FILTRAGGIO A FREDDO

Sono molto tentato di passare in sede a prendere una copia del giornale fresca di stampa, appena uscita dalle rotative, che a quest’ora stanno di certo andando a pieno ritmo, con un gran frastuono che fa tremare l’intero edificio. L’odore d’inchiostro e la sensazione vagamente oleosa al tatto della carta hanno sempre avuto il potere di accrescere enormemente la mia ebbrezza da stampa; inoltre mi piacerebbe controllare l’articolo sul Vanguard per scoprire quali violenze i redattori sono riusciti a infliggergli. Tuttavia, mentre percorro Nicolson Street, l’idea di sottodirettori che tagliano un articolo su un sottomarino mi sembra d’un tratto così esilarante che vengo preso da una ridarella incontrollabile, al punto che mi vengono le lacrime agli occhi e mi metto a tirare su con il naso. Decido che sono troppo fatto per riuscire a mantenere una faccia seria davanti ai tipografi, e così mi dirigo verso casa.

Arrivo a Cheyne Street verso l’una e mi tocca il solito tour forzato di Stockbridge by night alla ricerca di un parcheggio; finalmente ne trovo uno a un minuto dal mio appartamento. Sono stanco, ma non ho sonno. Allora mi faccio lo spinello della buonanotte e due dita di Tesco.

Nelle due ore seguenti ascolto distrattamente la radio e guardo la televisione con la coda dell’occhio mentre rattoppo il pezzo sul whisky sul mio PC. Poi m’impongo di non mettermi a giocare a Despot, perché so che mi farei prendere la mano e finirei con lo stare alzato fino all’alba per poi dormire tutto il giorno, senza riuscire ad alzarmi in tempo per l’appuntamento del giorno dopo (a mezzogiorno devo incontrare il direttore di una distilleria), e così ripiego su Xerium: un gioco da dilettanti, non roba seria. Un gioco per rilassarsi, non per caricarsi.

Xerium è uno dei miei preferiti, quasi un vecchio amico, e, anche se ci sono alcuni problemi che non sono riuscito a risolvere, non ho mai cercato suggerimenti o trucchetti sulle riviste specializzate, perché voglio arrivarci da solo (il che non è da me); comunque è divertente volare qui e là e aggiungere gradualmente pezzi alla mappa del continente sconosciuto che sta alla base del gioco.

Alla fine riesco solo a far precipitare lo Speculator nel tentativo di scoprire — come al solito — una rotta che probabilmente non esiste tra i picchi delle Montagne di Zound. Giuro che le ho provate tutte per trovare un varco tra quelle cime maledette — diamine, sono persino arrivato a cercare di volarci attraverso, pensando che una di esse sia un ologramma o qualcosa del genere —, ma tutte le volte, immancabilmente precipito. Sembra proprio che non ci sia modo di attraversarle o di prendere quota a sufficienza per passarci sopra. Deve esserci una maniera di entrare nel territorio rettangolare racchiuso da quelle montagne del cazzo, però non mi riesce assolutamente di trovarla, perlomeno non stanotte.

Rinuncio a un altro tentativo, carico le mie due versioni di Asteroid a una velocità da lumaca e distruggo qualche triliardo di rocce che mi vengono incontro nel glorioso reticolo monocromatico dello schermo a cristalli liquidi fino a che non mi fanno male le dita e mi bruciano gli occhi. È ora di bere un decaffeinato e di andare a letto.


Mi alzo fresco e riposato e — dopo cinque minuti buoni di tosse convulsa e una doccia — l’unica sostanza eccitante che mi concedo è una tazza di caffè (miscela arabica) macinato al momento. Mentre rileggo l’articolo sul whisky, sgranocchio un po’ di muesli e succhio un’arancia tagliata in quattro. L’articolo deve essere pronto per oggi, perciò questa è proprio l’ultima occasione per lavorarci sopra, a parte gli ultimi ritocchi dopo aver visitato la distilleria all’ora di pranzo. Do una rapida occhiata alla mia posizione in Despot, ma resisto alla tentazione di lanciare il programma. Fisso con sguardo accusatore le batterie del laptop che ieri sera ho dimenticato di caricare, poi copio su dischetto l’articolo sul whisky e cerco qualcosa di pulito da mettermi fra gli abiti ammucchiati su un lato del letto: sono rimasti lì dopo il lavaggio della scorsa settimana. Se lasci gli abiti sul letto, a volte ti capita di pensare che ci sia qualcuno che vive con te, il che non è vero, e quindi la cosa risulta al tempo stesso confortante e decisamente triste. Tu non scopi da più di una settimana, mi dice il mucchio d’indumenti puliti sul piumino, però devo incontrare Y tra un paio di giorni e quindi, anche se non esce fuori qualcosa prima, resta sempre quella possibilità.

È arrivata posta: in gran parte pubblicità e bollette. Per il momento la ignoro.

Prendo il cercapersone, il cellulare, il Tosh, le batterie e la radio estraibile e carico tutto sulla 205; la macchina non è stata forzata né rigata (non lavarla spesso serve a qualcosa). Metto a caricare le batterie nella presa dell’accendisigari. Parto nella fredda luce azzurrina del mattino, in un alternarsi di sole e di nuvole. Mi fermo lungo la strada a comprare i giornali; scorro i titoli, e mi assicuro che qualche notizia dell’ultima ora non abbia fatto cambiare di posto all’articolo sul Vanguard. È intatto (al novantacinque per cento, un risultato molto soddisfacente), do un’occhiata a Doonesbury sul Grauniad e poi via di nuovo.

Imbocco il ponte e poi mi lancio attraverso il Fife; una volta raggiunta la velocità di crociera — l’andatura con l’indicatore di velocità oscillante in quel settore fra i centoventi-centotrenta chilometri all’ora che i ragazzi della stradale di solito ignorano, a meno che non siano proprio annoiati o veramente incazzati — mi arrotolo uno spinello e lascio alle mie ginocchia il compito di controllare il volante. Mi sento su di giri in maniera quasi infantile, rido tra me e penso: Non cercate di farlo anche voi, a casa, ragazzi… Finita l’opera, metto da parte lo spino per fumarmelo più tardi. A Perth, prendo a sinistra.

