Il piccolo motoscafo gira intorno all’isola bassa, coperta da rocce scure e da rovi, con qualche albero qui e là, soprattutto frassini e betulle. Tra i cespugli e gli alberi s’intravedono muri grigio-neri, costruzioni diroccate senza tetto, monumenti funebri e pietre tombali inclinate, il tutto assediato da un mare di felci tendenti al fulvo e di erba ingiallita coperta dalle foglie marroni cadute dagli alberi. Un cielo grigio piombo incombe su di noi.
In questo punto — tra le colline basse e spoglie in prossimità del mare — il Loch Bruc si restringe fino a un centinaio di metri di larghezza e la piccola isola-cimitero occupa quasi per intero questo restringimento del lago.
William avvia il motore, e il motoscafo parte, impennandosi verso la piccola rampa che scende nell’acqua calma e scura. Le pietre della gettata sembrano molto vecchie. Sono di misura irregolare, quasi tutte molto grandi; alla superficie estremamente liscia e levigata sono attaccati anelli di ferro consumati dal tempo, sistemati in piccole cavità circolari. Sulla spiaggia alle nostre spalle c’è una rampa identica, proprio in fondo a un sentiero che passa tra gli alberi e i prati infestati da erbacce.
«Eilean Dubh, l’isola oscura», annuncia William, lasciando che la barca, trascinata dalla corrente, si avvicini alla rampa. «L’antico luogo di sepoltura della mia famiglia… da parte di madre.» Si volta verso le colline che digradano dolcemente verso il lago e le montagne, più alte e più ripide, a nord. «Questo posto apparteneva quasi interamente a loro.»
«Prima o dopo la cacciata dei contadini?» chiedo.
«Prima e dopo», risponde lui, ridendo.
Andy beve un sorso di whisky dalla fiaschetta. Me ne offre un po’; accetto. Andy fa schioccare le labbra e si guarda intorno, dà l’impressione che stia assaporando il silenzio. «Bel posto.»
«Per un cimitero», completa Yvonne. Ha l’aria corrucciata e infreddolita, sebbene abbia indosso il piumino e i guanti di Goretex.
«Ma sì», intervengo, imitando l’accento americano. «È piuttosto malinconico come cimitero, non ti pare, Bill, vecchio mio? Non potresti cercare di ravvivarlo un po’? Qualche bel neon sulle tombe, ologrammi parlanti dei defunti e, perché no?, una bella bancarella di fiori, con mazzi molto chic ma rigorosamente di plastica. Un ‘trenino degli spiriti’ per i più piccoli, ‘necroburger’ fatti con vera carne di morto e serviti in vassoietti di polistirolo a forma di bara, e poi giri dell’isola sulla zattera funebre usata in quel film A Venezia… un dicembre rosso shocking.»
«Che combinazione!» esclama William, gettando indietro i capelli biondi e sporgendosi per allontanare la barca dalle pareti di pietra del molo. «Quando ero giovane, organizzavo gite in barca dall’albergo a qui.» Getta un paio di parabordi di plastica oltre il parapetto per proteggere l’imbarcazione, poi sale sul molo, reggendo la cima da ormeggio.
«E i locali la prendevano bene?» chiede Andy, alzandosi per avvicinare la poppa del motoscafo all’attracco.
William si dà una grattatina in testa. «Veramente no.» Assicura la cima a uno degli anelli di ferro. «Un giorno è arrivato un funerale mentre noi stavamo facendo un barbecue. C’è stata un po’ di maretta.»
«Vuoi dire che questo posto è ancora in uso?» chiede Yvonne, accettando la mano che William le porge e facendosi issare sul molo. Poi scuote la testa con aria di disapprovazione e si guarda intorno.
«Be’, sì», ammette William, mentre Andy e io scendiamo dalla barca, un po’ malfermi sulle gambe. Già al nostro risveglio (avvenuto intorno a mezzogiorno, in casa dei genitori di William, che sorge a un’estremità del lago) non eravamo del tutto sobri; durante i venti chilometri sul lago, poi, non abbiamo fatto altro che bere whisky, prima dalla mia fiaschetta, poi dalla sua. «Voglio dire», prosegue, sbattendo le braccia come fossero ali, «ecco il motivo per cui volevo che voi vedeste questo posto. Desidero essere sepolto qui», conclude, rivolgendo un sorriso beato a sua moglie. «E anche tu, Occhioni Blu, se vuoi.»
Yvonne lo fissa a bocca aperta.
«Potremmo farci seppellire insieme», annuncia William, tutto allegro.
Yvonne aggrotta la fronte, assumendo un’espressione severa, e ci passa davanti, diretta verso l’isola. «Vorresti stare sopra tu, come al solito.»
William scoppia in una risata fragorosa, poi diventa serio di colpo; seguiamo Yvonne che si è diretta verso la cappella diroccata. «Volevo dire a fianco a fianco», spiega poi con voce lamentosa.
Andy, intento a riavvitare il tappo della fiaschetta, ridacchia. Ha un’aria patita e sembra ingobbito. Questa gita sulla costa occidentale è stata una mia idea. Mi sono autoinvitato, insieme ad Andy, per un weekend lungo con Yvonne e William nella casa dei genitori di quest’ultimo, e l’ho fatto non tanto per mio divertimento — divento geloso quando sto con Yvonne e William e loro non fanno altro che ridere e scherzare — quanto perché è stata la prima proposta che Andy non abbia immediatamente rifiutato. Clare è morta da sei mesi e, a parte il mese passato a Londra tra un nightclub e l’altro (mese che sembra averlo lasciato ancora più depresso e certamente in peggiori condizioni, sia di salute sia finanziarie), da allora non si è più allontanato da Strathspeld. Ho tentato almeno una dozzina di volte di portarlo via dalla tenuta dei suoi per qualche giorno, ma questa è l’unica gita che abbia suscitato in lui un minimo d’interesse.
Penso che ad Andy piaccia Yvonne e che sia morbosamente affascinato da William. Quest’ultimo ha passato buona parte del viaggio a descriverci la sua politica d’investimenti «non-etici», la quale consiste nell’investire deliberatamente nel commercio di armi, nelle manifatture di tabacco, nelle industrie minerarie e nelle ditte di legname che depredano le foreste tropicali. La sua teoria è semplice: se gli investimenti validi ma eticamente corretti si stanno estinguendo, allora bisogna impegnarsi in quegli investimenti validi ed eticamente rivoltanti che stanno prendendo il loro posto. Mi pareva scontato che William stesse scherzando; Yvonne, dal canto suo, faceva finta di non ascoltare; Andy invece sembrava prenderlo piuttosto sul serio, e, data la reazione compiaciuta di William, mi è venuto il dubbio che, forse, dopotutto, non stesse affatto scherzando.
Camminiamo tra le sepolture risalenti a epoche diverse; alcune hanno solo un paio d’anni, molte risalgono al secolo scorso, altre al XVI e al XVII secolo; altre ancora sono state completamente erose dagli agenti atmosferici, e il testo inciso non è che un’ombra sulla pietra. Certe lapidi sono soltanto lastre piatte, di forma irregolare; se i poveri (impossibilitati a pagare uno scalpellino) avessero saputo scrivere e avessero quindi inciso il nome dei loro cari e le date, allora lettere e numeri non sarebbero probabilmente stati che semplici graffi sulla pietra. Così almeno sembra.
Mi fermo a osservare alcune lastre tombali alte e piatte, piantate verticalmente nel terreno; su di esse sono state incise crude raffigurazioni di scheletri, ma si scorgono anche teschi, falci, clessidre e ossa incrociate. La maggior parte delle tombe è coperta da una triste proliferazione di licheni e di muschi grigi, neri e verdi.
Un paio di lotti familiari, che appartengono ovviamente ai benestanti, sono recintati con muretti bassi: qui ci sono le lapidi più imponenti, di marmo e di granito: se non sono state già ricoperte dai rovi, svettano con una certa fierezza. Posati a fianco delle tombe più recenti scorgo piccoli mazzi di fiori avvolti nel cellophane; di fronte a molte di esse ci sono anche piccoli vasi di granito, riparati da coperchi di metallo forato che li rendono simili a gigantesche saliere; in un paio di vasi s’intravedono alcuni fiori morti e scoloriti.
