah. Dunque questa telefonata a mezzanotte era di natura professionale?» chiede l’ispettore.

«Hmm…» Merda. È il momento di prendere una decisione. Cosa faccio? Cazzo! Ad Andy non importerà di sicuro. Mi coprirà. «No», rispondo, «no, era un amico.»

«Un amico.»

«Si chiama Andy Gould.» Devo sillabargli il cognome in modo che il sergente possa prendere nota, e dare loro il numero di telefono del fatiscente albergo di Andy.

«È stato lui a chiamarla?» dice l’ispettore.

«Sì. Anzi, no. L’ho chiamato io, gli ho lasciato un messaggio sulla segreteria e lui mi ha richiamato qualche minuto dopo.»

«Capisco», annuisce l’ispettore. «E questo con il suo telefono di casa?»

«Sì.»

«Quello installato nel suo appartamento?»

«Sì! Non sul cellulare, se è questo che volete sapere.»

«Hmm, hmm», fa l’ispettore. Spegne accuratamente almeno tre centimetri buoni di sigaretta nel posacenere e tira fuori un piccolo taccuino, lo apre in un punto in cui le pagine sono tenute ferme con un elastico. Alza gli occhi dal taccuino e mi fissa. «E il 25 ottobre, il 4 settembre, il 6 agosto e il 15 giugno?»

Quasi quasi mi viene da ridere. «Sta parlando sul serio? Insomma, mi state chiedendo se ho un alibi?»

«Vorremmo semplicemente sapere che cos’ha fatto in questi giorni.»

«Be’, ero qui. Voglio dire, non ho mai lasciato la Scozia, non vado dalle parti di Londra né al sud almeno da un anno.»

L’ispettore sorride appena.

«Okay», dico. «Sentite, dovrei controllare la mia agenda.»

«Potrebbe andare a prenderla, signor Colley?»

«Be’, io la chiamo agenda, ma è nel mio laptop. Nel mio computer.»

«Ah, anche lei ne ha uno. Si trova qui in questo edificio?»

«Sì. È di sotto. Ne ho uno nuovo, ma tutti i file sono stati trasferiti. Lo vado…»

Faccio per alzarmi, ma l’ispettore solleva una mano. «Lasci che vada a prenderlo il sergente Flavell, eh?»

«Va bene.» Mi risiedo e annuisco. «È sulla mia scrivania», spiego al sergente, mentre questi si avvia alla porta.

L’ispettore si appoggia allo schienale e tira fuori il pacchetto di Benson Hedges. Vede che lo osservo e mi porge il pacchetto. «È proprio sicuro che non ne vuole una?» chiede.

«Hmm, sì, accetto, grazie», dico, allungando una mano per prenderne una e odiandomi per quello che sto facendo, ma poi penso: Cristo, questa è una circostanza eccezionale, ho bisogno di tutto l’aiuto possibile!

L’ispettore mi accende la sigaretta, poi si alza e va alla finestra che si affaccia su Princes Street. Mi giro sulla sedia per guardarlo. È una giornata burrascosa: ombre gettate dalle nuvole e chiazze di sole scivolano veloci sul volto della città, tingendo gli edifici di un grigio prima scuro e poi chiarissimo.

«Bella vista da qui, vero?» dice l’ispettore.

«Già. Fantastica.» La sigaretta mi provoca un’accettabile sensazione di ebbrezza. Dovrei smettere di fumare più spesso.

«Ho l’impressione che non la usino molto, questa sala.»

«No. Credo di no.»

«È davvero un peccato.»

«Già.»

«Sa, c’è una cosa strana», dice l’ispettore, guardando oltre la città, verso la lontana distesa del Fife, grigia e verde sotto le pesanti nuvole che incombono sul tratto più lontano del fiume. «La notte in cui Sir Toby è stato ucciso e la mattina in cui è stato ritrovato il signor Persimmon, qualcuno ha telefonato al Times affermando che si trattava di azioni dell’IRA.»

