«Andy?»
«Ciao, Cameron.»
È la sua voce: posata, tranquilla. Fino a questo momento una piccola parte di me era ancora convinta che fosse morto. Mi vengono i brividi e mi si rizzano i peli sulla nuca. Mi appoggio al muro, guardo McDunn, in piedi davanti a me a un metro di distanza con le braccia incrociate. Il giovane agente che ha acceso il walkman gli porge un paio di auricolari collegati al registratore e lui li indossa.
Mi schiarisco la gola. «Che sta succedendo, Andy?»
«Mi dispiace averti tirato in mezzo, vecchio mio», dice, come se la nostra fosse una tranquilla conversazione e lui si stesse scusando per un commento poco gentile o per avermi organizzato un appuntamento alla cieca con un cesso di ragazza.
«Ah, davvero?»
McDunn traccia una serie di cerchi nell’aria: vai avanti. Oh, Cristo, eccoci da capo. Vogliono che continui a parlare perché loro possano rintracciarlo. Un altro tradimento.
«Be’, sì», risponde Andy; pare vagamente sorpreso di scoprire che gli dispiace davvero, anche se non tantissimo. «Mi sento un po’ in colpa per tutto questo, ma al contempo ero persuaso che te lo meritassi. Non pensavo che finissi in prigione, però, quello non l’avrei proprio voluto, ma… Be’, volevo che soffrissi un po’. Immagino che abbiano trovato il biglietto che ho lasciato nel bosco vicino alla casa di Sir Rufus.»
«Sì, l’hanno trovato. Grazie, Andy. Sei stato proprio fantastico. Credevo fossimo amici.»
«Lo eravamo, Cameron», fa lui, condiscendente. «Ma tu mi hai mollato, e per due volte.»
Me ne esco con una risatina poco convinta, e guardo di nuovo McDunn. «La seconda volta sono tornato indietro, però.»
«Sì, Cameron», dice, con voce suadente. «Ed è per questo che sei ancora vivo.»
«Oh, grazie tante.»
«Comunque, Cameron, non ne sei del tutto fuori. Anche tu hai fatto la tua parte, come me, come tutti. Siamo tutti colpevoli, non credi?»
«Di cosa stai parlando?» chiedo, aggrottando la fronte. «Del peccato originale? Stai diventando cattolico, o che?»
«Oh, no, Cameron. Sono convinto che tutti noi nasciamo liberi da ogni peccato e da ogni colpa. Il fatto è che, prima o poi, ci cadiamo tutti. Non ci sono camere sterili per la moralità, Cameron, non ci sono campane di vetro per tenere la gente in un ambiente depurato dalla colpa. Ci sono monasteri e conventi, dove le persone diventano recluse, ma anche questo è soltanto un modo elegante per gettare la spugna. Lavarsene le mani non ha funzionato duemila anni fa, e non funziona neppure oggi. Ci sono coinvolgimenti, Cameron, ci sono legami.»
Scuoto la testa, osservando la finestrella del walkman con il nastro che gira pazientemente. La cosa strana è che ho davvero l’impressione di parlare a un morto, perché la persona cui mi rivolgo sembra proprio quell’Andy che conoscevo una volta. Quell’Andy attivista, plasmatore, quell’Andy precedente alla morte di Clare, prima che mollasse tutto e che diventasse un recluso: sto ascoltando proprio la sua voce calma e serena, non la voce dell’uomo che viveva in un albergo buio e cadente, una voce resa inespressiva dalla rassegnazione, dal disprezzo e da una cinica disperazione.
McDunn sembra impaziente. Scrive qualcosa su un taccuino.
«Senti, Andy», dico, deglutendo a fatica, con la bocca arida, «gli ho raccontato di quell’uomo nel bosco. Sono scesi nel tunnel. Lo hanno trovato.»
«Lo so», risponde. «Li ho visti.» Sembra quasi rammaricato. Chiudo gli occhi. «A dire il vero, c’è mancato poco che mi prendessero», aggiunge, con tono quasi divertito. «Questo m’insegnerà a non infrangere più le mie regole e a non partecipare mai al funerale delle mie vittime. Ma, dopotutto, si trattava del mio funerale. Comunque gliel’hai detto, vero? Immaginavo che l’avresti fatto, un giorno o l’altro. Ti sei tolto un bel peso, eh, Cameron?»
Apro gli occhi quando McDunn mi dà un colpetto e mi mostra i due nomi che ha scritto sul taccuino.
«Sì. Sì, mi sono tolto un peso. Senti, Andy, qui vogliono sapere che cosa è successo a Halziel e a Lingary.»
«Ah, già», dice, con aria divertita. «È per questo che ho chiamato.»
McDunn e io ci scambiamo uno sguardo. «Senti, Andy», riprendo, con una risatina nervosa. «Credo che ormai tu abbia raggiunto il tuo scopo, sai? Hai terrorizzato un sacco di gente…»
«Cameron, io ho ucciso un sacco di gente.»
«Sì, sì, lo so, e molti altri vivono nel terrore di andare ad aprire la porta di casa, ma il punto è che hai ottenuto quello che volevi; ormai potresti anche lasciarli andare, quei due, no? Lasciali andare e… Sai, sono sicuro che se potessimo parlarne insieme, sai, discuterne…»
«Discutere di questo?» ripete Andy, ridendo. «Oh, piantala di parlare a vanvera, Cameron.» Sembra così rilassato… Non riesco a credere che stia al telefono così a lungo. Deve sapere che ormai riescono a rintracciare le telefonate molto in fretta. «E poi, cos’altro ancora?» mi chiede, con un tono divertito. «Stai per suggerirmi di consegnarmi alla polizia, così verrò sottoposto a un processo equo?» Ride di nuovo.
«Andy, ti sto semplicemente suggerendo di lasciar andare quei due e di piantarla con ’sta storia.»
«Va bene.»
«Come?»
«Ho detto: va bene.»
«Li lascerai andare?» Scruto McDunn. Sta inarcando le sopracciglia. Dal portone entra un poliziotto in uniforme che si avvicina a McDunn e gli sussurra qualcosa. McDunn pare seccato.