Le pareti diroccate della cappella arrivano a malapena all’altezza delle spalle. A un’estremità, sotto un muro sormontato da un timpano che ha in cima un’apertura simile a una finestrella (è probabile che un tempo ci fosse appesa una campana), c’è un altare, composto semplicemente da tre lastre di pietra. Posata sull’altare, c’è un’annerita campana di metallo, coperta in vari punti da macchie di ossido verdastro e assicurata con una catena alla parete. Assomiglia molto a un vecchio campanaccio da mucca svizzera.
«Pare che qualcuno, negli anni ’60, abbia spaccato la vecchia campana», ci ha spiegato William ieri sera, mentre giocavamo a carte e bevevamo whisky nel salotto della casa dei suoi. Stavamo progettando di andare con il motoscafo all’isola oscura. «Dovevano essere studenti di Oxford; comunque, a sentire la gente del posto, da allora quei ragazzi non hanno più dormito, perché continuavano a sentire un suono di campane. Infine, quando non ce l’hanno più fatta a sopportarlo, sono tornati sull’isola e hanno rimpiazzato la campana rotta; da quel momento, tutto è tornato normale.»
«È soltanto un cumulo di sciocchezze», ha detto Yvonne. «Due.»
«Due», ha ripetuto William. «Probabilmente sì.»
«Oh, non saprei», è intervenuto Andy, scuotendo la testa. «Questa storia mi fa venire i brividi. Una, per favore. Grazie.»
«A me sembrano stupidaggini», ho aggiunto. «Tre. Grazie.»
«Il banco ne prende due», ha detto William. «Oh, che schifo di carte…»
Afferro la vecchia campana e la faccio suonare una volta: produce un suono piatto, vuoto, adatto a un funerale. La poso con cautela sull’altare di pietra e mi guardo intorno, osservando la striscia di lago chiusa dalle montagne e, sopra di esse, le nuvole.
Silenzio. Non un uccello, niente vento, nessuno che parla. Mi volto lentamente, facendo un giro completo su me stesso, osservando le nuvole. Penso che questo sia il posto più tranquillo in cui sia mai stato.
Mi avvio tra le piccole lapidi, fredde e graffiate, e trovo Yvonne che sta fissando a occhi spalancati un’alta pietra tombale. Euphemia McTeish, 1803-1822, e i suoi cinque bambini. Morta di parto. Suo marito è morto vent’anni dopo.
Andy si avvicina a noi, bevendo dalla sua fiaschetta; sorride e scuote la testa. Fa un cenno verso il punto in cui si trova William; è salito sul muro della cappella e sta scrutando il lago con un piccolo binocolo. «Voleva costruire una casa qui», dice Andy. E scuote ancora la testa.
«Cosa?» esclama Yvonne.
«Qui?» ripeto. «In un cimitero? È pazzo? Non ha letto Stephen King?»
Yvonne, gelida, osserva il marito. «Parlava di costruire una casa quassù, ma non sapevo che intendesse… proprio qui.» Distoglie lo sguardo.
«Ha cercato di convincere le autorità locali proponendo loro una fornitura di computer… Un vero affare», spiega Andy, ridacchiando. «Ma non ci sono stati. Per il momento, si è dovuto accontentare del permesso di essere sepolto qui.»
Yvonne si scuote. «Il che potrebbe accadere molto prima di quanto si aspetti», dice, avviandosi a passi decisi verso la cappella. William sta guardando giù, verso l’interno dell’edificio, e scuote la testa.
È una giornata mite, ma piove forte; la pioggia cade fitta dal cielo color piombo, continua e penetrante, picchiettando forte sull’erba, sui cespugli e sugli alberi intorno a noi.
La salma di William riposa nel terreno grasso e torboso dell’isola oscura. Secondo il rapporto del coroner, William è stato colpito alla nuca, ha perso i sensi ed è morto per soffocamento.
Yvonne, pallida e bellissima in un abito nero e con il viso velato, ringrazia con brevi cenni della testa i presenti per le loro affettuose parole, e mormora qualcosa. La pioggia batte sul mio ombrello. Lei mi rivolge un’occhiata, incontrando il mio sguardo per la prima volta da quando sono qui. Ho fatto appena in tempo: avevo un appuntamento all’ospedale per questa mattina — altri esami — e ho dovuto attraversare tutto il Paese, prima fino a Rannoch, e poi verso la costa occidentale. Ma ci sono arrivato, sono arrivato a casa dei Sorrell, ho salutato il padre e il fratello di William, ho visto Yvonne per un attimo, però non ho avuto occasione di parlarle; quindi è arrivato il momento di mettersi in marcia, lungo la strada che gira intorno alle montagne, scende verso la punta estrema del lago e verso l’albergo, s’inerpica per il sentiero fino all’approdo, posto esattamente di fronte a Eilean Dubh, dove due piccole barche ci hanno traghettati. La seconda portava la bara.
Per via della pioggia, la cerimonia officiata dal sacerdote è breve; quando il reverendo ha finito, c’incolonniamo verso il molo, in attesa che la barchetta a remi ci riporti a quattro per volta sulla terraferma; Yvonne rimane immobile sulle vecchie pietre del molo rese lisce dal tempo e riceve le condoglianze degli altri ospiti. Mi fermo a guardarla. Siamo tutti un po’ ridicoli perché, oltre agli abiti neri molto formali, indossiamo stivali di gomma — qualche paio è nero, ma i più sono verdi — per affrontare l’erba infangata dell’isola. Yvonne riesce a sembrare sexy e dignitosa anche con quelli. Ma, forse, sono soltanto io a pensarlo.
Sono state giornate strane: tornare al lavoro, cercare di riprendere il filo, affrontare un lungo e commovente colloquio con un Eddie molto comprensivo, ricevere le pacche imbarazzate e i «facevamo tutti il tifo per te» dei colleghi e scoprire che Frank mi aveva preparato una divertente raccolta di variazioni del controllo ortografico su alcune località scozzesi. Mi sono trasferito momentaneamente a Leith, a casa di Al e della moglie, perché la polizia tiene sotto controllo il mio appartamento. Di Andy, però, nessuna traccia.
Nel frattempo sono andato dal medico, che mi ha mandato a fare diversi esami al Royal Infirmary. Nessuno ha ancora pronunciato la parola impronunciabile, ma all’improvviso mi sono sentito vulnerabile e mortale, e persino vecchio. Ho smesso di fumare. (Be’, Al e io ci siamo fumati un po’ di roba l’altra sera, in onore dei vecchi tempi, ma non si trattava di tabacco.)
Tossisco ancora molto e, ogni tanto, mi viene la nausea; da quel pomeriggio in cui abbiamo trovato il corpo di William, però, non ho più tossito sangue.
Mentre aspetto di tornare a terra sulla piccola barca, stringo la mano a Yvonne. La sottile trama nera del velo, spruzzato di minuscoli puntini neri, la rende al contempo misteriosamente lontana e apertamente seducente, pioggia o non pioggia, stivali o non stivali.
Attraverso gli alberi, sulla terraferma, vedo e sento le macchine che fanno manovra e si allontanano sobbalzando lungo il sentiero che porta al paese e passa davanti all’albergo. La tradizione vuole che Yvonne, in quanto moglie del defunto, sia l’ultima a salire sulla barca; un po’ come il capitano che abbandona per ultimo la nave che affonda, immagino.
«Stai bene?» mi chiede, socchiudendo gli occhi.
«Sopravvivo. E tu?»
«Lo stesso», risponde. Sembra infreddolita, e più piccola. Ho una gran voglia di prenderla tra le braccia e di stringerla forte. Sento le lacrime che mi pungono gli occhi. «Ho deciso di vendere la casa», mi spiega, abbassando brevemente lo sguardo, e sbattendo le lunghe ciglia nere. «La società sta per aprire un ufficio a Francoforte. Farò parte dello staff.»
«Ah.» Annuisco, e non so cosa dire.