Per arrivare alla distilleria percorro parte della strada per Strathspeld. Non vado a trovare i Gould da una vita, e quasi quasi mi dispiace di non essere partito prima per fare un salto da loro, però so bene che, in realtà, non sono i Gould che desidero vedere, bensì il posto: Strathspeld, il nostro paradiso perduto con tutti i suoi dolorosi ricordi, dolci come un veleno. Naturalmente, è Andy che ricordo meglio e di cui sento un’acuta nostalgia: forse voglio soltanto rivedere il mio vecchio amico per la pelle, il mio fratello putativo, l’altro me stesso. Magari andrei direttamente laggiù se lui fosse a casa, ma non c’è, fa l’eremita su al nord, e un giorno o l’altro devo andare a trovare pure lui.

Attraverso Gilmerton, un minuscolo villaggio subito dopo Crieff; se fossi diretto a Strathspeld, è qui che dovrei imboccare la deviazione. Proprio a Gilmerton, fino a poco tempo fa, c’erano tre FIAT 126 blu, perfettamente identiche, parcheggiate davanti a una casa, una a fianco dell’altra, con il muso rivolto verso la strada; sono rimaste lì per anni interi e avevo pensato spesso che, un giorno o l’altro, mi sarei fermato per cercare il proprietario e dirgli: «Adesso lei mi spiega perché tiene parcheggiate quelle tre 126 fuori di casa da almeno dieci anni…» Ero veramente curioso di scoprirlo, senza contare che avrebbe potuto essere lo spunto per un buon articolo: scommetterei che, in tutti quegli anni, milioni di persone, passando di lì, si sono chieste la stessa cosa. Comunque non mi sono mai fermato: andavo sempre di fretta, di corsa, con l’ansia di raggiungere quel paradiso corrotto che Strathspeld ha sempre rappresentato per me… e comunque ora le tre piccole FIAT blu sono scomparse — anche se non da molto — e la cosa non ha più importanza. Oggigiorno sembra che la gente si sia messa a collezionare soltanto furgoni. La prima volta che ho visto la casa senza le tre macchine parcheggiate fuori ho provato un vero dispiacere, un senso di perdita, una specie di lutto di famiglia, come quando passa a miglior vita uno zio lontano al quale però si era affezionati.

Sull’onda della stessa nostalgia che mi ha fatto scegliere questa strada, metto su un vecchio nastro di Uncle Warren.

A Lix Toll, in mezzo alle vallate, c’è un’altra attrazione per gli automobilisti: al lato della strada, davanti a un garage, c’è una Land Rover gialla alta quasi tre metri, anche lei con il muso rivolto verso la strada. Non appoggia su ruote bensì su quattro cingoli neri e triangolari, e sembra il frutto di un rapporto carnale tra una Land e un caterpillar. È lì ormai da qualche anno. Se ce la lasciano ancora un po’, potrei anche entrare nel garage e chiedere: «Adesso voi mi spiegate perché…»

Ci passo davanti a tutta velocità.


La distilleria si trova subito fuori Dorluinan, nascosta fra gli alberi. Si lascia la strada per Oban, si oltrepassa la ferrovia e si prende una stradicciola che sale attraverso la foresta. Il direttore è un certo signor Baine; vado nel suo ufficio e lui mi accompagna a fare il solito tour della distilleria. C’immergiamo negli odori umidi e talvolta allettanti, nel calore dell’essiccatoio, guardiamo gli alambicchi luccicanti e la scintillante vetrina nella quale sono custodite le bottiglie più preziose, per finire poi nella gelida oscurità di uno dei magazzini, dove rimaniamo a osservare le file compatte di grosse botti, fiocamente illuminate dall’alto da pochissimi lucernari, stretti e difesi da inferriate. Il soffitto è basso, sostenuto da grossi e nodosi puntelli di legno che poggiano su colonne di ferro piuttosto distanti fra loro. Il pavimento è in terra battuta, resa dura come il cemento da quasi due secoli di uso.

Il signor Baine assume un’espressione preoccupata quando gli dico dell’articolo. È un highlander ben piantato, dal viso cascante; indossa un abito scuro e una cravatta in Technicolor. Dentro di me, sono felice di affrontarlo qui, nella fioca luce del magazzino, anziché fuori, in pieno sole.

«Be’, fondamentalmente, solo i fatti», gli sto dicendo, con un sorriso. «Che negli anni ’20 gli yankee si lamentavano perché il whisky e il brandy diventavano torbidi quando ci mettevano il ghiaccio e quindi chiesero alle distillerie di trovare una soluzione a quello che loro consideravano un problema. I francesi, essendo francesi, dissero loro quello che dovevano farci con i cubetti di ghiaccio, mentre gli scozzesi, essendo britannici, assicurarono che avrebbero fatto del loro meglio…»

Mentre parlo, l’espressione da cocker abbacchiato del signor Baine diventa ancora più triste. So bene che non avrei dovuto farmi quella microleccata di polverina poco fa, durante la visita, ma non sono riuscito a resistere; c’era qualcosa d’irresistibilmente affascinante, una sorta d’intima soddisfazione, nella certezza di restare impunito, nell’infilarmi il dito in bocca, poi in tasca e nuovamente in bocca, annuendo mentre il signor Baine parlava e io assumevo un’espressione sempre più interessata e la lingua diventava insensibile e il gusto di medicinale diventava più forte in gola. Così, mentre quella droga illegale, che genera un’assuefazione completa ed esaltante, faceva effetto, noi continuavamo il nostro giro per questa fabbrica di droga perfettamente legale finanziata dal governo.

Sto farfugliando, ma sto d’un bene…

«Però, signor Colley…»

«E così i distillatori hanno introdotto il filtraggio a freddo: si abbassa la temperatura del whisky fino a che gli oli che causano la torbidità non si separano, poi si passa il tutto attraverso filtri in materiali a base di asbesto per rimuovere l’olio; solo che il procedimento porta via anche un sacco di sapore — e questo non si può rimettere — e di colore, ma questo invece riuscite a rimetterlo usando il caramello. Dico bene?»

Ora il signor Baine ha un’aria da cane bastonato. «Ah, be’, a grandi linee», dice, schiarendosi la gola e lanciando un’occhiata alla distesa di botti allineate in ordine perfetto e che sembrano scomparire nel buio. «Ma… questo intende essere un… hmm… come lo chiamate… un articolo di denuncia, signor Colley? Io credevo che lei volesse soltanto…»

«Credeva che volessi fare l’ennesimo articolo sul nostro grande, magnifico Paese e su quanto siamo fortunati a saper produrre questa bevanda rinomata in tutto il mondo, bevanda che ci frutta un sacco di dollari, che non è dannosa alla salute se usata con moderazione ed è buonissima?»

