Sto correndo giù per la collina, entro nella valletta illuminata dal sole e risalgo lungo l’altro versante con Andy che m’insegue, calpestando arbusti, cespugli d’erica e felci. Scuoto la mano per liberarla dal suo seme e, mentre corro, lascio che sfreghi contro le foglie e contro l’erba per pulirla del tutto. Sto ridendo. Ride pure Andy, ma mi sta anche gridando dietro insulti e minacce.
Corro su per la collina, intravedo qualcosa che si muove davanti a me e penso che sia un uccello, un coniglio o qualche altro animale, e quasi vado a sbattere contro un uomo.
Mi fermo di colpo. Sento Andy che sale dietro di me, gridando e travolgendo cespugli.
L’uomo indossa scarponi, calzoni di velluto a coste marroni, camicia, e giacca a vento verde. Sulle spalle porta uno zaino marrone. Ha i capelli rossi e sembra furioso.
«Cosa credevate di fare, ragazzi?»
«Cosa? Eh? Ah…?» biascico, poi mi giro e vedo Andy che arriva di corsa; scorgendo l’uomo, rallenta bruscamente.
«Tu!» urla l’uomo, rivolto ad Andy. La sua voce mi fa sussultare. Nascondo la mano appiccicosa dietro la schiena come se fosse vistosamente macchiata. «Che cosa stavi facendo con questo ragazzo, eh? Che cosa stavate facendo?» grida, guardandosi intorno. Infila il pollice sotto gli spallacci dello zaino e sporge in fuori il mento e il petto. «Allora? Che cosa stavate facendo? Rispondimi, ragazzo!»
«Non sono affari suoi», dice Andy, ma la sua voce è incerta. Sento un odore strano. Ho paura che venga dalla mia mano sporca e temo che lo avverta anche l’uomo.
«Non parlarmi in questo tono!» sbraita l’uomo, sempre guardandosi intorno. Quando parla, sputa.
«Lei non ha diritto di stare qui», obietta Andy, con aria impaurita. «Questa è una proprietà privata.»
«Davvero?» ribatte l’uomo. «Proprietà privata, dici? E questo ti dà il diritto di fare cose sporche, da pervertiti, eh?»
«Noi…»
«Sta’ zitto, ragazzo.» L’uomo fa un passo in avanti, e scruta oltre le nostre teste. È così vicino che potrei toccarlo. Sento di nuovo quell’odore, più forte. Oh, Dio mio, adesso lo sentirà anche lui. Mi sembra di diventare piccolo piccolo. L’uomo si batte un dito sul petto. «Be’, lascia che ti dica una cosa, figliolo», riprende, rivolto ad Andy. «Sono un poliziotto.» Annuisce, e si erge in tutta la sua altezza. «Proprio così», aggiunge, socchiudendo gli occhi. «Hai ragione ad aver paura, ragazzo, perché sei proprio nei guai.»
Abbassa lo sguardo su di me. «Su, da questa parte. Svelto!»
Si allontana di un passo. Sto tremando. Mi pare di essere inchiodato. Mi giro: Andy mi sta fissando con un’espressione incerta. L’uomo mi afferra per un braccio e mi dà uno strattone. «Ho detto svelto! Su, ragazzo!»
Mi trascina tra gli alberi. Comincio a piangere e a divincolarmi, ma debolmente.
«La prego, signore, non stavamo facendo niente!» lo imploro, con tono lamentoso. «Non stavamo facendo niente! Davvero! Non stavamo facendo niente, glielo giuro! La prego, per favore, ci lasci andare, la prego, non lo faremo più, davvero, la prego, per favore…»
Con gli occhi pieni di lacrime mi volto e vedo Andy che ci segue tra i cespugli, disperato e incerto, mordendosi una nocca.