«Ti scriverò per comunicarti il mio indirizzo, una volta sistemata.»
«Bene. Perfetto. Okay.» Annuisco ancora. Si sente uno sciabordio dietro di me, e poi un piccolo tonfo. «Bene. Se ti capitasse di venire a Edimburgo…»
Lei scuote la testa e distoglie lo sguardo, poi mi rivolge un sorriso coraggioso e china la testa di lato. «La tua barca, Cameron.»
Me ne resto lì, continuando ad annuire come un idiota; vorrei tanto dire la cosa giusta — ci deve pur essere! — per rovesciare la situazione, per creare un lieto fine — per me, per noi —, tuttavia so che è impossibile, e rimango lì ad annuire come uno stupido, con le labbra strette tra i denti, incapace di guardarla negli occhi e consapevole che questa è la fine… Fino a quando lei non mi dà il colpo di grazia: mi porge una mano e dice, con dolcezza: «Addio, Cameron».
Annuisco e le stringo la mano; dopo un po’ riesco anche a far funzionare la bocca e a dirle: «Addio».
Stringo la sua mano per l’ultima volta, solo per un attimo.
L’albergo, che si trova all’estremità del lago, è pieno di animali imbalsamati: pesci conservati in bacheche di vetro, aquile, gatti selvatici e lontre dall’aspetto rognoso. Non conosco molte persone e mi pare che Yvonne mi eviti. Bevo un whisky, mangio qualche sandwich e me ne vado.
La pioggia continua, torrenziale; il tergicristalli va alla massima velocità, ma anche così la contrasta a malapena. L’umidità che si sprigiona dall’ombrello e dal cappotto sul sedile posteriore sta combattendo una battaglia ad armi pari con il riscaldamento e lo sbrinatore.
Ho percorso circa venti chilometri sulla strada a un’unica corsia che gira intorno alla montagna, quando il motore comincia ad avere problemi. Do un’occhiata al cruscotto: il serbatoio è mezzo pieno, nessuna spia accesa.
«Oh, no», gemo. «Su, bella, su, non mi piantare proprio adesso! Su, su.» Do qualche colpetto sul cruscotto, come per incoraggiarla. «Su, su…»
Sto per affrontare un tratto di strada in leggera salita che attraversa un vivaio della Forestale, quando il motore si esibisce in una passabile imitazione di me stesso al risveglio, tossisce per un po’, sputacchia… e poi muore.
Arrivo per inerzia a una piazzola, e lì mi fermo del tutto. «Oh, Cristo… Merda!» urlo, dando una manata sul cruscotto. Mi sento uno stupido.
La pioggia fa un rumore di mitragliatrice sul tetto.
Cerco di far ripartire il motore, ma questo si limita a dare un altro colpo di tosse.
Tiro la levetta che apre il cofano, mi metto il cappotto, prendo l’ombrello fradicio e scendo.
Il motore emette una scarica di ticchettii metallici e argentini. Dal collettore di scarico, dove cadono le gocce di pioggia, si alzano sottili fili di vapore. Controllo le candele e cerco un guaio molto evidente, tipo un filo staccato. Ma non trovo niente. (Nessuno, a quanto ne so, ha mai scoperto in situazioni del genere un guaio molto evidente.) Sento il rumore di un’auto, sbircio da dietro il cofano alzato e vedo una macchina che sta procedendo nella mia stessa direzione. Non so se arrischiarmi a fare un gesto oppure no. Decido di limitarmi a un’occhiata implorante. È una Micra mezza scassata. Al volante c’è un uomo.
Mi lampeggia e si ferma un po’ più avanti.
«Salve», dico, mentre lui apre la portiera e scende, infilandosi una giacca a vento e un cappello da cacciatore. Ha i capelli e la barba rossi. «Si è fermata improvvisamente», gli spiego. «Benzina ce n’è, ma si è spenta. Forse è colpa della pioggia…» Lascio la frase in sospeso perché improvvisamente penso: Cristo, potrebbe essere lui. Potrebbe essere Andy, potrebbe essere lui, travestito, che è venuto qui per me.
Che cosa sto facendo? Perché non ho aperto il bagagliaio e non ho preso il cric, quando la macchina si è fermata? Perché non ho con me una mazza da baseball, una bomboletta di gas paralizzante, un qualcosa? Lo fisso e penso: È lui. È lui. È dell’altezza giusta, ha la corporatura giusta. Fisso le sue guance, la barba rossa, cercando d’individuare un punto di giunzione, una traccia di colla.
«Eh, sì», borbotta, infilandosi le mani nelle tasche della giacca e voltandosi a guardare la strada. «Ha dello spray per contatti elettrici, amico?» Fa un cenno con la testa in direzione del motore. «Sembra proprio che ce ne sia bisogno», prosegue.
Continuo a fissarlo, con il cuore che batte all’impazzata. Ho un rumore assordante nella testa, e quasi non riesco a sentire che cosa dice. La voce non sembra la sua, ma Andy è sempre stato bravo a imitare accenti diversi. Il mio stomaco è un pezzo di ghiaccio e mi sembra che le gambe stiano per cedere da un momento all’altro. Continuo a fissarlo. Oh Cristo, Cristo, Cristo! Mi metterei a correre, però le gambe si rifiutano di muoversi. Comunque lui è sempre stato più veloce di me.
Mi scruta, aggrottando la fronte. D’un tratto ho la sensazione di avere un tubo davanti agli occhi: riesco soltanto a vedere la sua faccia, i suoi occhi, i suoi occhi, sono del colore giusto, hanno la forma giusta… Poi, all’improvviso, lui cambia, sembra raddrizzarsi, rilassarsi e, con una voce che riconosco, dice: «Ah, molto perspicace, Cameron».
Non vedo con che cosa mi colpisce; percepisco solo il braccio che ruota verso di me, veloce, appena visibile, simile a una serpe che attacca. Il colpo mi arriva sopra l’orecchio destro e mi fa stramazzare in una galassia di stelle tremolanti. Sento un brontolio sordo, come se stessi precipitando verso un’enorme cascata. Mentre cado, mi volto, crollo sul motore, però non mi faccio male, e scivolo, scivolo giù, cado nelle pozzanghere, picchio sull’asfalto… ma non sento dolore, neppure questa volta.
Oh, Dio mio, aiutami tu qui sull’isola dei morti fra le urla di chi soffre, qui nella casa dell’angelo della morte sommerso dall’odore acre degli escrementi e delle carogne che mi riporta nell’oscurità fino alla debole luce rossastra del luogo in cui non avrei mai voluto tornare, in quel nero inferno terreno costruito dall’uomo e in quel parco rottami umano lungo chilometri e chilometri. Quaggiù tra i morti, in mezzo alle anime tormentate e alle loro urla feroci e inumane, qui con il traghettatore, il battelliere, gli occhi coperti e il cervello in tumulto, qui con questo principe delle tenebre, questo profeta di rappresaglie, questo figlio geloso, vendicativo, implacabile del nostro regno di avidità, aiutami, aiutami, aiutami…
La testa mi fa male da impazzire, l’udito è come… annebbiato. Non è il termine adatto, ma è proprio così. Gli occhi chiusi. Prima erano chiusi con qualcosa, da qualcosa, ma ora non più, almeno non mi sembra. Percepisco una luce oltre le palpebre. Sono sdraiato su un fianco sopra qualcosa di duro, gelido e polveroso. Ho freddo, ho le mani e i piedi legati con una corda o con del nastro adesivo. Continuo a tremare, non riesco a controllarmi, sfrego con una guancia sul pavimento gelido e ruvido. Ho un cattivo gusto in bocca. L’aria ha un odore pungente e sento…
Sento i morti, sento le loro anime scorticate che gemono nel vento; nessuno le può udire a parte me, nessuno le può capire. La luce dietro le palpebre passa dal rosa al rosso al porpora fino al nero, ed è accompagnata da un brontolio che cresce fino a diventare un rumore violento e assordante che scuote la terra, riempie l’aria, martella le ossa; il buio diventa ancora più buio, un inferno nero e fetido, mamma papà oh no vi prego non riportatemi laggiù.