«Sì», dice Andy. «Sono una coppia di stronzi molto noiosi e credo che abbiano sofferto a sufficienza.»
«Andy, stai parlando sul serio?»
«Certo!» risponde. «Ve li restituirò sani e salvi. Ovviamente, per quanto riguarda il loro stato di salute mentale non posso garantire nulla… Se andrà bene, quei bastardi saranno perseguitati dagli incubi per il resto della loro vita, ma…»
McDunn ha un’espressione preoccupata. Ancora una volta, mi fa cenno di spingerlo a parlare.
«Senti, Andy, l’ho capito che eri tu il signor Archer…»
«Già, ho usato un sintetizzatore vocale», spiega con fare paziente.
«Ma quella faccenda di Ares, era tutta…»
«…una manovra diversiva, Cameron, già», dice ridendo. «Senti, forse c’è anche stato un qualche nefando complotto che legava i cinque tizi morti, ma non ho idea di che cosa potesse essere e, per quanto ne so, non c’è alcun collegamento tra Smout e Azul. Un bell’intreccio, però, non ti pare? Lo so che voi giornalisti andate matti per questo genere di vicende.»
«Eh, sì, mi avevi proprio fregato.» Rivolgo un debole sorriso a McDunn, che mi fa segno di andare avanti.
«Ma come sei riuscito a…» Deglutisco, cercando di ricacciare indietro il senso di nausea. Ho l’impressione che stia per venirmi un attacco di tosse. «Come facevi a conoscere le parole in codice dell’IRA? Non te le ho mai dette.»
«Il tuo computer, Cameron. Il tuo PC. Le tenevi in un file. Quando ti sei comprato il modem, hai reso tutto più facile. Ti ho mai detto che nel tempo libero mi diverto a fare il pirata informatico?»
Cristo!
«E quella volta che ti ho telefonato in albergo e tu mi hai richiamato, quando invece dovevi essere nel Galles…»
«Sì, Cameron», ammette, in tono divertito, di superiorità. «Una segreteria telefonica in albergo, collegata a un cercapersone. Ho richiamato la segreteria, ho ascoltato il tuo messaggio, ti ho richiamato. Un gioco da ragazzi.»
«Ed eri sul mio stesso aereo, quando sono andato a Jersey?»
«Quattro file più indietro. Parrucca, occhiali e baffi finti. Mentre tu aspettavi al bancone dell’autonoleggio, sono saltato su un taxi. E comunque», dice, e mi pare di sentirlo sospirare e stiracchiarsi, «ora devo scappare. Queste discussioni tecniche sono davvero affascinanti, ma ho il vago sospetto che ti abbiano chiesto di continuare a farmi parlare. Sto chiamando da un cellulare, ecco perché non mi hanno ancora rintracciato; mi trovo in una specie di grossa cella. Ehi, non è una coincidenza? Tu eri in cella la scorsa settimana, ora ci sono io… Be’, forse no. E comunque, come ti ho detto, è una grossa cella, ma se continuo a parlare sono sicuro che alla fine mi troveranno, quindi…»
«Andy…»
«No, Cameron, ascoltami bene: vi restituirò Halziel e Lingary questa notte, a Edimburgo. Ci sono due cabine telefoniche, una vicina all’altra, a Grassmarket, proprio fuori del pub The Last Drop. Voglio che ti trovi nella cabina a gettoni alle sette. Tu, in persona, ore diciannove-zero-zero questa sera, nella cabina a gettoni fuori del pub The Last Drop, Grassmarket, Edimburgo. Ciao!»
Si sente un clic e la linea cade. Guardo McDunn, che annuisce. Riattacco.
Edimburgo, una fredda serata di novembre. Grassmarket è illuminata a giorno sotto una pioggerellina sottile ed è dominata dal castello, una presenza tondeggiante avvolta da un’aura arancione.
Grassmarket è una piazza molto allungata ricavata sul lato sud-orientale del castello, e circondata in gran parte da edifici molto vecchi. Ricordo ancora quando era un posto squallido e mezzo in rovina, pieno di ubriaconi; poi, con il passare degli anni, ha gradatamente risalito la china e ora è una zona piuttosto alla moda: ristoranti chic, bar eleganti, boutique e negozi specializzati in cose tipo aquiloni, minerali o fossili. Resta sempre un ostello per i senzatetto proprio dietro l’angolo, segno che la zona non è diventata nobile in maniera completa e definitiva.
Il The Last Drop si trova all’estremità orientale di Grassmarket, vicino all’ansa di Victoria Street, che ospita negozi ancora più specializzati, compreso uno che, incredibilmente, sembra sopravvivere vendendo esclusivamente spazzole, scope di saggina e grossi rotoli di spago.
Il nome del pub, è in realtà meno allegro e spiritoso di quanto sembri a prima vista: un tempo, infatti, la forca veniva eretta proprio qui davanti.
Non si vedono macchine in giro. Sono seduto — ammanettato al sergente Flavell — in un’auto civetta, una Senator, in compagnia di McDunn e di altri due agenti in borghese della polizia del Lothian. Sul lato opposto di Grassmarket c’è un’altra macchina civetta e parecchie altre sono nelle vicinanze; un paio di furgoni, pieni di agenti in uniforme, sono parcheggiati nelle strade laterali, e lo stesso dicasi per numerose autopattuglie nei dintorni. Hanno controllato la cabina telefonica e tutti gli altri punti di osservazione, ma sono preoccupato lo stesso perché temo che Andy non abbia ancora finito con me; ho paura che stia mentendo e che, se metto piede in quella cabina telefonica, mi beccherò un colpo di fucile in testa. C’è un agente in borghese dentro la cabina: fa finta di telefonare, in modo che sia libera quando chiamerà Andy. Hanno già collegato il telefono a una stazione d’ascolto, perché tutto venga registrato. Osservo la facciata del pub. C’è un nuovo ristorante indiano piuttosto elegante a portata di naso — persino troppo a portata di naso — più o meno dove un tempo sorgeva il Traverse Theatre.
Una birra e un po’ di curry. Gesù! Mi viene l’acquolina in bocca. Siamo anche a uno sputo da Cowgate e dal Kasbar.