L’ispettore, con il viso coperto da una nuvola di fumo, si gira e mi scruta.

«Sì, be’, ho sentito dire che l’IRA aveva rivendicato l’uccisione di Sir Toby, ma poi l’aveva sconfessata.»

«Già», fa l’ispettore, guardando la sigaretta con aria apparentemente perplessa. «Chiunque sia stato, però, entrambe le volte ha usato la stessa parola in codice dell’IRA.»

«Oh?»

«Vede, signor Colley, è proprio questa, la cosa strana. Noi due sappiamo benissimo che ci sono parole in codice usate dall’IRA quando telefona per avvertire che ha piazzato una bomba oppure per assumersi la responsabilità di un omicidio o di qualche altro crimine. È necessario conoscere queste parole in codice, altrimenti chiunque potrebbe chiamare, spacciandosi per l’IRA; potrebbero bloccare tutta Londra, volendo. Ma il nostro assassino… Lui sapeva una delle parole in codice. Una di quelle recenti.»

«Ah.» Ho di nuovo freddo. Capisco dove sta andando a parare e decido di essere sfacciato. «Allora?» lo apostrofo, tirando una boccata dalla sigaretta e socchiudendo gli occhi. «Sospettate di un ex poliziotto, eh?»

L’ispettore mi rivolge un altro dei suoi sorrisi. Poi fa nuovamente quello strano rumore di risucchio con la saliva e viene verso di me. Devo chinarmi di lato per farlo passare. Mi arriva vicino e prosegue, fa cadere un po’ di cenere nel posacenere e poi torna di nuovo alla finestra. «Esatto, signor Colley. Abbiamo pensato a un poliziotto, sia in servizio sia no.» Sembra che stia riflettendo. «O magari un centralinista», dice, come se fosse sorpreso pure lui.

«O a un giornalista?» suggerisco, inarcando le sopracciglia.

«O a un giornalista», conviene l’ispettore senza entusiasmo, appoggiandosi all’intelaiatura della finestra; la sua figura si staglia scura contro la luce brillante delle nuvole che passano velocissime. «Per caso, non è che lei conosca quelle parole in codice, vero, signor Colley?»

«No, così su due piedi, no», rispondo. «Sono custodite nel sistema informatico del giornale, protette da una password. Però io, tra le altre cose, mi occupo di difesa e di problemi di sicurezza e quindi conosco la password e di conseguenza ho accesso ai codici. Non posso provare di non conoscerle, se è a questo che vuole arrivare.»

«Non voglio arrivare proprio a nulla, signor Colley. Era solo… curiosità.»

«Senta, ispettore», dico con un sospiro, spegnendo la sigaretta, «sono un single, vivo solo, lavoro molto a casa e… in giro per la Scozia; mando gli articoli al giornale per telefono. Sarò franco con lei: davvero non so se ho un alibi per quelle date. Probabilmente sì; faccio molti pranzi e cene di lavoro e fisso sempre un certo numero di appuntamenti, per tenere i contatti con varie persone… persone alle quali, spero, crederete, giacché sono anche pezzi grossi della polizia, avvocati…» Non guasta mai ricordare a un poliziotto che conosci individui di quel tipo. «Ma, diamine», aggiungo con una risatina, allargando le braccia, «insomma, ho l’aria di un assassino?»

Anche l’ispettore si mette a ridere. «No, signor Colley», ammette, tirando una boccata dalla sigaretta. «No.» Si avvicina al tavolo, si china davanti a me per spegnere il mozzicone nel posacenere e dice: «Ho collaborato agli interrogatori di Dennis Nilsen; se lo ricorda, signor Colley? Quello che ha fatto fuori quel mucchio di gente?»

Annuisco mentre l’ispettore torna alla finestra. Non mi piace come si stanno mettendo le cose.