E sono qui, nell’unico luogo che ho sempre continuato a nascondere persino a me stesso: non penso a quel giorno freddo vicino al buco nel ghiaccio, né a quell’altro giorno nel bosco soleggiato vicino al buco nella collina — giorni che posso rinnegare perché ero io, ma non ero ancora la persona che sono diventato —, ma a quel giorno di diciotto mesi fa, il giorno del mio fallimento e della mia semplice, vergognosa incapacità di cogliere e di sfruttare la terribile forza di ciò che avevo davanti agli occhi, il luogo che ha messo a nudo la mia incompetenza, la mia assoluta inadeguatezza al ruolo di testimone.
Perché ero là, ne facevo parte, solo un anno e mezzo fa, dopo mesi e mesi di assillanti richieste, di blandizie e di moine a Sir Andrew, finalmente avevo avuto il permesso di andare; allo scadere dell’ultimatum, quando i camion, i cingolati e i carri armati erano pronti a partire, finalmente ottenni quello che volevo, ottenni di andare, mi fu data la possibilità di compiere il mio lavoro e di dimostrare di che stoffa ero fatto, la possibilità di essere un vero giornalista in prima linea, un vero corrispondente di guerra, un vero gonzo, drogato alcolizzato, edonista, che applicava la maniacale soggettività del benedetto sant’Hunter all’estremo capolavoro del terrore umano: la guerra moderna.
E, a parte il fatto che c’era poco da bere e che l’evento, coperto dai media in maniera meschinamente faziosa, si era svolto quasi interamente lontano da qualsiasi giornalista, gonzo o no, quando venne il momento — e il momento venne, ebbi la mia occasione, me la trovai praticamente davanti agli occhi che mi urlava di scrivere qualcosa — feci fiasco, non riuscii a sfruttarla come giornalista; rimasi lì, paralizzato dall’orrore e in preda al panico, schiacciato dalla sua forza spaventosa, affrontando quella forza non con la mia persona professionale, non con le mie capacità, non con la maschera messa a punto per affrontare il mare di maschere che compongono il mondo, ma con la mia privata umanità, inadeguata e impreparata.
E ne uscii umiliato, sminuito, ridimensionato.
In mezzo a un deserto senza sole, sotto un cielo nero da orizzonte a orizzonte, un cielo denso di pesanti volute sulfuree, reso solido e immondo, invaso dagli effluvi oleosi e puzzolenti che eruttavano dalle viscere violate della terra, in quel buio di mezzogiorno, in quel disastro deliberato e pianificato, con quel bagliore da palla di fuoco che s’irradiava dai pozzi incendiati e che guizzava in lontananza con una fiamma sporca e sgocciolante, io, intontito e ammutolito, riuscii a rendermi conto del nostro ingegnoso e sconfinato talento per l’odio sanguinario e per la folle rovina, ma mi trovai privo degli strumenti per descrivere e trasmettere questa rivelazione.
Accucciato sulla sabbia violata, appiccicosa e nera come l’asfalto, a poca distanza da uno dei pozzi distrutti, ero rimasto a osservare il moncone spezzato di metallo nero al centro del cratere che eruttava un getto compresso di petrolio e gas con spruzzi rapidi, frementi, che immediatamente si frantumavano in bolle di pulviscolo marrone-nerastro, ingoiate dalla furiosa e urlante torre di fuoco: un lurido cipresso di fiamme alto un centinaio di metri, che scuoteva la terra come un interminabile terremoto e mugghiava folle e stridulo come il motore di un jet, squassandomi le ossa, facendomi battere i denti e vibrare gli occhi nelle orbite.
Il mio corpo tremava, le orecchie mi scoppiavano, mi bruciavano gli occhi e avevo la gola in fiamme per l’odore acre del greggio che evaporava, ma fu come se la ferocia stessa dell’esperienza mi avesse disarmato, indebolito e reso incapace di raccontarla.
Più tardi, sulla strada per Bassora, su quell’interminabile continuum di carneficine, su quella striscia ininterrotta di distruzione e di rovina che si estendeva, anch’essa, da un orizzonte all’altro, vagai tra le carcasse bruciate e mitragliate di macchine, furgoni, camion e autobus, vittime inermi di A10, Cobra e TOW, dell’artiglieria leggera, dei cannoni da trenta millimetri e delle bombe a grappolo. Vidi il metallo annerito, con soltanto qualche chiazza di vernice sporca e gonfia per il calore, i telai dilaniati e gli abitacoli squarciati di Honda, Nissan, Leyland e Mack, con i pneumatici a terra oppure scomparsi, distrutti, bruciati fino alle tele di acciaio; contemplai i frammenti di quella rovina collettiva sparpagliati sulla sabbia, e cercai d’immaginarmi che cosa era stato trovarsi lì, sconfitti, in rotta, fuggendo disperati su inermi veicoli civili, mentre i missili e le granate piovevano come una grandine supersonica e il fuoco eruttava tuonando tutto intorno. Cercai anche d’immaginarmi quante persone fossero morte lì, quanti corpi fossero stati dilaniati e carbonizzati e quanti brandelli umani fossero stati chiusi nei sacchi, portati via e seppelliti dalle squadre prima che a noi fosse permesso di vedere l’icona di quell’interminabile giorno di massacro.
Per qualche tempo, rimasi seduto su una piccola duna, a una cinquantina di metri dalla striscia di asfalto divelta e gonfia, e cercai di capire. Avevo il laptop aperto sulle ginocchia, lo schermo rifletteva il cielo nero sopra di me, il cursore lampeggiava lento nell’angolo superiore sinistro del display vuoto.
Dopo mezz’ora, non ero ancora riuscito a pensare a nulla che potesse descrivere la scena né le sensazioni che essa suscitava in me. Scossi la testa e mi alzai, voltandomi appena per spolverare il didietro dei calzoni.
Lo stivale, nero e carbonizzato, si trovava a un paio di metri di distanza, mezzo sepolto nella sabbia. Lo tirai su ed era sorprendentemente pesante; dentro c’era ancora il piede.
Arricciai il naso per il fetore e lo lasciai cadere, ma neanche questo riuscì a sbloccarmi, a rimettere in moto la mia mente.
Niente ci riuscì.
Dall’albergo spedii un pezzo banale e mediocre del genere «la guerra è un inferno, ma, da queste parti, anche la pace lo è, se sei femmina» e mi fumai un po’ di roba allucinogena molto potente procuratami da un affabile cameriere palestinese che — non appena i giornalisti se ne furono andati — venne arrestato dalle autorità kuwaitiane, torturato e deportato in Libano.
Quando tornai indietro, Sir Andrew mi disse che non era per niente soddisfatto degli articoli che avevo mandato; avrebbero benissimo potuto pubblicare i flash della Associated Press, spendendo molto meno e con lo stesso risultato. Non sapevo come ribattere e così me ne restai lì a subire la punizione verbale del vecchio per una buona mezz’ora. E, anche se sapevo che era sbagliato, ingiustificabile e che si trattava soltanto di un fiacco, spregevole esempio di boriosa autocommiserazione, per un po’, sotto quel raggelante diluvio di disprezzo professionale, mi sentii come se fossi stato anch’io intrappolato e polverizzato fra la sabbia e le ceneri unte della strada per Bassora.
Sento le urla dei morti al di sopra del boato dei pozzi contorti e ruggenti, sento l’odore del petrolio marrone nerastro, denso e nauseante e il fetore dolciastro della decomposizione; poi le urla si trasformano nel richiamo dei gabbiani, e l’odore diventa quello del mare, mescolato con quello acre del guano.
Sono ancora legato. Apro gli occhi.
Andy è seduto in terra di fronte a me, con la schiena appoggiata a una parete di cemento grezzo. Anche il pavimento è di cemento e così pure il soffitto. Alla sinistra di Andy c’è un’apertura, senza porta: soltanto una rozza via d’uscita verso l’esterno. Vedo altri edifici di cemento, tutti abbandonati, e una sottile torretta, striata di escrementi di gabbiani. Più oltre s’individuano onde irregolari con la cresta di schiuma bianca, e in lontananza si scorge una striscia di terra. Il vento soffia attraverso l’apertura, smuovendo sassolini e frammenti di vetro. Sento le onde che s’infrangono contro gli scogli. Sbatto le palpebre e guardo Andy.