McDunn guarda l’orologio. «Le sette», dice. «Chissà se…» S’interrompe nell’attimo in cui il poliziotto dentro la cabina ci fa un segno con una mano.
«Precisione militare», osserva McDunn con un grugnito, poi fa un cenno con la testa a Flavell; scendiamo dalla macchina, mentre l’autista tocca un pulsante sulla radio, che emette uno squillo perfettamente sincronizzato con quello che proviene dalla cabina.
Flavell s’infila nella cabina con me; l’altro agente aspetta fuori.
«Pronto?» dico.
«Cameron?»
«Sì, sono io.»
«Cambiamento di programma. Trovati nello stesso posto alle tre di questa notte. Li riavrete allora.» Clic. La linea cade. Guardo Flavell.
«Ha detto alle tre?» chiede Flavell, con aria scocciata.
«Pensi allo straordinario», gli rispondo.
Mi portano nella stazione di polizia in Chambers Street, a circa un minuto di distanza. Mi danno da mangiare e da bere, poi mi mettono in una cella umida che puzza di disinfettante. Il pasto è una schifezza: uno stufato orribile, con purè di patate e cavolini di Bruxelles.
Ma c’è una cosa meravigliosa.
Mi hanno restituito il mio laptop. È stata un’idea di McDunn. Cerco di non dimostrarmi riconoscente in maniera troppo patetica.
Anzitutto controllo i file: non manca niente. Mi viene una mezza idea di far partire Xerium e di provare quel trucchetto che mi ha insegnato Andy, quello che ti permette di scavalcare le montagne cavalcando il fungo atomico, ma è soltanto una mezza idea. Invece, lancio subito Despot.
Non riesco a credere che sia la stessa partita. Rimango a bocca aperta.
Ho di fronte una landa desolata. Il mio regno è sparito. Il territorio è sempre lì, e così pure la popolazione, almeno parte di essa, e c’è addirittura la capitale, sotto forma di due giganteschi semicerchi di edifici intorno ai due laghi: vista dall’alto, sembra la sigla cc… Ma deve essere successo qualcosa di terribile. La città è un cumulo di rovine e, in gran parte, è abbandonata. Gli acquedotti sono crollati, le dighe si sono rotte e ora sono vuote, le aree circostanti sono tutte allagate oppure devastate da incendi giganteschi. L’attività cittadina è quella che ci si aspetterebbe di trovare in un piccolo centro. Le poche campagne che non si sono trasformate in deserto o in palude sono ricoperte da una fitta vegetazione; ci sono grandi aree completamente abbandonate, e, là dove si vede qualche traccia di coltivazione, si tratta di minuscoli campi intorno ai paesini nascosti nella foresta o ai margini del deserto. I porti sono distrutti oppure insabbiati, le strade e i canali sono nel più completo abbandono, se non scomparsi del tutto, le miniere sono crollate e allagate, e le città, grandi e piccole, si sono spopolate, mentre i templi — tutti i miei templi! — sono soltanto ammassi di rovine, buie e abbandonate. I banditi scorrazzano per la zona, tribù barbare saccheggiano le province, le pestilenze dilagano e la popolazione si è assai ridotta, è meno produttiva e la vita media è assai più breve.
La civiltà del sud, con la quale avevo avuto tanti problemi, sembra essersi ritirata o indebolita anch’essa, ma questa è l’unica buona notizia. La cosa peggiore è che non c’è nessun capo, nessun Despota, nessun «me stesso». Assisto a questo scempio, ma non posso farci niente, non a questo livello, almeno. Per riprendere a giocare dovrei scambiare la mia posizione onnisciente ma ormai onniimpotente con… Dio solo sa cosa, con quella di un guerriero tribale, di un anziano capovillaggio, di un sindaco o di un capo dei banditi.
Vago in questo mondo per un po’ e lo osservo, sbalordito. Qualcuno deve aver fatto partire il programma per esaminarlo e poi probabilmente l’ha lasciato andare avanti da solo, mentre controllava qualcos’altro. Forse ha addirittura cercato di metterci mano, di giocare senza sapere come fare… A meno che non sia proprio questo che voleva, quello che aveva in mente: immagino che un Verde o un ecologista convinto sarebbe molto soddisfatto del risultato.
L’allarme delle batterie fa bip. Dovevo immaginarmelo che non le avrebbero ricaricate a dovere.
Osservo il mio Impero, un tempo grandioso, finché il computer non decide che le batterie sono troppo scariche per continuare, e si spegne da solo. L’immagine sullo schermo dissolve sulla vista dall’alto della capitale; vedo la mia vanagloriosa città a forma di e e svanire lentamente nel buio. Pochi minuti dopo, spengono anche le luci nelle celle.
Mi addormento sulla piccola branda di metallo con il laptop stretto fra le braccia.
Tre del mattino. È meno umido, ma fa più freddo. L’autista della polizia lascia il motore acceso; il nostro fumo di scarico sale nell’aria portato da una brezza gelida. Grassmarket è silenziosa. La macchina, no: di quando in quando la radio cinguetta e io continuo a tossire.
Alle tre in punto il poliziotto nella cabina telefonica ci fa cenno di muoverci.
«L’angolo tra la West Port e Bread Street, presto», dice Andy e riattacca immediatamente.
È vicinissimo anche a piedi, ma ci andiamo comunque in macchina, e ci fermiamo davanti al Cas Rock Café. Non c’è granché, qui: soltanto uffici e qualche negozio sull’altro lato della strada. Un’altra auto civetta è parcheggiata proprio in Bread Street. I furgoni con i poliziotti in divisa sono parcheggiati su Fountainbridge e su Grassmarket, mentre le varie auto di pattuglia continuano a fare il giro del quartiere.
McDunn fa un breve giro d’ispezione e poi torna alla macchina.
Beviamo caffè nero da un thermos gigante. Mi calma un po’ la tosse.
«Presto», m’incalza McDunn, riflettendo e guardando dentro il bicchiere di plastica come se cercasse fondi di caffè da interpretare.
«È quello che ha detto», dico, schiarendomi la gola.
«Hmm.» McDunn si sporge verso i due poliziotti seduti davanti. «Voi non fumate, vero, ragazzi?»