«Giovani, un sacco di giovani, sepolti sotto il pavimento, in giardino… C’erano tanti cadaveri da fare una squadra di baseball.» Guarda fuori della finestra. Scuote la testa. «Neanche lui aveva l’aria di un assassino.»

Si apre la porta ed entra il sergente Flavell con il mio nuovo laptop. Di colpo ho un gran brutto presentimento.


Mi trovo nel bar del Café Royal; soltanto una parete mi divide dal ristorante in cui ho pranzato con Y e William la scorsa settimana. Al di sopra del cicaleccio dei clienti, sento il lontano tintinnare di stoviglie e di posate che proviene da dietro i séparé e riecheggia contro gli alti soffitti del locale, riccamente decorati. Mentre il mio amico Al è andato in bagno a fare pipì, mi trovo a fissare gli scaffali dietro al bancone del bar e cado vittima di un’illusione ottica o di qualcosa di simile, giacché le cose non sono come dovrebbero essere: vedo le bottiglie sugli scaffali davanti a me, vedo il loro riflesso nello specchio retrostante, ma non riesco a vedere me stesso! Non riesco a vedere la mia immagine riflessa!

Al ritorna, facendosi educatamente largo tra la folla, toglie il cappotto dallo sgabello e si appoggia al bancone del bar, di fianco a me, sorseggiando la sua birra.

«Aiutami, Al», gli dico, «o sto impazzendo, o sto diventando un vampiro.»

Al mi scocca un’occhiata. È più vecchio di me — sui quarantadue, credo — e ha i capelli sale e pepe con una chierica sul cocuzzolo grande come un piattino da tè; sopra il naso, un paio di cicatrici parallele suggeriscono l’idea di un uomo perennemente corrucciato, ma, in realtà, lui ride quasi sempre. È un po’ più basso di me. Fa il consulente in ingegneria e l’ho conosciuto a una di quelle stupide partite di guerra finta nei boschi che i dirigenti pensano siano così utili a forgiare lo spirito di squadra nell’azienda.

«Di che stai parlando, incredibile cretino che non sei altro?»

Accenno con la testa agli scaffali che ho di fronte. Vedo alcune persone, dietro le bottiglie, e le vedo anche se mi giro. Sono le stesse persone, quindi dovrei trovarmi in mezzo, tra loro e lo specchio dietro le bottiglie, e invece non mi vedo. Faccio un altro cenno con la testa, sperando che il movimento venga riprodotto nello specchio, ma niente.

«Guarda!» dico allora. «Guarda nello specchio!»

È uno specchio, vero? Lo studio con attenzione. Mensole di vetro, supporti di ottone. Una bottiglia di Stoly Red rivolta verso di me, con il retro che si riflette nello specchio; lo stesso dicasi per una bottiglia blu di Smirnoff, con la parte stampata dell’etichetta rivolta verso di me, mentre il retro bianco risulta visibile attraverso la bottiglia e il liquido trasparente al suo interno. Stessa cosa con la bottiglia di Bacardi di fianco. Vedo la piccola etichetta applicata sul retro della bottiglia riflettersi nello specchio, e la vedo anche attraverso la bottiglia dal davanti. Naturale che è uno specchio!

Al sposta la testa di lato, fino a che il suo mento non si trova sulla mia spalla. Guarda avanti. Prende un paio di occhiali dalla tasca della giacca e li inforca (so che non gli piace portarli sempre).

«Cosa c’è?» sbotta, spazientito. Una barista si mette di mezzo, per spillare una birra, e poi si gira verso gli specchi, fissando gli occhi al di sopra del punto in cui sto guardando; sono costretto a spostare la testa, ma non riesco a vedere niente finché la donna non se ne va.

«Cameron, stai vaneggiando?» dice Al. Si volta e mi fissa con aria seria. Guardo di nuovo verso lo specchio.

Cristo! Non riesco a vedere neppure lui!