Mi sorride.
Ho le mani legate dietro la schiena; le caviglie sono strette insieme con il nastro adesivo. Striscio verso il muro alle mie spalle e mi sollevo fino a ritrovarmi seduto. Ora vedo altra acqua, fuori, e altra terra. Una manciata di case in lontananza, un paio di boe che ballonzolano nell’acqua increspata dal vento e una piccola nave da trasporto che si allontana.
Ho un gusto orribile in bocca. Sbatto le palpebre, faccio per scuotere la testa, come per schiarirmela e allontanare la confusione, ma poi ci ripenso. Mi fa male da morire e pulsa.
«Come ti senti?» mi chiede.
«Da schifo. Cosa ti aspettavi?»
«Potrebbe essere peggio.»
«Oh, non ne dubito», mormoro. Sento molto freddo. Chiudo gli occhi e appoggio piano la testa contro il cemento gelido. Il cuore mi batte come se stesse pompando aria: troppo veloce e debole per spingere qualcosa di spesso come il sangue. Aria, penso. Cristo, mi ha iniettato aria nelle vene e sto per morire, con il cuore che sbatte schiuma e aria, il cervello che muore per mancanza di ossigeno, buon Dio, no… Ma passa un minuto e forse più e, anche se non mi sento troppo bene, non muoio. Apro di nuovo gli occhi.
Andy è sempre seduto davanti a me; indossa calzoni di velluto a coste marrone, un giubbotto mimetico e un paio di anfibi. C’è un grosso zaino in tessuto mimetico appoggiato contro il muro a circa un metro alla sua sinistra, e una bottiglia di acqua minerale mezza piena è posata in terra davanti a lui. Vicino alla mano destra tiene un telefono cellulare; vicino alla sinistra, una pistola. Non me ne intendo di pistole, quello che basta per sapere la differenza tra un revolver e un’automatica, ma credo di riconoscere quella pistola grigia; credo che sia la stessa che aveva quella notte, un paio di settimane dopo la morte di Clare, quando era deciso a vendicarsi con il dottor Halziel. Ora penso che forse avrei dovuto lasciarglielo fare.
Indosso gli stessi abiti che avevo quando mi ha rapito: vestito nero, ora tutto sporco e macchiato, e camicia bianca. Mi ha tolto la cravatta. L’impermeabile è appoggiato alla mia destra, accuratamente piegato, ma tutto sgualcito.
Andy allunga una gamba, e, con lo scarpone, sfiora la bottiglia di minerale. «Acqua?» chiede.
Annuisco. Si alza, toglie il tappo alla bottiglia e me l’avvicina alle labbra. Butto giù alcune sorsate, poi annuisco e lui l’allontana. Torna a sedersi dov’era.
Prende un proiettile dal giubbotto e comincia a rigirarlo tra le dita. Fa un respiro profondo, quasi un sospiro, e dice: «Allora, Cameron».
Cerco di mettermi comodo. Il cuore mi batte ancora molto forte e mi fa pulsare la testa, il mio stomaco minaccia di fare cose terribili e mi sento molto debole, però col cazzo che ho intenzione d’implorarlo. Probabilmente morirò comunque, qualsiasi cosa io faccia; a essere realistici, quando verrà il momento, lo implorerò come un bambino, ma per adesso tanto vale che faccia il duro.
«Dimmelo tu, Andy.» Cerco di mantenere un tono di voce neutrale. «Che succede adesso? Cos’hai in serbo per me?»
Fa una smorfia e scuote la testa, osservando con espressione corrucciata il proiettile che tiene in mano. «Oh, non ho intenzione di ucciderti, Cameron.»
Non posso farci niente: mi metto a ridere. Non è proprio una risata, è più un rantolo, ma serve a tirarmi su. «Ah, sì?» dico. «Neanche Halziel e Lingary dovevi ucciderli.»
Si stringe nelle spalle. «Quella era solo una tattica, Cameron», mormora, in tono pacato. «Quei due erano condannati da tempo.» Sorride, scuotendo la testa per la mia ingenuità.
Lo osservo. È sbarbato di fresco, in forma. Sembra più giovane di prima, molto più giovane; più giovane di quando è morta Clare.
«E allora, se non hai intenzione di uccidermi, cosa mi farai, Andy?» gli chiedo. «Eh? M’inietterai l’AIDS? Mi mozzerai le dita in modo che non possa più scrivere a macchina?» Faccio una pausa. «Spero che tu abbia preso in considerazione le avanzate tecniche computerizzate di riconoscimento vocale, le quali rendono la scrittura senza tastiera una possibilità molto reale in un prossimo futuro.»
Andy ride, ma senza calore. «Non ho intenzione di farti del male, Cameron, e neanche di ucciderti, ma ho bisogno di una cosa da te.»
Fisso le caviglie legate insieme con il nastro. «Cioè?»
Abbassa lo sguardo sul proiettile che tiene fra le dita. «Voglio che tu mi ascolti», dice con calma. Sembra quasi in imbarazzo. Alza le spalle e mi fissa dritto negli occhi. «Soltanto questo, davvero.»
«Okay.» Fletto le spalle con una smorfia di dolore. «Potrei ascoltarti con le mani slegate?»
Andy sporge le labbra in avanti, poi annuisce. Da uno stivale estrae un lungo coltello: sembra un sottile coltello da caccia. La lama è molto lucida. Si accuccia di fianco a me, io mi giro e il coltello taglia senza sforzo il nastro. Strappo via il resto, e con esso anche alcuni peli. Mi formicolano le mani. Guardo l’orologio.
«Cristo, con quanta forza mi hai colpito?»
Sono le nove e mezzo del mattino del giorno dopo il funerale.
«Non tanto forte», risponde. «Ti ho tenuto a bada con l’etere per un po’, e poi hai dormito.»
Torna a sedersi dov’era, infilando nuovamente il coltello nello stivale. Allungo una mano e mi sporgo di lato, per guardare fuori dell’apertura. Socchiudo gli occhi per vedere meglio.
«Cristo! Ma quello è il Forth Bridge!» In un certo senso è un sollievo vedere il ponte e sapere che casa mia è a pochi chilometri di distanza.
«Siamo su Inchmickery», spiega. «Al largo di Cramond.» Si guarda intorno. «In entrambe le guerre, sull’isola c’è stata una postazione di artiglieria pesante. Questi sono vecchi edifici militari.» Sorride di nuovo. «Ogni tanto arriva qualche velista in cerca di avventure, ma ci sono un paio di nascondigli molto sicuri che è difficile scoprire.» Dà qualche colpetto sulla parete dietro di lui. «È una buona base, dato che non posso più stare nell’albergo. Intendiamoci, si trova sotto il corridoio di volo che porta all’aeroporto e immagino che quelli della sicurezza verranno a darci un’occhiata prima dell’Eurosummit, quindi, in un modo o nell’altro, oggi me la squaglio.»
Annuisco, cercando di riflettere su quanto ha detto. Non mi piace quel «in un modo o nell’altro». «Ricordo male, o mi hai portato qui in barca?» gli chiedo.
Si mette a ridere. «Be’, l’elicottero non ce l’ho ancora. Sì, era un gommone.»
«Hmm.»
Guarda a destra e poi a sinistra, come se volesse accertarsi che il telefono e la pistola ci sono ancora. «Allora, sei comodo?» mi chiede.
«Be’, no, ma non te ne fare un cruccio.»
Mi rivolge un sorriso fugace. «Più tardi ti darò una possibilità di scelta, Cameron», dice in tono calmo e con la massima serietà. «Ma prima voglio spiegarti perché ho fatto tutte quelle cose.»
«Ah.» Avrei voglia di dirgli: «Be’, sai, è del tutto ovvio perché le hai fatte», ma invece tengo la bocca chiusa.