«No, signore.»
«Allora vado fuori ad avvelenarmi.»
«Non c’è problema, signore.»
«Tanto volevo sgranchirmi un po’ le gambe.» Si rivolge a me. «Colley, una sigaretta?»
Ricomincio di nuovo a tossire. «Tanto, peggio di così…»
Ora sono ammanettato all’ispettore: una specie di promozione, immagino. Ci accendiamo le sigarette e facciamo una passeggiata. Passiamo davanti al pub, attraversiamo la strada per andare a vedere la vetrina di un negozio di libri usati, passiamo davanti a un videoshop, a una macelleria e a una paninoteca, tutti bui e silenziosi. Un taxi ci passa accanto: è diretto verso Grassmarket e ha la luce «libero» accesa. Ci appoggiamo alla ringhiera che protegge il marciapiede all’incrocio. L’edificio dietro di noi ha l’aria malandata; da qui, inoltre, si vedono la sede in stile vittoriano del Co-op, che ha chiuso proprio quest’anno, e la costruzione più moderna che ospitava i grandi magazzini Goldberg, chiusi l’anno scorso.
Non c’è neppure un buon odore, in questo posto: dietro di noi c’è una pescheria e un negozio che vende patatine fritte un po’ più in su, ma sopravvento; anche il marciapiede pare sporco di unto. Non riesco proprio a immaginare che portino gli Eurocapi di Stato in questa zona della città, magari per una cena a base di sanguinaccio e per un bel film porno. Cristo, mancano solo tre settimane all’Eurosummit. Scommetto che la polizia del Lothian si sta godendo questa uscita fuori programma, con la prospettiva di tutto quel casino che li aspetta. Pensavo che proprio in questo periodo sarei stato impegnatissimo a scrivere un sacco di articoli sull’Europa. Pazienza.
«Aveva un bello stato di servizio nell’esercito, il tuo amico», fa McDunn dopo un po’.
«Molti assassini ce l’hanno», borbotto. L’ispettore riflette per un po’. Osserva la sigaretta, fumata quasi sino al filtro. «Pensi che abbia qualche motivazione di tipo politico? Si direbbe di sì.»
Alzo gli occhi in direzione della High Riggs, mentre un altro taxi arriva sobbalzando nella nostra direzione. McDunn spegne accuratamente la sigaretta, schiacciandola contro la ringhiera cui siamo appoggiati.
«Non credo che sia una questione politica», rispondo. «Credo piuttosto che sia… morale.»
L’ispettore mi fissa. «Morale, Cameron?» ripete, aspirando aria tra i denti.
«È deluso», spiego. «Aveva un sacco d’illusioni, e ora glien’è rimasta soltanto una: spera che ciò che sta facendo possa rendere le cose diverse.»
«Hmm.»
Ci giriamo per tornare alla macchina. Lascio cadere il mozzicone di sigaretta sul marciapiede sporco e lo schiaccio con la scarpa, quindi sollevo lo sguardo. Le luci del taxi che sta uscendo dalla High Riggs per svoltare sulla West Port ci colpiscono.
Rimango a fissarlo. McDunn sta dicendo qualcosa, ma non riesco a udirlo: ho uno strano rumore nelle orecchie. Mi tira il polso ammanettato. «Cameron», sento che dice, ma da molto lontano. Poi aggiunge qualcos’altro, però non lo afferro: ho ancora lo strano rombo nelle orecchie, un rumore cupo e stridulo al contempo. «Cameron?» dice McDunn. Tutto inutile. Apro la bocca. Lui mi dà un colpetto sulla spalla, mi afferra per un braccio. Infine allunga la testa per guardarmi, mettendosi tra la pescheria e me. «Cameron, ti senti bene?»
Annuisco, e poi scuoto la testa. Annuisco di nuovo, indicando un punto davanti a me, tuttavia, quando lui si volta, non vede nulla: il negozio è buio e i lampioni non riescono a illuminarne l’interno.
«Ha…» dico, ma ho difficoltà a proseguire. «Ha una torcia?»
«Una torcia?» ripete lui. «No, ho l’accendino. Cosa c’è?»
Accenno con la testa in direzione della pescheria.
McDunn avvicina l’accendino. Guarda all’interno, con il viso attaccato al vetro. Si ripara gli occhi con l’altra mano, sollevando così anche la mia.
«Non riesco a vedere niente», borbotta. «È una pescheria, no?» Alza la testa per studiare l’insegna del negozio.
Faccio un cenno con la testa in direzione dell’auto civetta. «Gli dica di fare inversione di marcia su Lauriston Street e di puntare i fari qui.»
McDunn socchiude gli occhi e mi fissa, poi sembra colpito da qualcosa che legge sul mio viso. Fa segno alla macchina. Uno degli agenti tira giù il finestrino e lui impartisce l’ordine.
Gemendo, la macchina s’infila in retromarcia in Lauriston Street. Ha tutti i fari accesi.
Proprio tutti. Distogliamo lo sguardo dal fascio di luce accecante e rimaniamo immobili, a lato della vetrina.
La pescheria ha una saracinesca avvolgibile a maglie. Dentro c’è un bancone di granito verde, leggermente inclinato, dove vengono esposti i pesci quando il negozio è aperto. Il bancone è circondato da uno zoccolo tozzo e arrotondato e ha un canaletto di scolo in fondo, proprio vicino alla vetrina.
Sul bancone ci sono alcuni pezzi di carne, non di pesce. Riconosco un fegato — color cioccolato e dall’apparenza setosa — reni che sembrano funghi scuri e grotteschi, probabilmente un cuore e vari altri tagli di carne, bistecche, cubi e fette. Al centro del bancone c’è un grosso cervello, di un colore grigio-crema.
«Buon Dio!» esclama McDunn con un sussurro. È strano, però sono queste parole a farmi venire i brividi, e non quello che vedo adesso, dopo la prima fugace immagine alla luce dei fari del taxi.