«Be’… signor Colley… sta a lei decidere cosa scrivere», dice il signor Baine (io sto sfoggiando un gran sorriso). «Ma, vede, temo che lei potrebbe indurre in errore le persone insistendo su certi particolari, tipo l’asbesto. La gente potrebbe pensare che ci sia dell’asbesto nel prodotto.»

Guardo il signor Baine. Prodotto? Ha davvero detto prodotto?

«Non intendo assolutamente insinuare una cosa simile, signor Baine. Questo sarà un articolo rigoroso, basato sui fatti.»

«Certo, certo, tuttavia certi fatti, se isolati dal contesto, possono indurre in errore.»

«Uh, uh.»

«Vede, non sono sicuro che il tono…»

«Signor Baine, pensavo che a lei il tono dell’articolo piacesse. È per questo che oggi mi trovo qui; mi avevano detto che lei ha intenzione di produrre un vero whisky, senza filtraggio a freddo né coloranti. Un prodotto di prima qualità, in cui la particolare torbidità e la presenza di oli residui assumono il ruolo di argomenti di vendita, addirittura di punti di forza nella pubblicità…»

«Be’», mormora il signor Baine, visibilmente a disagio, «quelli del marketing ci stanno ancora lavorando…»

«Su, signor Baine, tutti e due sappiamo benissimo che la domanda c’è; la Scotch Malt Whisky Society fa affari d’oro, il negozio di Caddenhead sul Royal Mile…»

«Mah, non è così semplice», ribatte il signor Baine, sempre più a disagio. «Senta, signor Colley, potremmo parlarne… insomma… parlarne senza che lei lo scriva?»

«Cioè in via ufficiosa?»

«Sì, in via ufficiosa.»

«D’accordo.»

Il signor Baine intreccia le mani sotto il ventre fasciato dall’abito scuro e annuisce con aria compunta. «Senta, Cameron», dice, abbassando la voce, «sarò franco con lei: abbiamo effettivamente pensato d’immettere sul mercato questo nuovo whisky di qualità superiore di cui lei ha parlato, e di utilizzare l’assenza del filtraggio a freddo come argomento di vendita, ma… Vede, Cameron, anche ammesso che funzionasse, non potremmo vivere soltanto di quello, almeno non nell’immediato futuro. Abbiamo altri fattori da tenere in considerazione. Probabilmente dovremmo continuare a vendere la grande maggioranza della nostra produzione come whisky per miscele: è quello il nostro prodotto, la nostra vita, e quindi siamo costretti a dipendere dal favore delle ditte cui lo vendiamo. Ditte molto, molto più grosse di noi.»

«Sta dicendo che gli altri produttori vi hanno chiesto di non dar loro fastidio.»

«Oh, no, no!» Il signor Baine si altera, teme di essere stato frainteso. «Però lei deve capire che gran parte del successo del whisky dipende dal suo fascino, dall’immagine che il consumatore ha di esso in quanto prodotto unico, di alto valore. E quasi un mito, Cameron. È l’uisgebeatha, l’’acqua della vita’, come lo chiamano… È un’immagine assai incisiva, molto importante per le esportazioni scozzesi e per l’economia nazionale. Se noi — che, francamente, siamo sul mercato da pochissimo tempo — ci comportassimo in modo da danneggiare tale immagine…»

«…per esempio insinuando nella gente l’idea che tutti gli altri whisky sul mercato sono filtrati a freddo e colorati con il caramello…»

«Be’, sì…»

«…rompereste le uova nel paniere agli altri produttori», completo. «E così vi hanno chiesto di lasciar perdere il nuovo marchio oppure vi ritroverete a corto di ordini per il vostro whisky per miscele e finireste per fallire.»

«No, no, no», ripete il signor Baine, ma lì, nella fredda oscurità del magazzino fragrante di alcool, circondati da tante botti da far galleggiare persino un Trident, capisco che la vera risposta, anche in via ufficiosa, è: «Sì, sì, sì», e penso: Ma certo! Una cospirazione: un insabbiamento, una forte pressione, un ricatto corporativo nei confronti di una piccola azienda. Potrebbe uscirci un articolo ancora migliore!


Entri dalla porta sul retro servendoti di un palanchino; la porta e la serratura sono massicce, ma con gli anni l’intelaiatura è marcita sotto strati e strati di vernice. Non appena sei dentro, tiri fuori dallo zaino la maschera da Elvis Presley e la infili, poi prendi i guanti da chirurgo dalla tasca e metti pure quelli. La casa è ancora tiepida per il calore del pomeriggio: è esposta a sud e quindi prende un sacco di sole, anche perché gode di una vista indisturbata del percorso del campo da golf verso l’estuario.

Non pensi che ci sia qualcuno, ma non ne sei sicuro. Non hai avuto il tempo di sorvegliare la casa per tutto il giorno. Dà comunque l’impressione di essere vuota. Scivoli da una stanza all’altra, sudando sotto il lattice scivoloso della maschera. Il sole del tardo pomeriggio ha acceso di rosa le impalpabili nuvole alte sul mare e questa luce riempie ogni stanza di ombre rosate.

La scala e molte delle assi del pavimento scricchiolano. Le stanze sono pulite, però i mobili paiono vecchi e scompagnati: sembrano scarti. Arrivato nella camera da letto padronale, ti convinci che in casa non c’è proprio nessuno.

Non sei molto soddisfatto del letto: in realtà è un divano. Lo ispezioni alla luce che si fa sempre più rossa, poi sollevi il materasso e lo appoggi contro il muro. Non sei ancora soddisfatto. Ispezioni l’altra camera da letto, anch’essa affacciata sul campo da golf e sul mare; dall’odore che vi ristagna e dalla leggera sensazione di umido che la pervade, capisci che non ci dorme nessuno. Il letto qui va meglio: ha la struttura di ferro. Lo disfi e cominci a strappare le lenzuola, facendone lunghe strisce.

Intanto guardi fuori della finestra e vedi un paio di jet militari sfrecciare lontani, sopra il mare. A destra, oltre la ferrovia, osservi la spiaggia che piega verso il promontorio coperto di vegetazione e intravedi il faro, che spunta oltre gli alberi.