Forse è colpa di tutti quei Southern Comfort che abbiamo bevuto per festeggiare la sconfitta di Bush e la vittoria di Clinton. Grazie al cielo, non abbiamo bevuto Budweiser come aveva suggerito Al; come aveva potuto solamente pensare di corrompere i nostri corpi con l’imitazione, fabbricata nel Regno Unito, di una birra che già all’origine non è altro che piscio frizzante (e hanno pure il coraggio di pubblicizzarla come «l’originale»! Un’altra delle grandi menzogne della pubblicità, destinata a quei poveri di spirito dell’Essex la cui materia grigia è già irrimediabilmente compromessa da anni e anni passati a leggere il Sun e a bere Skol, i bastardi!)

Indico lo scaffale con un dito e mi becco un’occhiataccia da uno dei baristi che sta passando proprio in quel momento e al quale ho rischiato d’infilare il dito in un occhio.

«Sono invisibile!» esclamo con voce roca.

«Sei ubriaco», commenta Al, tornando alla sua birra.

Una delle persone nello specchio mi sta guardando. Mi rendo conto che ho ancora il dito puntato. Mi giro, ma vedo soltanto un muro di schiene e sederi. Nessuno mi sta fissando. Mi volto di nuovo a guardare lo specchio, proprio mentre il barista che ho quasi accecato allunga una mano per prendere la bottiglia di Bacardi dallo scaffale. La sua immagine è lì, riflessa! Ancora più stupefacente!

L’uomo che mi stava osservando è sempre lì che mi scruta. E, in quel momento, intravedo, sopra la sua testa, un scorcio di muro piastrellato. Mi rigiro e guardo al di là della gente alle mie spalle; dalle finestre alte e cesellate entra ancora un po’ di luce. Nessuna traccia di muri piastrellati. Mi volto di nuovo, mentre il barista rimette la bottiglia a posto sullo scaffale. Non è ben diritta, risulta anzi leggermente spostata. Uno dei baristi più anziani le passa davanti, alza una mano, sistema la bottiglia nella posizione esatta per mantenere la simmetria, va a spillare due boccali di birra da ottanta scellini e viene dalla nostra parte. Gli lancio un’occhiataccia. Che bastardo! Poi mi ritraggo, spaventato, quando l’uomo mi si ferma proprio di fronte e posa i bicchieri sul bancone davanti a Al e a me. Fisso il mio bicchiere e mi accorgo che è vuoto, ma il barista lo sta già portando via dopo aver preso i soldi da Al, il quale sta travasando gli ultimi millilitri di birra rimasti nel bicchiere vecchio in quello nuovo.

Scuoto la testa. «No, proprio no», sospiro, alzando gli occhi al soffitto. «Non ce la faccio proprio.»

«Cosa?» dice Al, aggrottando la fronte.

«Non ce la faccio a reggere tutto questo. Oggi è stata…»

«Hai un aspetto di merda, Cameron», m’interrompe Al. Indica un punto alle mie spalle. «Guarda, ci sono due posti liberi, laggiù. Andiamo a sederci.»

«D’accordo. Prendiamo anche delle sigarette, eh?»

«No! Tu hai smesso, ricordi?»

«Sì, Al, ma è stata una giornata difficile e…»

«Tu va’ a sederti, d’accordo?»

Dimentico l’impermeabile. Lo prende Al. Ci sediamo in fondo a una delle panchette semicircolari di pelle verde, posando le birre sul tavolo ovale.

«Davvero ho un aspetto di merda?»

«Cameron, sembri proprio trombato.»

«Vaffanculo! Bell’amico che sei…»

«Dico le cose come le vedo.»

«Ho avuto una giornata traumatica», spiego, stringendomi addosso il mio Drizabone. «Sono stato torchiato dalla polizia.»

«Dolore!»

«Grazie per essere venuto a bere con me, Al», dico, guardandolo negli occhi con la sincerità degli ubriachi e dandogli un leggero pugno su un braccio.

«Ahia! Vuoi smetterla?» Si massaggia il braccio. «E, comunque, non mi preoccuperei troppo.»