Torno a posare gli occhi sull’esposizione ordinata e pulita, quasi senza sangue. Immagino che persino un lettore del Sun capirebbe che non si tratta affatto di pesce; sono quasi certo che siano resti umani, ma, come se fossero stati messi lì per fugare ogni dubbio, nella parte centrale del bancone, verso il basso, scorgo i genitali di un uomo: un pene non circonciso, piccolo, avvizzito e di un colore grigiastro tendente al giallo; lo scroto raggrinzito e marrone rosato, con i due testicoli tirati fuori, uno per parte, due cosette grigie a forma di uova, simili a due lisci cervelli in miniatura, collegati al sacco scrotale da minuscoli tubicini perlacei tutti ritorti, cosicché l’effetto finale ricorda piuttosto due ovaie unite a un ventre.
«Chi sarà, Halziel o Lingary?» dice McDunn, con voce roca.
Alzo gli occhi verso l’insegna. PESCE.
Sospiro. «È il medico», mormoro. «Il dottor Halziel.» Comincio di nuovo a tossire.
Le luci dietro di noi lampeggiano, proprio mentre sto per chiedergli un’altra sigaretta. La macchina attraversa veloce la strada e si ferma vicino a noi, con il muso rivolto verso la West Port. Il finestrino del passeggero si apre nuovamente.
«Ne abbiamo trovato uno, signore», dice Flavell. «Al North Bridge.»
«Oh, Dio mio», geme McDunn, portandosi la mano libera alla nuca. Accenna con la testa all’altra macchina, ferma più in giù lungo la strada. «Fate venire qui quei ragazzi. L’altro è qui dentro, nella pescheria, fatto a pezzi.» Si volta verso di me. «Andiamo», dice, del tutto inutilmente, visto che siamo ammanettati insieme.
In macchina, mi toglie le manette e se le infila in tasca senza fare commenti.
E così andiamo al North Bridge. Inclinato sopra i marciapiedi e i tetti di vetro della Waverley Station, pitturato di fresco, illuminato a giorno, legame tra la città vecchia e quella nuova, a un tiro dalla sede del Caley.
Quando arriviamo, ci sono già due macchine della polizia. Sono ferme vicino alla parte più alta del ponte, sul lato occidentale, da dove si gode una bella vista della stazione, dei Princes Street Gardens e del castello.
Qui il parapetto decorato del ponte regge un paio di grossi plinti, uno per lato. Quello verso est, da dove si vedono i Salisbury Crags e la campagna del Lothian fino all’imbuto del Firth of Forth a Musselburgh, sostiene un monumento ai King’s Own Scottish Borderers, un gruppo in pietra che raffigura quattro giganteschi soldati. Un plinto praticamente uguale si trova sul lato opposto, dove ora sono ferme le macchine della polizia, con le luci lampeggianti blu che illuminano a intermittenza i pannelli verniciati di fresco del parapetto e la pietra chiara e sporca del plinto. Fino a ora, la sommità di questo plinto è stata inutilizzata, se non per ospitare un cono stradale che qualche spiritoso aveva tolto dalla carreggiata o per fungere da piattaforma a qualche impavido tifoso di rugby deciso a dare una dimostrazione pratica di pisciata dall’alto.
Questa notte, però, ricopre un altro ruolo: è il palcoscenico per la scenografia creata da Andy per il maggiore Lingary, vestito in alta uniforme, ma con le mostrine strappate e la spada spezzata e posta di fianco a lui.
È stato ucciso con due colpi di arma da fuoco alla nuca.
McDunn e io rimaniamo a fissarlo per un po’.
La mattina, a Chambers Street, mi danno una colazione abbastanza decente e mi restituiscono i vestiti. Ho passato il resto della notte nella stessa cella, ma questa volta la porta non era chiusa a chiave. Renderò alcune deposizioni e poi mi lasceranno andare.
La stanza degli interrogatori, qui a Chambers Street, è più piccola e più vecchia di quella di Paddington Green: pareti dipinte di verde, pavimento di linoleum. Sto diventando un esperto di stanze per gli interrogatori, e questa decisamente non merita neppure una misera stella.
Prima arriva un ispettore del Tayside: vuole che gli racconti tutta la storia dell’uomo del bosco che poi è diventato l’uomo del tunnel. Si chiamava Gerald Rudd; era sulla lista delle persone scomparse da vent’anni, si pensava che fosse scomparso durante un’escursione sulle Grampian Mountains e (ironia della sorte) era davvero un poliziotto, anche se solo part-time, una specie di agente volontario. Rivestiva anche la carica di capo scout di Glasgow, ed era già stato indagato per aver molestato un boy scout.
Alle undici ci beviamo un caffè — mandano persino qualcuno a prendermi un pacchetto di sigarette — poi un’altra deposizione, punteggiata dai miei colpi di tosse, a un paio d’ispettori della polizia del Lothian: tutto quello che so a proposito di Halziel e di Lingary.
La notte scorsa non hanno trovato granché. La messa in scena nella pescheria si era rivelata ancora più bizzarra — Andy aveva usato le dita del dottore per formare la scritta BALLA sul banco (la B gli aveva creato qualche problema) — e qualcuno aveva visto una Escort bianca allontanarsi dal plinto sul North Bridge poco prima che il corpo di Lingary venisse scoperto. Più tardi, la macchina era stata trovata abbandonata sul Leith Walk. Stanno prendendo le impronte nella pescheria e sulla macchina, ma credo che non troveranno nulla.
Verso le dodici e mezzo arriva McDunn in compagnia di un altro poliziotto in borghese. Me lo presenta. È l’ispettore Burall, della polizia del Lothian. Tratterranno il mio passaporto e comunque desiderano che li informi dei miei spostamenti, in caso che il pubblico ministero decida di procedere a qualche incriminazione per il caso Rudd. Devo firmare per il passaporto. Sto tossendo come un matto.
«Andrei a farmi vedere da un dottore per quella tosse», dice McDunn, preoccupato. Annuisco, con gli occhi pieni di lacrime per il gran tossire.
«Sì», rispondo con un sibilo, «è una buona idea.» Magari dopo una bella passeggiata e qualche birra, penso.