Siamo quasi arrivati in cima alla collina, dove i cespugli del sottobosco sono assai fitti. Quell’odore è molto forte; sento le ginocchia molli. Se l’uomo non mi tenesse con forza, credo proprio che crollerei a terra.
«Lo lasci!» urla Andy, e sembra che stia per scoppiare a piangere come me. Un minuto fa pareva così grande, e ora non è che un bambino.
L’uomo si ferma, mi fa girare con uno strattone e mi tiene contro il suo petto. Sento il suo calore dietro di me, e l’odore è ancora più forte.
Andy si avvicina a noi e si ferma a un paio di metri.
«Vieni qui!» urla l’uomo. Le goccioline di saliva cadono, formando un arco. Andy gli lancia un’occhiata e poi abbassa lo sguardo su di me. Gli trema la mascella.
«Vieni qui!» ripete l’uomo. Andy fa due passi. «Togliti i calzoni!» sibila poi, sempre rivolto ad Andy. «Su! Vi ho visti! Ho visto quello che stavate facendo! Togliti quei calzoni!»
Andy scuote la testa e retrocede.
Comincio a singhiozzare.
L’uomo mi dà uno strattone. «Bravo, tu!» Si china su di me, allunga una grossa mano verso la cerniera dei miei pantaloni e cerca di tirarla giù. Mi divincolo e gemo, ma non riesco a liberarmi. L’odore mi avviluppa. È lui: è il suo sudore, il suo odore.
«Lascialo stare, bastardo!» strilla Andy. «Tu non sei un poliziotto!» Non riesco a capire che cosa sta facendo, perché c’è il corpo dell’uomo in mezzo a noi; poi però Andy lo colpisce, facendolo rotolare all’indietro. L’uomo lancia un urlo e io riesco a liberarmi; scappo a quattro zampe in mezzo alle felci, mi fermo e vedo che l’uomo ha afferrato Andy, sta lottando con lui, gli sta sopra, lo schiaccia con il suo peso; Andy sta respirando affannosamente, grugnisce, cerca di liberarsi. «Bastardo! Lasciami andare! Tu non sei un poliziotto! Tu non sei un poliziotto!»
L’uomo non parla. Getta Andy a terra, tra le felci, libera una mano e gli dà un pugno sul viso. Andy si affloscia, poi ricomincia lentamente a muoversi. L’uomo ansima e, quando si volta verso di me, ha un’espressione risoluta. «Tu!» dice, sbuffando. «Tu! Resta dove sei! Resta lì, hai capito?»
Sto tremando così forte che quasi non riesco a vedere bene. Ho gli occhi pieni di lacrime.
L’uomo tira giù i calzoni ad Andy; lui si guarda intorno, frastornato, poi i suoi occhi si fissano su di me.
«Aiuto», dice con voce gracchiante. «Cameron… aiuto…»
«Ah, dunque ti chiami Cameron?» sibila l’uomo, lanciandomi un’occhiata e tirandosi giù i calzoni. «Resta dove sei, Cameron. Resta lì, d’accordo?»
Scuoto la testa e arretro di qualche passo.
«Cameron!» geme Andy. L’uomo sta armeggiando con le mutande e Andy cerca di scappargli da sotto. Continuo a barcollare all’indietro, rischio di cadere. Devo voltarmi per non inciampare; poi comincio a correre, non riesco più a fermarmi, devo assolutamente scappare. Corro via nel bosco, con le lacrime che mi bruciano sulla faccia, singhiozzando istericamente, il respiro che mi esce sibilando e a strappi dalla gola, bruciante, disperato e livido; le felci mi frustano le gambe e i rami sbattono sul mio viso.