Poi scorgi la signora Jamieson che entra dal cancello e risale il sentiero del giardino. Ti abbassi di colpo e ti dirigi velocemente verso la porta e il pianerottolo. Senti la porta d’ingresso che si apre.

La signora Jamieson entra e va in cucina. Ti ricordi che la scala scricchiola. Hai un attimo di esitazione, poi ridiscendi tranquillo, a passi veloci e piuttosto pesanti, fischiettando.

«Murray?» chiama la signora Jamieson dalla cucina. «Murray, non ho visto la macchina…»

Arrivi in fondo alla scala. La testa bianca della signora Jamieson fa capolino da dietro la ringhiera alla tua destra, e si volta verso di te.

Ti giri di scatto, intuendo che lei, sorpresa, sta per reagire. Sai già cosa devi fare e come farlo. La stendi con un pugno. Crolla sul pavimento, con piccoli gemiti nervosi, che ricordano il cinguettio di un uccello. Speri di non averla colpita troppo forte. La trascini per la scala, tenendole una mano premuta contro la bocca.

La immobilizzi contro la base del divano e, usando il manico del coltello Stanley, le cacci in bocca un fazzoletto; poi le infili un paio di collant sopra la testa, glieli leghi intorno al collo e alla bocca e la spingi dentro il vecchio e massiccio armadio della camera da letto padronale, tirando fuori qualche vestito appeso e ammanettandola infine all’asta. La donna piange e si lamenta, ma il bavaglio soffoca ogni suono. Le tiri giù i collant che ha indosso e glieli leghi intorno alle caviglie, al di sopra delle comode scarpe sportive marroni, poi chiudi le ante dell’armadio.

Ti siedi sul divano e togli la maschera, sudato e ansimante. Quando ti sei calmato, rimetti la maschera e apri di nuovo l’anta. La signora Jamieson è in piedi, tremante, gli occhi spalancati e lucidi sotto il velo grigio scuro dei collant. Richiudi l’armadio, tiri le tende della finestra e poi vai a chiudere anche quelle della stanza in cui si trova il letto di ferro.

Suo marito arriva mezz’ora dopo e parcheggia la macchina nel vialetto. Entra dall’ingresso principale. Lo stai aspettando dietro la porta della cucina. Mentre ti passa davanti, tu fai un rumore, lui si volta e tu gli sferri un pugno, mandandolo a sbattere contro un armadietto e provocando così una valanga di piatti decorati con motivi cinesi. Cerca di rialzarsi, e tu lo colpisci di nuovo. Per quanto ti sembri ancora abbastanza in forma, è piuttosto anziano, e sei piuttosto sorpreso del fatto che siano necessari due pugni per stenderlo.

Gli infili in bocca un paio di mutandine di sua moglie e fai con lui lo stesso giochetto dei collant: prima sopra la testa e poi intorno al collo. Quindi lo trascini al piano superiore, nella seconda camera da letto. Dall’odore capisci che ha bevuto. Probabilmente un gin and tonic. Senti anche odore di fumo di sigaretta. Finalmente lo sbatti sul letto di ferro e ti ritrovi ancora tutto sudato.

Lo leghi al letto, a faccia in giù. Sta cominciando a tornare in sé. Una volta che è legato, tiri fuori il coltello Stanley. La giacca a vento leggera che lui aveva in mano è rimasta in cucina. Indossa un maglione blu della Pringle, con un golfista in knickerbocker sul davanti, una camicia a quadri di Mark’s Spencer e una canottiera fine. Gli tagli via i vestiti, e li getti in un angolo. Le calze sono rosso brillante, le mutande, aperte sul davanti, sono bianche. Le scarpe da golf sono bianche e marroni, con molti chiodi, linguette lavorate e stringhe con le nappine.

Ti togli lo zaino. Prendi i cuscini dall’altra stanza e, sollevandolo un poco dal letto, glieli infili sotto la pancia. Il vecchio comincia a mugolare, sputacchia, e cerca di muoversi. Usi un paio di coperte arrotolate per alzargli ancora di più il didietro, poi riprendi lo zaino e cominci a tirare fuori le cose che ti servono. Lui si divincola, come se stesse lottando con un avversario invisibile sotto di lui. Dai rumori che fa sembra sul punto di soffocare, ma non te ne curi. Sviti il tappo del tubetto di crema.

Si sente un rumore secco, simile a un latrato; deve essersi tolto il bavaglio, almeno in parte, perché ora lo senti biascicare: «La smetta! La smetta, le dico!» Non è la voce burbera — tipica dei ricchi che vivono nei dintorni di Londra — che ricordi di aver sentito in televisione; è piuttosto stridula e tesa, però non c’è da stupirsi, date le circostanze. Comunque sembra meno spaventato di quanto ti aspettassi.

«Senta», dice, in un tono più vicino al normale, profondo e deciso. «Non so cosa vuole, ma se lo prenda e se ne vada; non c’è bisogno che faccia questo, non ce n’è davvero bisogno.» Premi il tubetto e metti un po’ di crema sulla punta del vibratore.

«Credo che lei stia facendo un errore», riprende, cercando di voltare la testa per guardarti. «Davvero. Noi non viviamo qui, questa è la casa per le vacanze. L’abbiamo in affitto, non c’è niente di valore, qui.» Si dibatte ancora. T’inginocchi sul letto dietro di lui, dentro alla Y capovolta formata dalle sue gambe scheletriche, coperte di vene varicose. La schiena e le braccia sono percorse da capillari rotti. Le gambe sono grigie e avvizzite, le natiche pallide, quasi giallastre, e la pelle delle cosce, al di sotto del punto in cui gli arriverebbero le mutande, ha un aspetto granuloso e chiazzato. I testicoli penzolano come frutti avvizziti, circondati da peli ispidi e grigi.

Il suo pene sembra leggermente congestionato. Interessante.

Capisce che sei salito sul letto e urla: «Senta! Lei non sa quello che sta facendo. Questa è violazione di domicilio aggravata, giovanotto, lei… Ah!»

Gli hai messo la punta del vibratore unta di crema contro l’ano, rosa-grigiastro, increspato fra le natiche allargate. La crema deve essere fredda. «Cosa…?» urla, mezzo soffocato dal bavaglio. «Fermo! Che crede di fare?»