«Signor Colley», interviene il poliziotto del Lothian. È un tizio dall’espressione seria, un po’ più vecchio di me, molto pallido e con una calvizie incipiente. «Sono certo che lei comprenderà che siamo preoccupati del fatto che Andrew Gould si trovi ancora in città, specialmente ora che sta per cominciare l’Eurosummit. L’ispettore McDunn è convinto che Andrew Gould potrebbe cercare di mettersi in contatto con lei, e persino tentare di aggredirla o di rapirla.»
Guardo McDunn che sta annuendo, con la bocca serrata. Devo ammettere che l’idea che Andy potesse venire a farmi una visitina era passata per la testa anche a me, dopo quel BALLA. Burall prosegue: «Vorremmo chiederle il permesso di mettere un paio di agenti nel suo appartamento per un po’, signor Colley. La sistemeremmo in un albergo, se per lei va bene».
McDunn aspira aria tra i denti; adesso, a sentire quel rumore, mi viene quasi da ridere. Invece, attacco a tossire.
«Ti consiglierei di dire di sì, Cameron», fa McDunn, fissandomi con aria molto seria. «Certo, prima vorrai passare a prendere le tue cose, ma…»
Si spalanca la porta, un agente in uniforme si precipita dentro, mi lancia un’occhiata e sussurra qualcosa all’orecchio di McDunn. McDunn mi fissa.
«Che tipo di regalo potrebbe lasciare per te a Torphin Dale?»
«Torphin Dale?» ripeto. Mi torna la nausea. Oh, Cristo, Cristo, Cristo! È come se mi avessero mollato un calcio nelle palle. Devo farmi forza per costringere la bocca a funzionare. «È dove vivono William e Yvonne. I Sorrell.»
Per un attimo, McDunn rimane in silenzio. «L’indirizzo?» chiede poi.
«Baberton Drive, al numero quattro», rispondo.
Guarda il poliziotto in uniforme. «Hai capito?»
«Sissignore.»
«Manda subito qualche macchina sul posto, e fanne preparare una per noi.» Si alza e fa un cenno con la testa a Burall e a me. «Andiamo.»
Mi alzo anch’io, ma le gambe non mi obbediscono docilmente. Usciamo in fretta dalla stazione di polizia, in un pomeriggio freddo e splendente. Un autista in uniforme ci precede, infilandosi la giacca e aprendo con il telecomando le porte di un’auto civetta, una Cavalier.
Un regalo per me, a Torphin Dale. Oh, buon Dio, no!
«E dai! Togliti di mezzo!»
«Su, Cameron», dice McDunn.
Burall riattacca il microtelefono della radio. McDunn mi ha chiesto il numero di telefono di William e Yvonne. Lo stanno chiamando da Chambers Street; se trovano qualcuno, ci avvertiranno.
«Su!» esclamo tra i denti, desiderando che la strada si svuoti davanti a noi.
L’autista sta facendo del suo meglio: ha inserito la sirena e il lampeggiatore, stiamo zigzagando nel traffico e anche correndo qualche rischio, ma ci sono davvero troppe auto. Cosa ci fa tutta questa gente per la strada? Perché non è al lavoro, o a casa, perché non usa i trasporti pubblici? Ma non sono capaci di camminare, ’sti bastardi?
Alla barriera passiamo con il rosso pieno e la sirena che urla, bloccando il traffico in tutte le direzioni; imbocchiamo la corsia che svolta a destra e sale per Home Street, evitiamo per un pelo un’anziana signora sulle strisce pedonali all’incrocio con la Bruntsfield e ci gettiamo lungo Colinton Road, dove il traffico sembra meno intenso. La radio borbotta qualcosa; mi chino in avanti cercando di capire. Un’autopattuglia è arrivata alla casa, ma pare non ci sia nessuno. Mi fanno male le mani. Guardo in basso e vedo che sono strette a pugno, con i tendini dei polsi visibili per lo sforzo. Mi appoggio allo schienale e vengo sbattuto di lato quando l’autista sterza di colpo per evitare una macchina che sbuca all’improvviso da una traversa. La radio ci annuncia che le porte del garage della casa sono aperte. Ma alla porta non risponde nessuno.
Sfrecciamo attraverso la tangenziale. Me ne sto appoggiato allo schienale, fissando il contorno del tetto della macchina, tossendo con gli occhi pieni di lacrime. Oh, Cristo, Andy, ti prego, no.
Entriamo nel complesso residenziale di Torphin Dale passando tra gli alti pilastri di arenaria del cancello della vecchia tenuta; su Baberton Drive tutto è esattamente come me lo ricordavo, a parte le macchine della polizia ferme sul vialetto che sale dal cul-de-sac fino alla casa. Le tre porte basculanti del garage sono alzate. Non so perché, ma questo particolare mi fa venire un brutto presentimento.
La Mercedes di William c’è; la BMW 325 di Yvonne, no.
Ci fermiamo sul vialetto. Ci metto un secondo per ricordarmi che non sono più ammanettato a nessuno. L’autista rimane a bordo della Cavalier, e continua a parlare alla radio.
Un agente in uniforme è fermo davanti al portone. Quando c’individua, ci viene incontro.
«Non risponde nessuno, signore. Non abbiamo ancora guardato all’interno. Il mio compagno sta facendo il giro della casa, per controllare il giardino.»
«C’è una porta che collega il garage con il resto della casa?» chiede McDunn.
«Pare di sì, signore.»
McDunn si gira verso di me. «Tu conosci questa gente, Cameron. Hanno l’abitudine di lasciare la casa incustodita?»
Scuoto la testa. «No, sono piuttosto attenti alla sicurezza.»
McDunn aspira aria tra i denti.
Entriamo, passando sotto il portellone sollevato. Dentro c’è la roba che ci si aspetta di trovare nel garage di uno sporco arricchito: scatole da imballaggio, attrezzatura per il golf, la moto d’acqua sul suo carrello, un banco da lavoro, una griglia con appesi in ordine perfetto attrezzi per l’auto e per il giardinaggio (per la maggior parte mai usati e lucidissimi), un paio di borse per scarponi da sci e custodie per sci appoggiate al muro, un elettrodomestico per la pulizia a vapore, una piccola falciatrice che sembra un trattore in miniatura, un grosso bidone nero con le ruote e due mountain bike. Il garage a tre posti è enorme, ma risulta comunque stipato. Se ci fosse anche la macchina di Yvonne, starebbe proprio a tappo.