«Hai per caso una sigaretta?»

«No, te l’ho già detto.»

«Be’, pazienza. Però ti ringrazio tanto per essere venuto a bere con me, davvero, Al. Sei l’unico amico mio che non sia un giornalista di merda… Be’, a parte Andy… E… be’, niente. Sai, mi ha fatto proprio piacere poterti raccontare tutte ’ste cose.»

«Raccontarle a me e al resto del bar, se non avessi continuato a dirti di stare zitto.»

«Sì, ma non crederesti mai dove stanno cercando di arrivare. Insomma, non crederesti che cosa stanno cercando di appiccicarmi addosso.»

«Un distintivo che dice NON FATEMI BERE, magari?»

Liquido la battuta con un gesto della mano e gli vado più vicino. «Parlo sul serio. Sono convinti che abbia ucciso delle persone!»

Al sospira. «Cameron, tu possiedi davvero il dono dell’iperbole drammatica.»

«Ma è vero!»

«No…» ribatte Al, calmo. «Se fosse vero, non ti avrebbero lasciato andare, Cameron. Saresti rinchiuso in una cella, dietro le sbarre, e non saresti qui a cercare di prosciugare il locale.»

«Ma io non ho un alibi!» gli sussurro, agitatissimo. «Non ho uno straccio di alibi! Qualche stronzo sta cercando d’incastrarmi! Non sto scherzando: stanno cercando d’incastrarmi! Mi chiamano al telefono e mi dicono di andare in un posto solitario ad aspettare istruzioni a un telefono pubblico, oppure mi chiedono di rimanere in casa tutta la sera, e nel frattempo loro fanno fuori qualche stronzo! Sì, insomma, tutti quei bastardi meritavano di morire… Anche se, in realtà, non li hanno uccisi proprio tutti: alcuni hanno subito soltanto ‘gravi aggressioni’, qualsiasi cosa significhi, non me l’hanno voluto dire… Però non sono stato io! E la polizia è come impazzita, amico! Pensano che abbia avuto tempo a sufficienza per andare all’aeroporto, volare giù a sud, o dove diavolo hanno ucciso ’sti Tories del cazzo. Cristo, mi hanno pure confiscato il computer nuovo! Il mio laptop! Maledetti bastardi! Mi hanno detto di tenerli informati dei miei movimenti, roba da non crederci! Se vado da qualche parte devo avvertire la polizia locale. Che faccia! Ho cercato di chiamare qualcuno dei poliziotti che conosco, gente che sta in alto, per scoprire se ne sapevano qualcosa, ma erano tutti in riunione. Non ci credo.» Lancio un’occhiata all’orologio. «Devo tornare a casa, Al; devo gettare tutta la roba nel cesso, o mangiarmela, insomma farne qualcosa…» Bevo ancora qualche sorso di birra, e me ne rovescio un po’ sul mento. «Stanno cercando d’incastrarmi, non sto scherzando; c’è un bastardo che continua a telefonarmi. Dice di chiamarsi…»

«Signor Archer», completa Al con un sospiro.

Lo guardo con gli occhi sgranati. Non è possibile. «Come fai a saperlo?» dico con voce stridula.

«Perché è la quinta volta che ne parli.»

«Merda.» Ci rifletto sopra. «Credi che sia ubriaco?»

«Oh, sta’ zitto e bevi quella birra.»

«Buona idea… Hai mica una sigaretta?»


È passata un’ora. Al mi ha fatto restituire il pacchetto di sigarette che avevo appena comprato, mi ha tolto un cigarillo dalle labbra proprio mentre stavo per accendermelo, mi ha portato in un Burger King, costringendomi a mangiare un cheeseburger e a bere un bicchiere grande di latte, e ora mi sembra di essere un po’ più sobrio, se si esclude il fatto che ho perso del tutto il senso dell’equilibrio e ho seri problemi a stare dritto. Al è costretto ad aiutarmi e insiste per prendere un taxi — si rifiuta di guidare o di lasciar guidare me — e allora gli rinfaccio che ha paura per via di tutte le volte che l’hanno beccato al volante mentre era sbronzo.