Ieri sera ho dato i due nomi a McDunn, gli ho rivelato la professione di entrambi, poi non ho più fiatato, rifiutandomi di aggiungere altro a proposito di quei due e del cadavere. Lui ha continuato a succhiare aria tra i denti per un po’, cercando di convincermi a dire qualcosa di più; a pensarci, era quasi ridicolo, dato che era stata proprio quella sua abitudine a farmi improvvisamente venire in mente il tutto. Il dentista! Mi ero ricordato che, mentre ero a Stromeferry-noferry, ero andato a Kyle e poi mi era tornata in mente quell’immagine da incubo dell’uomo carbonizzato dopo l’esplosione: Sir Rufus, con le sue ossa annerite, i chiodi, le assi tutte bruciate e la mascella annerita e spalancata, che ricordava tanto una dentiera… e avevo pensato: Come hanno fatto a identificare Andy?
I due nomi hanno funzionato ancora meglio di quanto mi aspettassi. Riesco a intravedere una via d’uscita. Mi sento un Giuda, ma ho una via d’uscita: non con onore, forse, ma negli ultimi giorni ho avuto modo di riflettere molto su me stesso e ho dovuto ammettere che non sono poi quel personaggio eccezionale che mi piaceva credere di essere.
Mi ero immaginato in situazioni come questa, avevo mentalmente preparato discorsi sulla verità, sulla libertà e sulla salvaguardia delle proprie fonti, discorsi che avrei pronunciato dal banco dei testimoni per poi sentire il giudice che mi condannava a novanta giorni o a sei mesi, o a quello che era, per disprezzo della corte, ma mi stavo prendendo in giro, niente di più. Sì, è vero che sarei andato in prigione per proteggere qualcun altro o per difendere la libertà di stampa, ma il mio gesto sarebbe stato compiuto con lo scopo di fare bella figura. Sono proprio come tutti gli altri: un egoista. Ho individuato una via d’uscita e ho deciso d’imboccarla e il fatto che ciò sia una specie di tradimento non ha, per me, una grande importanza.
E comunque sto pagando per questo tradimento, raccontandogli del cadavere. Di per sé non prova nulla, ma è l’unico modo che ho per convincerli a portarmi a Strathspeld per il funerale: ormai posso guardare McDunn dritto negli occhi e raccontargli la verità; lui sa che quanto gli sto dicendo è vero, e mi ci porterà. Almeno credo.
E, forse, con il mio tradimento, riuscirò finalmente a liberarmi dal peso di questo orrore nascosto che mi ha tenuto legato ad Andy per vent’anni; e forse — dopo aver esorcizzato la colpa — sarò libero di tradirlo ancora una volta.
Questa mattina, McDunn è arrivato molto presto. Ci troviamo nella solita sala degli interrogatori. Il luogo mi è ormai familiare, sta diventando un po’ come una casa per me, sta assumendo un’aria di ambiguo conforto. McDunn è in piedi, dietro il tavolo, e sta fumando. Mi fa cenno di sedermi: obbedisco, sbadigliando. In realtà questa notte, per la prima volta da quando mi hanno portato qui, ho dormito abbastanza bene.
«Sono scomparsi tutti e due», mi comunica McDunn. Sta fissando il tavolo. Tira una lunga boccata dalla Benson Hedges. Una sigaretta farebbe piacere anche a me, anche se è un po’ presto, e il consueto attacco di tosse del mattino non è ancora terminato; tuttavia pare che McDunn abbia dimenticato le buone maniere.
«Halziel e Lingary», spiega, guardandomi fisso, con aria veramente preoccupata e, per la prima volta, inquieta, tesa, stanca. Sì, è cambiato tutto, qui a Paddington Green. «Sono scomparsi tutti e due», prosegue l’ispettore, chiaramente scosso. «Lingary da ieri, il dottor Halziel da tre giorni.»
Scosta una sedia dal tavolo e si siede. «Cameron, dimmi: di chi è il cadavere?»
Scuoto la testa. «Portatemi là.»
McDunn aspira aria tra i denti e distoglie lo sguardo.