«Ovviamente, è stato Lingary a darmi il via», dice Andy, e mi appare ancora più giovane, mentre si guarda le mani che giocherellano con il proiettile. «Voglio dire, avevo già incontrato individui degni soltanto di essere disprezzati, persone per le quali non nutri la minima stima e che ti fanno pensare a quanto sarebbe migliore il mondo senza di loro. Non so, forse peccavo d’ingenuità, però mi aspettavo che in guerra, specialmente in un esercito di professionisti, le cose andassero meglio, che le persone superassero se stesse, elevandosi al di sopra della loro statura morale, capisci?»
Annuisco cautamente. E penso: statura morale?
«Invece non è così», riprende, rigirando fra le dita il proiettile di rame e di ottone. «La guerra è un amplificatore, un moltiplicatore. Le persone per bene si comportano ancora meglio, i bastardi diventano ancora più bastardi.» Agita una mano come per scacciare qualcosa d’invisibile. «Non sto parlando delle solite banalità su ciò che è male — il genocidio organizzato è un’altra cosa — parlo della guerra normale, di quella in cui bisogna obbedire alle regole. E la verità è che alcune persone superano se stesse, mentre altre cadono molto in basso. Non progrediscono, non si distinguono in combattimento, non riescono neppure a cavarsela alla meno peggio, come fanno i più, che hanno una paura fottuta eppure fanno il proprio dovere, perché sono stati addestrati bene e perché sanno che i loro compagni dipendono da loro; in questi individui affiorano tutti i difetti e le debolezze e, in alcune circostanze, se si tratta di un ufficiale — e se le sue mancanze sono di un certo tipo e se lui è arrivato a quella posizione senza mai trovarsi su un vero campo di battaglia — tali difetti possono portare alla morte di un sacco di uomini.
«Tutti noi, che ci piaccia o no, abbiamo le nostre responsabilità morali; però gli uomini che detengono il potere — militari, politici, professionisti — hanno responsabilità maggiori verso la società. Comunque, anche se le rifiutano, hanno l’obbligo di esibire un sostituto ufficialmente accettabile del loro senso di responsabilità: il senso del dovere. Ho attaccato persone che avevano abusato del loro potere; me ne sono preso… la responsabilità.»
Si stringe nelle spalle, aggrotta la fronte. «Con Oliver, il trafficante in materiali pornografici, la situazione era leggermente diversa; l’ho fatto un po’ per metterli fuori strada e un po’ perché disprezzavo quello che faceva.
«Quanto al giudice, be’, in fondo lui non era proprio colpevole come gli altri, e quindi con lui sono stato piuttosto clemente.
«Gli altri… erano tutti uomini potenti, ricchi, alcuni di loro molto ricchi. Avevano avuto tutto dalla vita, ma volevano ancora di più… Il che, immagino, è soltanto una debolezza: non si può ammazzare uno semplicemente per questo. Però trattavano la gente come fosse merda, letteralmente merda, qualcosa di sgradevole di cui sbarazzarsi. Era come se avessero dimenticato la loro umanità e non potessero più ritrovarla, e c’era un unico modo per ricordargliela, a loro e a tutti quelli come loro: farli sentire spaventati e vulnerabili, impotenti, esattamente come loro avevano fatto sentire gli altri.»
Alza il proiettile all’altezza degli occhi e lo ispeziona. «Ce n’era uno che non aveva ammazzato nessuno; sì, l’aveva fatto indirettamente, come la gran parte dei nazisti di Norimberga, però era certo, inconfutabile, al di là di ogni ragionevole dubbio.
«E poi c’era Halziel», dice, sospirando. «Be’, di lui sai tutto.»
«Cristo, Andy», mormoro. So che dovrei star zitto e lasciarlo parlare finché vuole, ma non posso farci niente. «Quell’uomo era un bastardo egoista e un pessimo medico, ma era un incompetente, non un criminale. Non è che lui odiasse Clare o desiderasse che…»
«Ma è proprio questo il punto», m’interrompe, allungando le mani in avanti. «Se un certo livello di abilità — di competenza — si traduce nella capacità di salvare una vita, allora, se non ti preoccupi di esercitare questa tua competenza commetti un crimine, perché la gente conta sul fatto che tu lo faccia. Comunque…» alza una mano per prevenire la mia obiezione, e annuisce, «ammetto che in quel caso c’è stata anche una certa dose di vendetta personale. Una volta sistemati tutti gli altri, ho capito che non mi restava più molto tempo per agire… tranquillamente, e mi è parsa la cosa giusta da fare.»
Solleva lo sguardo su di me, e mi rivolge un sorriso strano, quasi sorpreso. «Ti ho scioccato, vero, Cameron?»
Lo fisso negli occhi per un po’, quindi torno a scrutare l’apertura, l’acqua e le minuscole sagome degli uccelli che volano in cerchio, urlando. «No», gli rispondo. «Non più di quando mi sono reso conto che eri stato tu a infilzare Bissett in quel modo, che eri tu, quello che si nascondeva dietro alla maschera da gorilla e ancora tu, quello che ha carbonizzato Howie…»
«Howie non ha sofferto», taglia corto. «Prima gli ho sfondato la testa con un ceppo.» Sorride. «Probabilmente gli ho risparmiato un terribile postsbronza.»
Lo fisso sorpreso, disgustato e affranto per la noncuranza con cui quest’uomo, che ho sempre considerato come il mio miglior amico, sta parlando dei suoi delitti. Al momento tuttavia mi sento molto vulnerabile e a rischio io stesso, nonostante ciò che ha detto e benché mi abbia slegato le mani.
Andy capisce la mia espressione. «Era uno stronzo, Cameron.» Fa una pausa, guarda il soffitto. «No, non è il termine giusto, e poi questo è il modo in cui lui di solito chiamava le donne; diciamo che era un farabutto, una testa di cazzo, un violento, una prepotente e vendicativa testa di cazzo. In questi anni, a sua moglie aveva rotto la mascella, tutt’e due le braccia e una clavicola; le aveva incrinato il cranio e l’aveva presa a calci quando era incinta. Era un gran bastardo, punto e basta. Probabilmente da bambino era stato maltrattato — anche se non me l’ha mai detto —, ma ’fanculo, è per questo che siamo umani, per poter scegliere di modificare il nostro comportamento; lui non l’ha fatto da solo e così l’ho fatto io per lui.»
«Andy», sussurro, «esistono le leggi, i tribunali. Lo so che non sono perfetti, ma…»
«Ah, le leggi», ripete, con una voce carica di disprezzo. «Leggi basate su cosa? Con quale autorità?»
«Be’, che mi dici della democrazia, per esempio?»
«La democrazia? La possibilità di scegliere tra il marcio e la muffa ogni quattro o cinque anni, se va bene?»
«La democrazia non è questo! Non è solo questo. Significa una stampa libera…»
«E noi ce l’abbiamo, vero?» fa lui, con una risata amara. «Peccato che i giornali davvero liberi non vengano letti e che quelli che vengono letti non siano liberi. Lascia che ti citi: ‘Non sono giornali, sono fumetti per semilletterati, fogli di propaganda controllati da miliardari stranieri che vogliono soltanto guadagnare la maggior quantità di soldi tecnicamente possibile e mantenere uno scenario politico finalizzato a questo scopo’.»
«Va bene, lo ammetto. Ma è sempre meglio di niente.»
«Oh, lo so, Cameron», dice, appoggiandosi al muro con un’espressione vagamente scioccata per essere stato così frainteso. «Lo so. So bene come i potenti riescano a rimanere impuniti, e so anche che lo saranno sempre. Se la gente che essi sfruttano glielo permette, be’, peggio per lei. Ma non capisci?» Si batte il petto con un dito. «Questo comprende anche me! Ne faccio parte anch’io. Sono un prodotto del sistema. Sono un essere umano come gli altri, un po’ più ricco e intelligente della maggior parte degli uomini, e forse anche un po’ più fortunato, ma comunque faccio sempre parte dell’equazione, sono soltanto un’altra variabile prodotta dalla società.
«E così arrivo io e faccio quello che posso, perché mi sembra giusto farlo, perché sono come un uomo d’affari, capisci? Sono ancora un uomo d’affari: sto soddisfacendo un bisogno. Ho visto una nicchia vuota nel mercato e la sto riempiendo.»