Cominci a infilargli il fallo di plastica, ruotandolo da una parte all’altra e vedi che la pelle intorno all’ano si tende e diventa bianca, mentre la plastica color avorio scivola dentro; si è formato un sottile orlo di crema.

«Ah! Ah! Fermo! Va bene! Lo so cosa sta facendo! Lo so di che cosa si tratta! E va bene! Quindi lei sa chi sono; ma non è questo il modo di… Ah! Ah! Basta! Va bene! Si è spiegato benissimo! Quelle donne… Senta, va bene, posso anche aver detto cose di cui mi sono pentito, ma lei non c’era! Lei non conosce tutti i fatti! Io, sì. Lei non ha ascoltato tutti gli uomini che erano accusati! Non può essersi formato un’opinione del loro carattere! E neanche delle donne! Ah! Ah! Fermo! La prego! Mi sta facendo male! Mi sta facendo male!»

Hai infilato il vibratore per un terzo, e non è ancora nel punto della massima circonferenza. Spingi più forte, compiaciuto della presa salda grazie ai guanti da chirurgo, e vorresti tanto poter dire qualcosa, ma sai che non puoi. Un vero peccato.

«Ah! Ah! Gesù, per amor del cielo, sta cercando di uccidermi? Senta, ho del denaro, posso… Ah! Maledetto bastardo…» Gli sfuggono un gemito e un peto al contempo. Sei costretto ad allontanare la testa per la puzza, tuttavia continui a spingere dentro il vibratore. Senti i gabbiani che urlano, fuori, oltre le tende tirate.

«Fermo! Basta!» urla. «Questa non è giustizia! Lei non sa nulla di quei casi! Alcune erano vestite come puttane, maledizione! Ci sarebbero state con chiunque, non erano altro che puttane! Ah! Maledetto! Maledetto schifoso bastardo! Maledetto porco bastardo frocio! Ah!»

Tira e sgroppa, scuotendo il letto, ma riesce soltanto a tendere ulteriormente i nodi dei legacci. «Bastardo!» farfuglia. «La pagherai! Non la passerai liscia! Ti prenderanno, vedrai, ti prenderanno, e farò in modo che in cella ti diano una lezione che non dimenticherai! Mi hai sentito? Eh?»

Lasci il vibratore dov’è e lo accendi. Lui si solleva e tira ancora: senza risultato. «Oh, per amor del cielo!» esclama, gemendo. «Ho settantasei anni. Che tipo di mostro sei, eh?» Incomincia a singhiozzare. «E mia moglie», dice, tossendo. «Che cos’hai fatto a mia moglie?»

Ti alzi dal letto e prendi la scatoletta di legno dal taschino del giubbotto, il taschino chiuso con la lampo; fai scivolare con cura il coperchio e apri il cartoccio di carta igienica. Il pacchetto contiene una fialetta di sangue e un ago. È l’ago sporco di una siringa usa e getta, una cosettina lunga neanche un centimetro dotata di un cono di plastica arancione per collegarla al corpo della siringa.

Lo ascolti imprecare e minacciarti, e non sei ancora sicuro. Quando hai progettato questo, non sei riuscito a decidere se infettarlo con sangue Hiv-positivo oppure no; non sei riuscito a decidere se lo merita davvero, e così hai aspettato fino a ora per prendere una decisione.

Mentre stai lì, in piedi, il sudore ti cola negli occhi.

«Ti eccita tutto questo, eh? È così?» Sputa. «Sei una checca frustrata, vero?» Tossisce, poi gira la testa cercando di guardarti. «Sei ancora lì, vero? Cosa stai facendo? Ti stai facendo una sega, eh? Non è così?»

Sorridi sotto la maschera, ripieghi la carta igienica sopra la fialetta e l’ago, e lasci entrambi nella scatola. Richiudi il coperchio e riponi il contenitore nel taschino del giubbotto. Arretri di un paio di passi verso la porta, in modo che lui ti possa vedere.

«Maledetto bastardo!» esclama con veemenza. «Maledetto, schifoso bastardo! Io ho fatto il mio lavoro meglio che ho potuto per trent’anni! Tu non hai nessun diritto di farmi questo! Questo non prova niente, hai capito? Non prova niente! E rifarei esattamente quello che ho fatto, se ne avessi la possibilità. Tutto quanto. Non cambierei nulla, stronzo fottuto!»

Quasi quasi lo ammiri, quel vecchio, ammiri il suo atteggiamento. Senza far rumore, vai nell’altra stanza, per accertarti che la moglie stia bene. Sta ancora tremando. La lasci appesa nell’oscurità odorosa di naftalina del vecchio armadio. Poi scendi, infili la maschera da Elvis Presley nello zaino con il resto della roba, ed esci dalla stessa porta sul retro dalla quale sei entrato.

C’è ancora luce, e solo adesso la serata comincia a rinfrescarsi. Ti avvii lungo il sentiero sul retro sotto un cielo azzurro, increspato da nuvole alte e scure. Dal mare soffia un vento freddo; stringi il colletto del giubbotto.

Le tue mani puzzano ancora di gomma.


Consegno l’articolo sul whisky, concluso da un paragrafo allettante nel quale prometto ulteriori rivelazioni a proposito delle mosse ricattatorie che i baroni dell’alcool, i boss delle grandi fabbriche, hanno intenzione di compiere per mettere a tacere i piccoli, coraggiosi maghi del whisky. Nel frattempo, cerco di capire che cosa sta succedendo nella storia della talpa, che si trascina ormai da un po’: la storia di Ares (Ares, il dio greco della guerra, feroce e sanguinario, stando ai dizionari di mitologia scovati nella biblioteca del giornale). Cerco «Jemmel» sulle varie banche dati, ma non trovo nulla. Perfino Profile si arrende.


«Cameron! Sei tu!» m’informa Frank, spazzando ogni dubbio. «E così hai pensato bene di farti vedere. Già, già. Ehi, indovina cosa dovrebbe essere ‘Colonsay’ secondo il controllo ortografico?»

«Non ne ho idea, Frank.»

«’Collottola’!»

«Spassoso.»

«E ‘Carnoustie’?»

«Hmm…»

«’Carnitina’!» sbotta, ridendo come un matto.

«Ancora più divertente.»

«A proposito, Eddie desidera vederti.»

«Ah.»