McDunn bussa alla porta di comunicazione tra il garage e il resto della casa. Aggrotta la fronte, poi si gira verso Burall. «Abbiamo guanti usa e getta?»
«In macchina», risponde Burall e torna veloce verso la Cavalier.
«Tu sei già stato qui, non è vero, Cameron?» chiede McDunn.
«Sì», rispondo, tossendo.
«Bene. Allora ci farai da guida, d’accordo?»
Annuisco. Burall torna con una manciata di guanti di plastica, tipo quelli che si comprano alle stazioni di servizio per trafficare intorno al motore. Li indossiamo tutti, me compreso. McDunn apre la porta ed entriamo nel ripostiglio. Non c’è niente; idem in cucina.
Ci sparpagliamo per la casa. Rimango con McDunn. Attraversiamo il salone, guardando dietro le tende e i divani, sotto i tavoli, persino sotto la cappa del caminetto posto al centro del salone. Poi andiamo di sopra. Controlliamo una delle camere da letto sul retro. L’agente che ha fatto il giro del giardino sul retro, e che ora sta tornando verso la casa, ci vede e allarga le mani, come a dire che non ha trovato niente.
McDunn ispeziona i cassetti alloggiati nella base del divano letto. Guardo dentro l’armadio a muro, facendo scivolare di lato la mia immagine riflessa nello specchio, con il cuore in gola.
Vestiti. Soltanto vestiti, cappelli e qualche scatola.
Passiamo nella camera da letto padronale. Cerco di non pensare a quello che Yvonne e io abbiamo fatto l’ultima volta che sono stato qui. Avverto di nuovo quel rombo nelle orecchie, ho i sudori freddi e mi sembra di essere sul punto di crollare a terra. Provo una sensazione strana; mi sembra di profanare un luogo sacro mentre, insieme con l’ispettore, frugo nell’opulenta e lussuosa privacy domestica della casa di William e Yvonne, in loro assenza.
Esamino lo spogliatoio; McDunn controlla sotto il letto, e poi fuori, sul balcone. Apro gli armadi dello spogliatoio. Un sacco di vestiti. Li scosto con mani tremanti.
Niente. Richiudo le ante a specchio. Vado verso il bagno. Poso una mano sulla maniglia: mentre apro la porta, dal locale esce una luce pallida, color pastello.
«Cameron?» chiama McDunn dalla camera da letto. Vado verso di lui, senza far rumore, lasciando la porta semiaperta. Sta guardando fuori della finestra, poi si gira verso di me e fa un cenno con la testa. «Sta arrivando una macchina.»
Vado alla finestra. È una BMW 325 rossa. La macchina di Yvonne.
È come se la macchina, una volta giunta davanti al vialetto, esitasse nel vedere l’autopattuglia e la Cavalier parcheggiate davanti al garage.
Poi si ferma all’imboccatura del vialetto, sull’altro lato della strada, bloccando la nostra auto, ma lasciandosi la possibilità di ripartire velocemente. McDunn osserva la scena insospettito; io, però, mi sento sollevato. Se Andy era qui, ormai se n’è andato da tempo. Questa è una mossa da Yvonne.
E infatti è lei. Buon Dio, è lei, è lei, è lei! Scende dalla macchina con in mano una grossa torcia nera, lunga mezzo metro, e un’espressione corrucciata sul volto. Indossa un paio di jeans e una giacca di pelle sopra una felpa. Si è di nuovo tagliata i capelli. Il volto dai lineamenti fini e aguzzi è perfettamente truccato e ha un’espressione aggressiva e sospettosa. È bellissima.
«Quella è la signora Sorrell?» chiede McDunn a bassa voce.
«Sì», rispondo con il fiato corto, come se qualcosa dentro di me si fosse calmato. Avrei voglia di piangere. Yvonne si gira verso un’altra macchina della polizia che sta arrivando. Mette via la torcia quando l’auto si ferma e ne scendono due agenti in uniforme. Si avvicina a loro, facendo un cenno con il capo in direzione della casa.
«Andiamo a sentire cos’ha da dirci», annuncia McDunn.
Passiamo davanti alla porta dello spogliatoio. «Un momento», lo richiamo. McDunn si ferma. Attraverso lo spogliatoio e spalanco la porta del bagno. La luce pallida m’investe.
Niente. Guardo dentro la doccia, nella Jacuzzi. Niente, faccio un respiro profondo e torno da McDunn. Insieme ci avviamo verso il pianoterra.
«Cameron!» esclama Yvonne non appena arriviamo in fondo alle scale. Sta posando i giornali e due bottiglie di latte sul tavolino del telefono. I due poliziotti arrivati con la seconda macchina sono dietro di lei. Lei lancia un’occhiata a McDunn, poi viene verso di me e mi abbraccia, stringendomi forte. «Stai bene?»
«Sì. E tu?»
«Sì», risponde lei. «Che cos’è questa faccenda? Qualcuno al giornale mi ha detto che eri tu l’uomo che la polizia tratteneva per tutti quegli omicidi.» Si stacca da me, ma mi tiene comunque un braccio intorno alla vita. «Perché la polizia è qui?» chiede, scrutando McDunn.
«Ispettore McDunn», fa lui, accennando un saluto con il capo. «Buongiorno, signora Sorrell.»
«Salve.» Yvonne fa un passo indietro e, sempre tenendomi per mano, mi scruta. «Cameron, hai un’aria…» Poi scuote la testa, mordendosi le labbra. Si guarda intorno e dice: «Dov’è William?»
McDunn e io ci scambiamo un’occhiata. In quel mentre, l’ispettore Burall scende le scale annunciando: «Niente al piano di sopra…» e poi si ferma, vedendo Yvonne.
Lei mi lascia andare la mano, fa un passo indietro e ci osserva tutti, a uno a uno. Un agente della prima macchina entra nell’ingresso dallo studio. Lo sguardo di Yvonne cade sulle mie mani guantate e poi su quelle di tutti i presenti.