«Aspetta, aspetta. Fermo», dico. «’Sta stronzata della nicchia del mercato non me la bevo proprio. La differenza fra la tua autorità e quella di chiunque altro è che tu sei tu; tu ti sei creato tutta questa… giustificazione logica da solo. Noialtri abbiamo dovuto stipulare un qualche patto, approdando a una sorta di accordo generale; tutti noi cerchiamo di raggiungere un compromesso perché questo è l’unico modo in cui le persone possono esistere, come comunità.»
Andy fa un quieto sorriso. «Sono i numeri a fare la differenza, eh, Cameron? Così, secondo te, quando le due più grandi nazioni della Terra — più di mezzo miliardo di persone — avevano una tale paura l’una dell’altra da essere pronte a far saltare in aria il mondo, erano nel giusto?» Scuote la testa. «Cameron, sarei pronto a scommettere che il numero di persone convinte che Elvis sia ancora vivo è superiore a quello degli individui disposti ad aderire a una qualsiasi forma di quell’umanesimo laico che tu ritieni essere l’Unica Vera Strada per i popoli della Terra. Inoltre ti dispiacerebbe spiegarmi quali vantaggi ci ha portato il tuo ‘accordo generale’?» Aggrotta la fronte, francamente perplesso.
«Ma dai, Cameron», riprende, con aria di rimprovero. «Li conosci i fatti, no? Il mondo produce… noi produciamo cibo a sufficienza per nutrire tutti i bambini che muoiono di fame, eppure un terzo di quei bambini questa sera andrà a letto senza aver mangiato. Ed è colpa nostra: la fame è causata dal fatto che i Paesi poveri hanno abbandonato le loro colture indigene per dedicarsi a prodotti da vendere nei supermercati per far felice la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale o la Barclays, per pagare i debiti contratti dai criminali assassini che li governano e che sono arrivati al potere ammazzando, e continuano ad ammazzare per restarvi, di solito con la connivenza e l’aiuto di una nazione del mondo ‘evoluto’.
«Potremmo avere subito qualcosa di decente… Non parlo di utopie, ma di un mondo-Stato abbastanza equo dove non esistono la malnutrizione e la diarrea cronica e dove nessuno muore di malattie banali come il morbillo. Se davvero lo volessimo, se non fossimo così avidi, razzisti, bigotti ed egocentrici, un mondo così potrebbe esistere. Senza contare che anche il nostro egocentrismo è ridicolo e stupido: sappiamo benissimo che il fumo uccide le persone, però lasciamo che i signori della droga della Philip Morris e dell’Imperial Tobacco uccidano milioni di persone, guadagnando così milioni di sterline. Le persone intelligenti e istruite come noi sanno che fumare uccide, però continuano lo stesso a fumare!»
«Ho smesso», gli annuncio, sulla difensiva, anche se sto morendo dalla voglia di una sigaretta.
«Cameron», dice, ridendo, ma con un tono di disperazione nella voce. «Non capisci? Ti sto dando ragione; ti ho sempre ascoltato tutti questi anni, e tu hai ragione: il XX secolo è la nostra maggiore opera d’arte e noi siamo ciò che abbiamo fatto e… guardaci!» Si passa una mano tra i capelli e sospira. «Il punto è che non c’è alcuna giustificazione plausibile per ciò che siamo, per ciò che abbiamo fatto di noi stessi. Abbiamo scelto di mettere il profitto davanti alle persone, il denaro davanti alla moralità, i dividendi davanti alle norme del vivere civile, il fanatismo davanti alla giustizia e i nostri banali comfort davanti agli indicibili dolori degli altri.»
Mi punta un dito contro e aggrotta la fronte. Annuisco, riconoscendo, seppur con riluttanza, ciò che io stesso ho scritto un po’ di tempo fa.
«E dunque», prosegue, «in questo clima di colpevolezza e di sovvertimento dei valori morali, niente, assolutamente niente di ciò che ho fatto è fuori luogo, contro natura, o sbagliato.»
Apro la bocca per parlare, ma lui mi ferma con un gesto della mano e dice, con un’espressione beffarda: «Insomma, Cameron, che dovevo fare? Aspettare che la rivoluzione del proletariato mettesse tutto a posto? Quella è come il giorno del giudizio: non arriva mai, cazzo! E io voglio giustizia. Adesso. Non voglio che ’sti bastardi muoiano di morte naturale.» Fa un sospiro e mi guarda con aria perplessa. «Allora, come sto andando Cameron? Pensi che sia pazzo, o cosa?»
Scuoto la testa. «No, non credo che tu sia pazzo, Andy. Hai torto, tutto qui.»
Annuisce lentamente, sempre osservando il proiettile che continua a rigirare tra le dita.
«Però hai ragione a proposito di una cosa», continuo. «Tu sei uno di loro. Forse, dopotutto, quel discorso della nicchia del mercato non è poi così assurdo. Ma una risposta malata a un sistema malato è davvero il meglio che possiamo fare? Tu sei convinto di combatterlo, e invece stai facendo come tutti gli altri. Ti hanno avvelenato, amico. Ti hanno strappato la speranza dall’anima e al suo posto ci hanno messo un odio insaziabile.»
«Hai detto ‘anima’, Cameron?» Sorride. «La stai buttando sul religioso?»
«No, intendevo dire il tuo nucleo, l’essenza di ciò che sei; ti hanno contagiato con la disperazione e mi dispiace che tu non veda soluzione migliore che uccidere la gente.»
«Neanche quando se lo merita?»
«No, Andy; non credo nella pena capitale.»
«Be’, loro sì», ribatte con un sospiro. «E anch’io, forse.»
«E la speranza? Ci credi, in quella?»
Assume un’espressione sprezzante. «E tu chi sei, Bill Clinton?» Scuote la testa. «Oh, lo so che al mondo esiste anche il bene, Cameron, come esistono la compassione e qualche legge giusta: ma sono circondati da un mondo di barbarie totale, galleggiano in un oceano di atrocità in grado di fare istantaneamente a pezzi una struttura sociale fragile come la nostra. È questa la conclusione, è questo il vero scenario in cui noi tutti ci muoviamo, anche se la maggior parte non sa o non vuole riconoscerlo, e quindi finisce con il perpetuarlo.
«Siamo tutti colpevoli, Cameron. Alcuni più di altri, sì, però non dirmi che non siamo tutti colpevoli.»
Resisto alla tentazione di dirgli: «Chi la sta buttando sul religioso, adesso?»
Invece gli chiedo: «Di che cosa era colpevole William?»
Andy aggrotta la fronte e distoglie lo sguardo. «Era tutto ciò che affermava di essere», dice, per la prima volta con una nota di amarezza nella voce. «Con William non si è trattato di una vendetta personale, come con Halziel o con Lingary: lui era uno di loro, Cameron. Pensava davvero quello che diceva, sai. Lo conoscevo meglio di te, per quanto riguardava le cose importanti, e, quando descriveva le sue ambizioni, era assolutamente serio. Voleva comprarsi un cavalierato, per esempio. Negli ultimi dieci anni aveva continuato a dare soldi ai conservatori — l’anno scorso ne ha dato anche ai laburisti, ma soltanto perché credeva che avrebbero vinto le elezioni — comunque erano dieci anni che versava ragguardevoli somme di denaro nelle casse dei Tories, sempre attento a calcolare quanto dovesse ‘donare’ un uomo d’affari di successo per assicurarsi un titolo. Una volta mi chiese quale attività benefica avrebbe fatto meglio a sostenere, sempre per lo stesso scopo: però ne voleva una che non incoraggiasse gli scrocconi.
«Era un progetto a lungo termine, ma William ragionava così. Era sempre deciso a costruirsi una casa a Eilean Dubh, e aveva escogitato un piano molto complesso che richiedeva una società di copertura e la minaccia della creazione di un deposito di rifiuti tossici nell’area. Se il piano avesse funzionato, gli abitanti della zona lo avrebbero praticamente implorato di comprarsi l’isola. E qualche volta, quando era ubriaco, parlava di scambiare Yvonne con un modello più sofisticato e docile, magari già corredato di titolo nobiliare e con tanto di paparino importante, preferibilmente impegnato nell’industria o nel governo. Persino il suo programma d’investimenti ‘non-etici’ non era uno scherzo, anzi, lo perseguiva con tutte le forze.»