Eddie, il nostro direttore, è un uomo piccoletto e avvizzito, con i capelli sale e pepe, sui cinquantacinque o giù di lì, che porta gli occhiali a lunetta in bilico sul naso aguzzo; ha sempre l’espressione di uno che ha appena assaggiato qualcosa di estremamente acido, ma che trova quell’esperienza molto divertente perché sa che lo assaggerai anche tu, molto presto, e più a lungo di lui. Da un punto di vista tecnico, Eddie è soltanto il direttore facente funzione: il nostro vero Grande Nocchiero, Sir Andrew, è via per un periodo di tempo indefinito giacché deve riprendersi da un attacco cardiaco (presumibilmente causato dalla disgrazia, comune a tutti i direttori di quotidiani, di avere troppo cuore).

Non molto tempo fa, il praticante che si occupa della pagina sportiva ci ha fatto cinicamente notare che l’attacco di cuore di Sir Andrew ha seguito di pochissimo — un intervallo di tempo appena decente — l’assassinio di Sir Toby Bissett in agosto, e ha azzardato l’ipotesi che potesse trattarsi di un’azione diversiva per cercare di autodepennarsi dalla lista di quello che, allora, alcuni direttori sospettavano fosse un maniaco giustiziere che aveva preso a malvolere proprio la loro categoria. Be’, a mio parere, era tutta colpa delle molte coscienze sporche e della confusione creatasi con la presunta rivendicazione dell’omicidio di Sir Toby da parte dell’iRA, che poi aveva ritrattato tutto. Nessun altro direttore era finito impalato (anche se questo dimostrava almeno che il nostro assassino aveva un notevole senso dell’umorismo). Comunque Eddie non sembra preoccuparsi delle minacce che possono derivare dalla sua carica, temporanea, certo, ma nondimeno piuttosto elevata.

L’ufficio del direttore del Caledonian ha probabilmente una delle migliori viste di tutta la redazione: dà su Princes Street Gardens e, da lì, lo sguardo spazia fino a New Town, al fiume Forth, e ai campi e alle colline del Fife; inoltre, putacaso l’occupante si fosse stancato della vista sul davanti dell’edificio, da una finestra laterale si poteva godere il panorama del miglior lato del castello.

Ho un brutto ricordo di quella stanza, e ciò a causa della mia disastrosa missione all’estero dell’anno scorso, missione che si era conclusa con una visita a Sir Andrew, proprio lì, in quell’ufficio. Ero uscito con la coda tra le gambe. Se l’espressione di un’assoluta indignazione giornalistica rientrasse nelle discipline olimpiche, senza dubbio Sir Andrew sarebbe l’uomo di punta della compagine britannica. Avrei dato le dimissioni all’istante… ma avevo avuto l’impressione che fosse esattamente quello che lui voleva.

«Cameron, vieni dentro, siediti», dice Eddie. Sir Andrew è un convinto sostenitore del diretto rapporto fra gerarchia aziendale e arredamento. Eddie è seduto — no, meglio dire alloggiato — su una poltrona che sembra un trono, tutta di legno nero intagliato e pelle rossa con bottoni: a vederla, fa pensare che abbia sostenuto più di un regale didietro. Io invece sono appollaiato sull’equivalente, in termini di classi sociali, di un onesto artigiano: una sedia rivestita di stoffa, appena un gradino più su delle proletarie sedie impilabili di plastica. Non appena promosso a questo incarico, il mese scorso, Eddie aveva la decenza di sembrare a disagio, quando si accomodava su questo simbolo di onnipotenza, ma ormai ho l’impressione che gli piaccia.

Eddie sta scorrendo alcuni fogli posati sulla scrivania. La scrivania non è imponente come la poltrona — ha le dimensioni di un letto a una piazza e non di uno matrimoniale, come sospetto che Sir Andrew, e anche Eddie, preferirebbero —, comunque ha sempre un’aria piuttosto maestosa. Sulla scrivania c’è un terminale, ma Eddie lo usa solo per spiare la gente, per controllarci quando battiamo delle note, inseriamo un articolo, mandiamo un fax all’esterno, o usiamo la E-mail per insultarci a vicenda.

Eddie si appoggia allo schienale, si toglie gli occhiali e li batte leggermente sulle nocche di una mano. «Non sono tanto sicuro di questo articolo sul whisky, Cameron», dice, con quella sua voce da quartieri alti, perennemente lamentosa.

«Oh? Cosa c’è che non va?»

«Il tono, Cameron, il tono», ribatte Eddie, aggrottando la fronte. «È un po’ troppo combattivo, capisci cosa intendo? Troppo critico.»

«Be’, mi sono attenuto ai…»

«Sì, ai fatti», completa Eddie, rivolgendomi un sorriso tollerante e dividendo con me quella che considera una battuta di spirito. «Compreso il fatto che a te, ovviamente, non piacciono alcune delle distillerie maggiori, mi pare di capire.» Si rimette gli occhiali e sbircia i fogli sulla scrivania.

«Be’, non direi che è questo che viene fuori dall’articolo», replico, odiandomi perché capisco di essermi messo sulla difensiva. «Tu dici così perché mi conosci, Eddie, però non credo che chiunque legga questo articolo…»

«Mi riferisco», fa Eddie, tagliando di netto le mie parole come un coltello affilato, «alla Distillers Company e alla loro acquisizione da parte della Guinness. È assolutamente necessario citarla? È una notizia vecchia, Cameron.»

«Ma è pertinente», insisto. «L’ho inserita nell’articolo per far capire come agiscono le grandi aziende: pur di ottenere quello che vogliono, promettono qualsiasi cosa e poi si rimangiano tutto senza esitare un solo istante. I loro capoccia sono bugiardi di professione: per loro conta solo il fatturato, i profitti degli azionisti, nient’altro. Non la tradizione, non le comunità o la gente che ha lavorato per loro tutta una vita…»

Eddie si appoggia allo schienale, ridendo. «Appunto», dice. «Tu dovevi scrivere un articolo sul whisky…»

«Sull’adulterazione del whisky.»

«…e invece praticamente finisci con il dire che Ernest Saunders è uno stronzo e un bugiardo.»

«Un grosso stronzo e un bugiardo; lui…»

«Cameron!» esclama Eddie, seccato, togliendosi di nuovo gli occhiali e battendoli sui fogli. «Anche ammesso che questo articolo non arrivi a essere chiaramente diffamatorio…»

«Ma non si può guarire dalla demenza senile!»