E improvvisamente capisco il suo stato d’animo: è una giovane donna, circondata da sconosciuti che hanno invaso la sua casa, che ci sono entrati dentro certo non a seguito di un invito; e sono tutti più grossi di lei, sono tutti estranei tranne uno che, le è stato detto, potrebbe essere un serial killer. D’un tratto, sul suo viso cala un’aria stanca, arrabbiata e provocatoria al contempo. Ho l’impressione che il mio cuore stia per sciogliersi.
«Suo marito era in casa quando lei è uscita, signora Sorrell?» chiede McDunn con un tono di voce molto naturale.
«Sì», risponde lei, continuando a guardarsi intorno, soffermandosi su di me, come per studiarmi, per capire, prima di rivolgersi a McDunn. «Era qui. Io sono uscita circa mezz’ora fa.»
«Capisco», dice McDunn. «Bene. Probabilmente avrà fatto un salto fuori. Sa, ci hanno avvertiti che poteva esserci qualche problema e ci siamo presi la libertà di…»
«Non è in giardino?» domanda lei.
«Pare di no. No.»
«Be’, non si fa un ‘salto fuori’ da questo residence, ispettore», dice Yvonne. «Il negozio più vicino è a dieci minuti di macchina, e l’auto di mio marito è ancora in garage.» Si rivolge al poliziotto che è appena sceso dal piano superiore. «Lo avete cercato? Avete perquisito la casa?»
McDunn sfoggia tutto il suo charme. «Sì, signora Sorrell, lo abbiamo fatto, e mi scuso per questa invasione della sua privacy. Me ne assumo tutta la responsabilità. L’indagine in cui siamo impegnati è molto seria, e abbiamo avuto una soffiata da una fonte che in passato si era dimostrata del tutto attendibile. Dato che la casa era aperta, ma apparentemente incustodita, e avevamo motivo di credere che potesse essere stato commesso un crimine, ho pensato che fosse giusto entrare, però…»
«Quindi non l’avete trovato», lo interrompe Yvonne. «Non avete trovato niente?» Improvvisamente sembra piccola e spaventata. Capisco che sta lottando contro la paura, e la amo per questo, e vorrei abbracciarla, consolarla, rincuorarla, però un’altra parte di me prova soltanto una terribile, disperata gelosia, perché la persona per cui è così preoccupata non sono io, bensì William.
«Non ancora, signora Sorrell», risponde McDunn. «Che cosa stava facendo, l’ultima volta che lo ha visto?»
Vedo che deglutisce, vedo il collo che si tende mentre cerca di controllarsi. «Era in garage», mormora. «Voleva portare fuori il piccolo trattore tosaerba Honda, e raccogliere le foglie nel giardino sul retro.»
McDunn annuisce. «Bene. Allora daremo un’occhiata. Va bene?» Guarda i due poliziotti appena arrivati e alza una mano, muovendo le dita. «I guanti, ragazzi.»
I due annuiscono e si avviano verso la porta d’ingresso.
Andiamo in garage, passando per il soggiorno e la cucina. Mi sembra di camminare su una sostanza appiccicosa e mi è tornato quel terribile rombo alle orecchie. Cerco di non mettermi a tossire.
McDunn si ferma nel ripostiglio. Sembra un po’ imbarazzato. «Signora Sorrell», dice, sorridendo, «potrei chiederle di farci un caffè?»
Yvonne lo fissa. Ha un’espressione dura, sospettosa. Poi gira sui tacchi e si avvia verso il bancone dove è posato il bollitore.
McDunn apre la porta che dà nel garage. Vedo la Mercedes e penso «La macchina, il baule della macchina!» Poi vedo le casse da imballo. Cristo, anche quelle.
Non mi sento bene. Comincio a tossire. McDunn e gli agenti esaminano le casse e la macchina, ma sembra che non abbiano visto il grosso bidone nero con le ruote. Me ne sto in disparte, appoggiato al muro, li ascolto parlare, li osservo aprire, frugare, curiosare, e quel bidone rimane lì, ignorato, una grossa sagoma scura contro la luce che proviene dall’esterno. Si è alzata una leggera brezza che solleva polvere e foglie, spingendone qualcuna sul pavimento del garage verniciato di bianco. McDunn guarda sotto la macchina. Burall e l’altro agente stanno spostando le casse e i bauli ammassati contro il muro per esaminare quelli sottostanti. I due poliziotti della seconda macchina s’infilano i guanti di plastica e risalgono il vialetto.
Quando non resisto più, mi allontano dal muro, nel preciso momento in cui Yvonne entra in garage. Mi avvicino barcollando al grosso bidone: è alto almeno un metro. Sento gli occhi degli altri su di me, sento Yvonne dietro di me. Tossendo, allungo una mano e la poso sul coperchio di plastica liscia. Lo sollevo.
Ne esce un vago odore di pesce marcio, misto ad altri sentori altrettanto sgradevoli. Ma il bidone è vuoto.
Rimango a fissare l’interno, e provo una sorta di shock perverso: mi sembra di precipitare all’indietro. Lascio andare il coperchio.
Finisco addosso a Yvonne, e lei mi sostiene. Mulinelli di vento s’insinuano nel garage, le porte scricchiolano. Poi si sente uno schiocco dall’alto, e improvvisamente la porta di mezzo si chiude proprio in faccia ai due poliziotti che stanno arrivando dal vialetto. Sussulto, arretro di un passo e, mentre la zona centrale si oscura, la porta si chiude, sbattendo e sollevando una nuvola di polvere, Yvonne lancia un urlo breve e soffocato. E allora vedo William. È assicurato alla struttura interna di rinforzo della porta con nastro adesivo, i polsi e le caviglie sono legati con pezzi di spago, la testa è coperta da un sacchetto della spazzatura nero, stretto intorno alla gola con nastro adesivo nero; il corpo è ormai senza vita.
Mi volto, piegato in due, e comincio a tossire e a tossire. Improvvisamente dalla bocca mi esce un fiotto di sangue che schizza di rosso il pavimento bianco del garage. In quel particolare momento di solitudine, con gli occhi pieni di lacrime, vedo McDunn che si avvicina e mette una mano sulla spalla di Yvonne.
Lei si allontana — da lui, da William, da me — e si copre il volto con le mani.