Rimango in silenzio. Finalmente mi sento padrone della situazione. In teoria, potrei anche mentire spudoratamente, e avere qualche altro motivo per andare a Strathspeld — magari ho soltanto nostalgia della Scozia — eppure sono certo che lui sa che non sto mentendo, che un cadavere c’è davvero. Credo che me lo legga negli occhi.
McDunn sospira, mi fissa. «Tu lo sai, vero? Tu sai chi è.» Aspira aria tra i denti. «È lo stesso individuo che penso io?»
Annuisco. «Sì, è Andy.»
McDunn annuisce a sua volta con aria cupa, aggrotta la fronte. «E allora di chi era il corpo nell’albergo? Non c’è stata nessuna denuncia di scomparsa, lassù.»
«Ci sarà», spiego. «Un tizio che si chiama Howie… Non ricordo il cognome, mi pare che cominci con la G. Doveva partire per Aberdeen il giorno in cui me ne sono andato, per andare a lavorare su una piattaforma petrolifera. Quella notte abbiamo fatto una festicciola all’albergo, e pare che ci sia stata una rissa. È successo dopo che mi sono sbronzato; mi hanno portato a letto di peso. Andy mi ha raccontato che Howie e un paio di locali hanno pestato un paio di hippy che erano alla festa. Qualcuno ha chiamato l’unico poliziotto del posto e lui cercava Howie.» Allargo le mani davanti a me. «Intendiamoci, queste sono cose che mi ha raccontato Andy, quindi potrebbero anche essere palle, ma ci scommetto che, almeno fino a questo punto, è tutto vero. Credo che Andy abbia offerto a Howie un posto nell’albergo, in modo che potesse nascondersi mentre la polizia lo cercava; ormai gli altri saranno convinti che Howie si trovi sulla piattaforma.» Tamburello sul tavolo e guardo il pacchetto di sigarette di McDunn, sperando che capisca. «Grissom», dico, di colpo. Ci ho pensato tutta la notte, ma non mi è venuto in mente, mentre ora, parlandone, me lo sono ricordato all’improvviso. «Ecco chi era. Howie Grissom. Il cognome era Grissom.»
Provo una terribile sensazione di vuoto, di nausea. Le mani hanno ripreso a tremare; me le infilo tra le gambe. Faccio una risatina. «Ho persino visto il poliziotto locale davanti allo studio del dentista, il giorno della festa. Ho pensato che fosse andato a farsi otturare un dente, ma si vede che Andy era riuscito a entrare nello studio e a scambiare le cartelle.»
«Stiamo confrontando i denti del cadavere trovato nell’albergo con le cartelle negli archivi dell’esercito», mi rivela McDunn, annuendo. Guarda l’orologio. «Dovremmo avere una risposta già questa mattina.» Scuote la testa. «Ma perché proprio quei due? Perché Lingary e il dottor Halziel?»
Gli spiego il perché, gli racconto degli altri due tradimenti, dell’ufficiale che aveva lasciato morire i suoi uomini per nascondere la propria inadeguatezza (perlomeno, questo pensava Andy, e comunque era questo che contava) e del medico che non si era preoccupato di andare a visitare una paziente e che, quando infine l’aveva fatto, aveva liquidato il grave disturbo della giovane come un banalissimo malessere.
Finalmente McDunn mi offre una sigaretta. Che gioia! La prendo e aspiro forte, tossendo un po’. «Immagino», dico, «che stia andando sul personale perché i suoi abituali bersagli stanno diventando più cauti.» Mi stringo nelle spalle. «E forse immagina che vi metterò sulla sua strada, o che magari lo capirete da soli, e quindi sta pareggiando i vecchi conti in sospeso fin che può, prima che anche quelle persone comincino a sospettare qualcosa.»
McDunn sta fissando il pavimento e continua a giocherellare con il dorato pacchetto di sigarette. Scuote la testa. Ho l’impressione che sia d’accordo con quanto ho appena detto e stia scuotendo la testa come segno d’impotenza di fronte all’insondabile tortuosità della mente umana. Non so perché, ma mi fa pena.