«Non ha importanza, Cameron! Questo fatto non deve entrare in un articolo sul whisky.»

«Sull’adulterazione del whisky», ripeto, imbronciato.

«Ah, rieccolo!» sbotta Eddie, poi si alza e si dirige verso le tre grosse finestre alle sue spalle. Si siede per metà sul davanzale di legno, appoggiandosi con le mani. «Dio mio, ragazzo, sei proprio impossibile quando ti metti in testa qualcosa!»

Dio mio, come odio Eddie quando mi chiama «ragazzo».

«Lo pubblichi o no?» gli chiedo.

«Così com’è, sicuramente no. Dovrebbe finire sulla prima pagina del supplemento del sabato, Cameron; è destinato a quelli che si sono presi una bella sbronza la sera prima, perché se lo leggano in vestaglia e ci sbriciolino sopra la brioche; com’è ora, potresti già considerarti fortunato se te lo pubblicassero sull’ultima pagina del Private Eye.»

Lo fulmino con lo sguardo.

«Cameron, Cameron», mormora Eddie, sfregandosi il mento. Pare dolorosamente colpito dalla mia reazione. Ha l’aria stanca. «Tu sei un bravo giornalista, scrivi bene, rispetti le scadenze e so che hai ricevuto un’offerta per andare nel sud, con un incarico migliore e più soldi; inoltre sia Andrew sia io ti diamo più libertà d’azione di quanto meriti, almeno secondo certe persone che lavorano qui. Tuttavia, se mi chiedi di scrivere un articolo sul whisky per il supplemento del sabato, be’, noi ci aspettiamo un pezzo che abbia a che fare con il whisky e non un manifesto della lotta di classe. È proprio come quell’articolo sulla televisione che hai fatto l’anno scorso.» (Se non altro evita di far cenno ai risultati disastrosi del mio viaggetto all’estero.) Si china in avanti e osserva i fogli. «Insomma, leggi qua: obbligare Ernest Saunders a bere tanto whisky fino a che il suo cervello non ritorni allo ‘stato bovinamente spugnoso in cui lui stesso ha ammesso che si trovava alla fine del processo Guinness’. Questa è…»

«È una battuta!» protesto.

«A me sembra un’istigazione! Che cosa stai cercando di…»

«A Muriel Gray gliel’hai lasciata passare.»

«Non l’avrei fatto, se l’avesse messa in questi termini.»

«Be’, allora chiedi una verifica legale ai nostri avvocati, e loro…»

«Non ho intenzione di chiedere una verifica legale, Cameron, perché non ho intenzione di pubblicarlo.» Scuote la testa. «Cameron», aggiunge con un sospiro, allontanandosi dalla finestra e sedendosi di nuovo sul trono, «devi imparare a trovare il senso della misura.»

«E ora, che succede?» replico, ignorando il consiglio e indicando l’articolo.

Eddie sospira. «Riscrivilo, Cameron. Cerca di diluire il vetriolo, invece di continuare a battere sui filtri all’asbesto.»

Continuo a fissare i fogli. «Questo significa che perderemo lo spazio, vero?»

«Sì», conferma Eddie. «Anticiperò di una settimana la serie sul National Trust. L’articolo sul whisky dovrà aspettare.»

Mi mordo le labbra, poi scrollo le spalle. «Okay, dammi tempo fino alle…» guardo l’orologio, «…alle sei. Se mi ci metto subito, per quell’ora dovrei averlo riscritto. Possiamo ancora farcela.»

«No, Cameron», sospira Eddie, esasperato. «Non voglio un rimaneggiamento veloce con qualche taglio qua e là. Voglio che tu lo rifaccia interamente, che tu lo riscriva partendo da un’angolazione diversa. Voglio dire, se proprio devi, mettici pure dentro la tua critica sulla corruzione morale del capitalismo, ma tienila fra le righe, indefinita. Io so — lo sappiamo tutti e due — che puoi farcela, e che sei molto più tagliente quando lavori di bisturi invece che di motosega. Approfitta di questa tua qualità…»

Non sono per niente ammansito, però abbozzo un sorriso e, a denti stretti, faccio un grugnito di conferma.

«D’accordo?»

«Okay», dico, annuendo. «D’accordo.»

«Bene», fa Eddie, appoggiandosi allo schienale. «Come vanno le altre cose? A proposito, mi è piaciuto quel pezzo sul sottomarino. Ben equilibrato. Sull’orlo dell’editoriale, ma non proprio. Ben fatto, ben fatto… Ah, ho sentito dire che potresti avere qualcosa d’interessante su una talpa governativa. È vero?»

Scocco a Eddie il mio miglior sguardo d’acciaio. Sembra rimbalzargli addosso. «Che cosa ti ha detto Frank?»

«Non ho detto che l’ho saputo da Frank», ribatte Eddie, assumendo un’espressione innocente e sincera. Troppo innocente e sincera. «Mi hanno detto che, a quanto pare, hai qualcosa per le mani, qualcosa di cui non parli con nessuno. Non sto ficcando il naso; non voglio saperne niente per il momento. Mi chiedevo soltanto se queste voci fossero vere.»

«Be’, sì, lo sono.» Odio doverlo ammettere.

«Io…» comincia Eddie, ma il telefono si mette a squillare. Risponde con aria seccata.

«Morag, credevo di…» esordisce, poi la sua espressione si tinge di un’amara rassegnazione. «Sì, va bene».

Preme il tasto di attesa e mi rivolge uno sguardo contrito. «Scusa, Cameron. ’Sta maledetta faccenda del Fettesgate. Ci sono pressioni ad alto livello. Devo assolutamente occuparmene. Mi ha fatto piacere parlare con te. Ci vediamo.»

Esco dall’ufficio sentendomi come se fossi appena andato a parlare con il preside. Mi ritiro nei gabinetti per un naso a naso con la mia vecchia amica Cristallina. Cazzo, per fortuna che esiste la droga.


Quel giorno, Andy, Clare e io percorremmo da un capo all’altro la proprietà di Strathspeld; uscimmo dalla casa, attraversammo il prato, quindi il giardino e il bosco, giù fino alla valle, per salire poi sulla collina coperta di alberi e giungere così all’avvallamento ricoperto di una fitta boscaglia dove si trovava il vecchio camino di aerazione.