«Sai che ti dico? Io me ne vado su in collina», gli dico, mentre usciamo all’aria fresca.

«Saggia idea», approva Al. «Con me ha sempre funzionato.»

«Già», dico, annuendo con enfasi e alzando gli occhi a guardare il cielo. È il tramonto e l’aria è fredda. Ci dirigiamo a ovest, verso Princes Street. «Me ne vado in collina, lontano dalla città», ribadisco. «Prima faccio sparire tutta la roba nel mio appartamento, e poi via. Me ne vado. Sai, ho deciso che dirò alla polizia esattamente dove sono diretto, così potranno rendersi conto che non sono io, ’sto fottuto serial killer o serial maniaco o quel che diavolo è. Sono proprio scosso, sai, non ho problemi ad ammetterlo. Io me ne vado nelle Highlands, a Stromeferry-noferry.»

«Dove?» Mentre svoltiamo in St. Andrew Street, Al si abbottona il cappotto per proteggersi dalle folate di vento che arrivano da St. Andrew Square.

«A Stromeferry-noferry.»

«Ah!» Al scoppia a ridere. «Certo, Stromeferry-noferry. L’ho visto anch’io, quel cartello.»

Dopo avermi puntellato contro il muro, entra in un negozio a comprare dei fiori.

«Prendi anche un pacchetto di Rothmans, Al!» gli grido, ma non credo che mi abbia sentito. Rimango lì a sospirare e a sorridere coraggiosamente ai passanti.

Al ricompare con un mazzo di fiori.

Allargo le braccia. «Al, non dovevi disturbarti!»

«Bene, perché non sono per te.» Mi prende per un braccio e ci dirigiamo verso il bordo del marciapiede, in cerca di un taxi. Annusa i fiori. «Sono per Andy.»

«Per Andy?» ripeto, sorpreso. «Va bene, allora li prendo io.» Allungo una mano per afferrare il mazzo, ma lo manco.

Al mi dà un colpetto nelle costole. «Non quell’Andy», dice, facendo segno a un taxi con la luce accesa. Ci passa davanti con un rumore di ferraglia e non si ferma. «Sono per mia moglie, buffone, non per quel dissoluto, per quella vittima del boom degli anni ’80 che ora vive come un eremita depresso, lassù nella sua triste casa.»

«Albergo», lo correggo, e lo aiuto a fare segnali a un altro taxi. Scendo barcollando giù dal marciapiede, rischiando di cadere, ma Al mi salva. Il taxi — che stava già rallentando e puntando verso di noi — sterza e riprende velocità. Lo guardo con odio. «Bastardo!»

«Idiota», fa Al. Mi prende per un braccio e fa per accompagnarmi sull’altro lato della strada. «Su, vieni, ne prenderemo uno alla stazione di Hanover Street.»

«Ma… la mia macchina?»

«Scordatela. La prenderai domani.»

«Sì, la prendo domani e poi, sai che ti dico, me ne vado in collina.»

«Buona idea.»

«Me ne vado in collina, ho deciso…»

«Bravo.»

«…in collina, amico…»


Arriviamo a casa mia e Al mi accompagna alla porta; gli dico che sto bene e lui se ne va. Getto tutta la roba nel gabinetto, tranne un po’ di polverina che prima sniffo e poi succhio sul momento. Quindi me ne vado a letto, ma non riesco a dormire. Suona il telefono. Rispondo.

«Cameron, sono Neil.»

«Oh, sì… ciao, Neil.»

«Dunque… ti ho chiamato per dirti che mi dispiace, ma non posso aiutarti.»

«Ah… come?»

«Ti dicono niente le parole ‘buco nell’acqua’?»

«Come?»