Andy si stringe nelle spalle. «Il fatto che lo conoscessi era una semplice coincidenza, tuttavia non credo ci sia mai stato il minimo dubbio che William sarebbe diventato uguale a tutti quelli che ho ucciso.»
Fa rotolare il proiettile sul palmo di una mano, tenendo gli occhi bassi. «Comunque, per quel che vale, mi dispiace che l’averlo ucciso abbia mandato all’aria la relazione fra te e Yvonne.»
«Ah», commento, «allora questo aggiusta tutto.» Doveva suonare sarcastico, invece suona soltanto stupido.
Annuisce, senza guardarmi. «Era un uomo molto affascinante, Cameron, ma in realtà era molto malvagio.»
Lo fisso per un po’, mentre giocherella con il proiettile. «Sì, ma tu non sei Dio, Andy», mormoro infine.
«No, non lo sono», ammette. «Nessuno lo è. E allora?» conclude, con un sorriso.
Chiudo gli occhi, incapace di sostenere l’espressione rilassata e furbetta sul suo volto. Li riapro e sbircio fuori dell’apertura, guardo l’acqua e la terra e gli uccelli che volano in tondo senza fermarsi un istante. «Sì, capisco. Bene, credo che sia perfettamente inutile discutere con te, vero, Andy?»
«Sì, probabilmente hai ragione», dice lui, improvvisamente allegro e vivace. Si dà una pacca sulle ginocchia e salta in piedi. Prende la pistola e se la infila nella cintura dei calzoni, dietro la schiena. Solleva lo zaino e se lo getta su una spalla. Accenna con la testa al telefono cellulare posato sul pavimento.
«Ecco la tua scelta», spiega. «Puoi telefonare e denunciarmi, oppure no.»
Si aspetta che io reagisca. Mi limito a inarcare le sopracciglia.
Lui alza le spalle. «Ora vado giù alla barca e carico la mia roba», dice con un sorriso. «Fai con calma. Torno fra dieci, quindici minuti.»
Fisso il telefono sul pavimento sporco.
«Funziona», mi rassicura. «Scegli tu.» Scoppia a ridere. «In un modo o nell’altro, a me va bene comunque. Se mi lasci andare… non so, forse potrei anche uscire di scena, finché sono in vantaggio. D’altro canto, là fuori, ci sono ancora tanti di quei bastardi… La stessa ‘lady di ferro’, per esempio, se questo può stuzzicare il tuo interesse, Cameron.» Mi sorride. «Oppure c’è l’America, la terra delle opportunità. Se invece finisco in galera… Be’, anche lì ci sono persone che mi piacerebbe tanto incontrare; lo squartatore dello Yorkshire, per dirne uno, sempre che sia possibile arrivare a lui. Mi basterebbero una piccola lama e cinque minuti.» Si stringe di nuovo nelle spalle. «Be’, fai tu. Ci vediamo tra poco.»
Esce dall’apertura con un saltello, tuffandosi nella luce del sole e nel vento teso, scendendo a due a due i gradini che portano a un passaggio tra due edifici, e poi scompare, fischiettando. Mi appoggio al muro.
Mi accuccio sulle caviglie legate e sollevo il telefono. Sembra che sia carico e che funzioni. Compongo il numero della vecchia casa di mamma e papà a Strathspeld: risponde una segreteria telefonica, con una voce di uomo, burbera e scortese.
Chiudo la comunicazione.
Ci metto almeno un minuto a togliere il nastro adesivo che mi lega le caviglie. Prendo l’impermeabile da terra, scrollo via la polvere e lo indosso.
Il vento sbatte le falde contro le mie gambe mentre sto fermo sulla soglia, con il Fife alla mia destra, gli alberi di Dalmeny Park e di Mons Hill sulla sinistra e i due ponti davanti a me: uno diritto, con la sua ragnatela di metallo rosso, l’altro con il suo arco perfetto, pitturato di grigio come una nave da guerra.
Il braccio di mare è increspato e scuro, e le onde vanno veloci, sospinte dal vento proveniente da est. Due dragamine stanno passando sotto il ponte, dirette verso Rosyth; un’enorme petroliera è ferma, al terminal petrolifero di Hound Point, con due rimorchiatori che le fanno compagnia; lì accanto, ci sono anche due gigantesche gru su chiatte. Sono lì da quasi un anno: stanno costruendo un secondo terminal. Una petroliera più piccola si sta dirigendo verso il mare aperto, bassa sull’acqua dopo aver caricato alla raffineria di Grangemouth. A nord, oltre Incholm, una gasiera dallo scafo dipinto di rosso è ferma a Braefoot Bay, e sta caricando dal gasdotto collegato all’impianto di Mossmorran — qualche chilometro all’interno della costa — la cui posizione è indicata da due pennacchi bianchi di vapore. Osservo tutta questo movimento, sorpreso di quanto sia ancora industrialmente attivo il nostro vecchio fiume.
Sopra tutto questo, i gabbiani volteggiano e si lasciano portare dalle correnti, sospesi nell’aria con il becco aperto, urlando nel vento. Gli edifici, le torrette, le baracche e le postazioni per i cannoni della piccola isola sono tutti coperti di guano.
Mi sfrego la nuca, ma sussulto nel toccare il bernoccolo. Guardo il telefono stretto in mano, respiro la frizzante aria marina e tossisco.
La tosse continua per un po’, poi smette.
Allora, che faccio? Un nuovo tradimento, anche se è un tradimento che Andy sembra volere? O taccio e divento a tutti gli effetti suo complice, lasciandolo libero di uccidere e mutilare Dio solo sa chi altri… Un radicale libero nella nostra corruzione sistemica?
Che cosa devo fare?
Scuotiti, Cameron: guardati intorno fra questi relitti di cemento e osserva il fiume pulsante di attività, cerca un’ispirazione, un indizio, un segno. Oppure fa’ qualcosa che distragga la tua mente da una decisione che sicuramente rimpiangerai, qualunque essa sia.
Compongo un numero sul telefono.
Si sentono vari bip. Intanto osservo le nuvole che corrono molto in alto. Poi finalmente arriva la comunicazione.
«Sì, pronto», dico. «Vorrei parlare con il dottor Girson, per favore. Sono Cameron Colley.» Mi guardo in giro, cercando di vedere Andy, ma di lui non c’è traccia. «Sì, Cameron. Esatto. Mi chiedevo se ha già i risultati… quindi… Be’, se potesse darmeli adesso sarebbe… Sì, per telefono, perché no?… Sì, credo di sì. Be’, si tratta di me, no, dottore?… Voglio sapere… Senta, lasci che le faccia una domanda diretta, dottore: ho un tumore ai polmoni? Dottore… dottore… no, dottore… Senta, vorrei una risposta diretta, se non le dispiace. No, non credo… La prego, dottore. Ho un cancro? No, sto cercando di… no, voglio solo… no… Senta, ho un cancro?… Ho un cancro? Sì o no?
Alla fine il medico perde la pazienza e fa l’unica cosa furba: riattacca.
«Ci vediamo domani, dottore», sospiro.
Spengo il telefono e mi siedo sul gradino. Osservo l’acqua e i due lunghi ponti sotto il cielo azzurro striato dalle nuvole. Una foca fa capolino dall’acqua a una cinquantina di metri. Ballonzola per un po’, scrutando l’isola e forse me, poi scompare di nuovo tra le onde.
Guardo la pulsantiera del telefono e avvicino il dito.
Per quanto ne so, Andy potrebbe anche tornare indietro, dirmi, tutto allegro: «Ciao!» e poi farmi saltare le cervella, così, giusto per principio.
Non so.
Il dito indugia sui pulsanti, poi si ritrae.
No, proprio non so.
Resto lì seduto, al vento e al sole, tossendo, con il telefono stretto fra le mani.