Sulla collina c’erano due prese d’aria: la vecchia ferrovia correva proprio lì sotto, ma ormai era chiusa da trent’anni e le entrate del tunnel erano state prima sbarrate con assi e poi riempite di detriti. Il viadotto sopra lo Speld, poco meno di un chilometro più in là, era stato demolito, e solo le basi dei pilastri spuntavano ancora dalle acque vorticose. I binari erano stati divelti: rimaneva soltanto una lunga trincea dal fondo piatto che avanzava sinuosamente tra gli alberi della proprietà.

Le due prese d’aria — scuri e tozzi cilindri di pietra grezza, larghi un paio di metri e alti circa uno, chiusi da una grata di ferro — servivano a far uscire il vapore e il fumo dei treni che passavano nella galleria. Ci si poteva arrampicare su di essi per sedersi poi sulla grata arrugginita — con la paura che cedesse, ma soprattutto con la paura di ammettere che si aveva paura — e guardare giù, nell’oscurità assoluta, cogliendo talvolta l’esalazione fredda e morta del tunnel abbandonato, un odore che saliva e ti circondava, simile a un alito gelido e spietato. Da lì si potevano anche lanciare sassi nel buio: li sentivamo arrivare con un tonfo lontano, a malapena udibile, sul fondo del tunnel, trenta o quaranta metri più sotto. Una volta Andy e io eravamo andati lì con un po’ di giornali vecchi e con una scatola di fiammiferi: avevamo gettato nel buco i giornali arrotolati e incendiati, osservando la lenta discesa nell’oscurità di quelle spirali di fiamma sino a quando non avevano toccato il fondo della galleria.

Andy aveva undici anni, Clare dieci, io nove. Eravamo lì per una cerimonia. A quel tempo, Andy era un po’ grassottello, Clare deliziosamente normale. Io ero — come dicevano tutti — magro come un chiodo, ma probabilmente sarei diventato robusto come mio padre.

«Accidenti!» esclamò Clare. «È buio là dentro, vero?»

Era buio pesto. Ci trovavamo in piena estate e la vegetazione, bassa e alquanto intricata, cresceva veloce e rigogliosa intorno alle prese d’aria, bloccando totalmente la luce. Dovemmo lottare per farci strada e arrivare alla piccola oasi di tranquillo chiarore intorno alla presa d’aria dimenticata. Una volta arrivati lì, nella piccola caverna verde, persino la luce del sole ci parve debole e offuscata.

Clare rabbrividì e si strinse ad Andy, con una finta smorfia di terrore. «Ah, aiuto!»

Andy rise e le circondò le spalle con un braccio. «Non aver paura, sorellina.»

«Avanti, deciditi!» mi esortò lei, facendomi una boccaccia.

«Prima tu», disse Andy, porgendomi il pacchetto.

Io lo presi, estrassi una sigaretta e me la misi tra le labbra. Andy armeggiò con il fiammifero, lo accese e lo avvicinò velocemente alla sigaretta. Tirai forte, serrando gli occhi.

Inalai l’odore di zolfo, presi immediatamente a tossire, diventai di un bel color verde e poco mancò che vomitassi.

Andy e sua sorella si misero a ridere come matti mentre continuavo a tossire.

A turno, provarono anche loro a fumare, e dichiararono che era una cosa assolutamente orribile e disgustosa. Che cosa mai ci trovava la gente? Gli adulti erano proprio matti.

Andy disse che però era bello da vedere. Ci chiese se conoscessimo Casablanca, con Humphrey Bogart. Quello sì, che era un film. Si poteva forse immaginare Rick senza una sigaretta in mano o tra le labbra? (Clare e io annuimmo, tra una smorfia e l’altra. Diamine, avevo visto quel film un paio di Natali prima, no? Ma era un film dei fratelli Marx e ricordavo benissimo che non c’era nessuno chiamato Humphrey Bogart.)

Provammo ad accendere un’altra sigaretta e allora — forse per istinto — capii come fare.

Ci stavo prendendo davvero gusto! Quella seconda cicca me la godei davvero. Andy e Clare si limitarono a succhiare, tenendo il fumo in bocca, ma senza spingerlo giù nei polmoni, sin nel profondo del loro essere, senza accettarlo nella loro personale ecosfera, limitandosi a ridacchiare, superficiali e infantili.

Io, no. Io aspirai quel fumo e lo feci diventare parte di me: in quel momento, mi unii misticamente all’universo, dissi sì per sempre alle droghe per il piacere assolutamente unico che mi venne da quel pacchetto di sigarette che Andy aveva fregato a suo padre. Fu una rivelazione, un’epifania: l’improvvisa consapevolezza che un qualcosa che avevi davanti a te — fra le mani, nei polmoni, in tasca — potesse fare a pezzi il tuo cervello e poi rimetterlo insieme in modi cui tu non avevi mai pensato.

Era meglio della religione, o forse era proprio quello che la gente intendeva con il termine religione! Il punto era che funzionava! La gente diceva: «Credi in Dio», «Sii buono», «Fa’ bene a scuola», «Compra questo», «Vota per me», o cose del genere, ma niente funzionava come queste sostanze, niente, assolutamente niente, ti faceva sentire fottutamente libero come queste sostanze. Loro erano la verità. Tutto il resto era menzogna.

In quel giorno, in quel pomeriggio, nel lasso di tempo di quella seconda sigaretta, ebbe inizio la mia carriera di semidrogato. Fu proprio durante quel primo virginale assalto di tossine al cervello che cominciai a diventare quello che sono adesso. Finalmente mi si aprirono gli occhi sul mio vero essere. Verità e rivelazione. Cosa succede? Cosa accade realmente? Come cazzo funziona?

Eccola qui, la catechesi del giornalista, la frottola di chi racconta sempre la verità, che vive e si perpetua in qualunque appunto o articolo che leggi, scrivi, o soltanto immagini. COME CAZZO FUNZIONA?

Basta così.

Senza altre cerimonie, gettammo i mozziconi delle sigarette nell’oscurità della presa d’aria. Tornammo verso la casa. Andy, davanti a noi di qualche passo, ci lanciò una sfida e noi, urlando e protestando, lo inseguimmo per l’ultimo centinaio di metri, attraversando di volata il prato e il porticato dal fondo ghiaioso.

Giunti senza fiato nel salone principale, tutti dichiarammo solennemente che l’esperimento alla vecchia presa d’aria era stato un insuccesso… Ma dentro di me sapevo che non era così.

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