«Lascia perdere. Come ti ho detto, non posso aiutarti, vecchio mio. È una strada senza uscita, capisci? Non c’è nessun legame, niente di niente. L’articolo è tuo, ma, se fossi in te, lascerei perdere.»

«Ah… hmm…»

«Ti senti bene?»

«Sì. Sì… altroché…»

«Mi sembri fatto.»

«Sì… Nooo!»

«Bene, mi fa piacere che abbiamo chiarito la cosa. Però, ti ripeto, non posso aiutarti. Stai facendo un buco nell’acqua, quindi lascia perdere.»

«Va bene, va bene.»

«Allora ti lascio tornare alla sostanza di cui stai facendo abuso in questo momento. Buonanotte, Cameron.»

«Sì, ’notte.»

Metto giù il telefono, mi siedo sul bordo del letto, e penso. Di che cazzo si tratta? Dunque questi tizi sono tutti morti per caso? Non c’è nessun collegamento con il mio signor Archer o con Daniel Smout? No, la cosa proprio non mi piace.

Mi sdraio di nuovo e cerco di dormire, ma non ci riesco e non riesco neanche a smettere di pensare a tizi legati agli alberi con un cappio intorno al collo che aspettano che passi il treno, o che decidono di fare il bagno con un trapano acceso nella vasca, o che annegano nella fossa biologica di una fattoria. Cerco di smettere di pensare a queste cose cruente e orribili; per un po’ penso a Y e mi masturbo, però non riesco ancora a prendere sonno e alla fine, dopo tanto non dormire, mi viene una voglia matta di una sigaretta, così mi alzo ed esco. In fondo devo aver dormito un po’, perché improvvisamente mi accorgo che sono le due e mezzo del mattino; non ci sono nemmeno un negozio o un bar aperti e a questo punto comincia a farmi male la testa, ma ho veramente bisogno di un po’ di tabacco e così arranco fino a Royal Circus e Howe Street finché un taxi si ferma e mi faccio portare per le strade deserte della città, su fino a Cowgate, dove il Kasbar è ancora aperto. Dio benedica ’sto buco infame, finalmente riesco a comprare delle sigarette… Regal, perché sono le uniche che tengono al banco e il distributore automatico naturalmente non funziona, ma non importa. Ho una sigaretta fra le labbra e una birra fra le mani (terapeutica, e comunque non credo che al Kasbar servano Perrier, ma, anche se lo facessero, finirebbe che qualche simpatico motociclista alto due metri e vestito di nero mi getterebbe un bicchiere in faccia giusto per principio, poi mi trascinerebbe urlante nei bagni degli uomini e m’infilerebbe la testa nel cesso, dove l’acqua non è stata tirata da tempo: no, no, non mi sto lamentando, fa tutto parte del colore locale di questo posto) e ora sono felice.

Me ne vado alle quattro; me la faccio tutta a piedi da Cowgate fino a Hunter Square dove il tetto in formelle di vetro dei gabinetti pubblici sotterranei — che arriva all’altezza della vita dei passanti — luccica di centinaia di minuscole tessere blu: una delle meraviglie della Lux Europae.

Scendo verso Fleshmarket Close, dimenticando che a quest’ora del mattino la stazione è ancora chiusa, e così devo svoltare per Waverley Bridge e per Princes Street passando sotto altre sculture astratte di luce e osservando incuriosito una macchina per la pulizia delle strade che, lentamente, spazza la via e prosciuga tutti i canaletti di scolo.

Arrivo a casa per le cinque, e alle undici vengo svegliato da una telefonata estremamente interessante che cambia i miei progetti per la giornata. E così vado al lavoro e devo anche pagare a Frank («Miltown of Towie»? Ti arrendi? «Milena oh Troia»!) le sue venti sterline perché i Tories l’hanno spuntata a malapena sul voto per Maastricht, con un margine minore di quanto pensassi. Cerco di telefonare a Neil per accertarmi di non essermi sognato la telefonata di questa notte, ma è fuori.

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