Facciamo una pausa quando un giovane agente entra per portarci il tè; la guardia alla porta prende la sua tazza e McDunn e io sorseggiamo dalle nostre in silenzio.
«Dunque, ispettore», riprendo, appoggiandomi allo schienale della sedia. Diamine, mi sto quasi divertendo, rimorsi a parte. «Andiamo o no?»
McDunn stringe le labbra con aria mesta. Poi annuisce.
Inciampo in qualcosa nascosto tra le felci, ruoto a mezz’aria mentre mi cede la caviglia, e cado all’indietro, avvitandomi su me stesso. Rimango a terra, boccheggiante, terrorizzato che l’uomo arrivi e mi afferri mentre sono lì, indifeso. Poi sento un urlo.
Mi rialzo.
Abbasso lo sguardo e vedo su che cosa sono inciampato: è un ramo caduto, grande più o meno quanto un braccio. Lo fisso, andando indietro con la memoria fino a quel lontano giorno sul fiume gelato.
Prendi un ramo.
Un altro urlo.
Prendi un ramo.
Continuo a fissare il ramo; è come se il cervello mi urlasse nella testa e non so che cos’altro stia ascoltando, ma non sta ascoltando; il mio cervello sta urlando Scappa! Scappa! però il messaggio non arriva, c’è qualcos’altro che si frappone, qualcosa che mi tira indietro, che mi tira verso Andy, verso l’argine ghiacciato. Vedo Andy che grida, che allunga una mano verso di me, che sta per scivolare via di nuovo e io non posso fare niente… Questa volta invece sì, questa volta io posso fare qualcosa, e lo farò.
Afferro il ramo e lo libero dall’erba e dalle felci. Ricomincio a correre, ma verso il luogo da cui sono appena scappato; tengo il ramo davanti a me, stretto fra le mani. Sento le urla soffocate di Andy: per un istante, temo di averli persi, di averli sorpassati senza accorgermene, ma poi li vedo, quasi davanti a me. L’uomo si sta muovendo su e giù sopra Andy, il suo fondoschiena risalta grande e bianco contro il verde delle felci; ha ancora lo zaino in spalla e questo è bizzarro, spaventoso e ridicolo al contempo. Preme una mano sulla faccia di Andy; mi volta la schiena, ma un ciuffo di capelli rossi gli è caduto su un orecchio. Porto il ramo al di sopra della spalla destra, sempre tenendolo con le due mani, corro verso di loro, supero con un salto un cespuglio basso e atterro di fianco all’uomo, abbassando contemporaneamente il ramo. Lo colpisco con forza, avverto uno schianto sordo e cupo, mentre la testa gli si piega di lato. L’uomo grugnisce, fa per alzarsi; poi crolla a terra. Gli vado sopra.
Andy sta ansimando, cerca di riprendere fiato. Riesce a tirarsi fuori da sotto l’uomo, ha un po’ di sangue sul sedere. Allontana da sé l’uomo, che cade di lato e poi rotola in avanti finendo, con un lamento, a faccia in giù.
Andy fa un respiro profondo, mi fissa; poi si tira su i calzoni, allunga una mano e mi strappa via il ramo. Lo solleva sopra la testa e lo cala con forza sulla nuca dell’uomo, una volta, due, tre.
«Andy!» urlo. Lui solleva il ramo, quindi lo lascia ricadere a terra. Rimane lì, fremente, si stringe nelle braccia, premendo il mento contro il petto; la testa e il corpo sono scossi da un tremito incontrollabile. Fissa l’uomo: dalla nuca, sotto i capelli rossi, sta uscendo del sangue.
«Andy?» Tendo una mano per toccarlo, ma lui si ritrae.
Ci alziamo entrambi e, immobili, osserviamo la macchia di sangue che si allarga.
«Credo che sia morto», sussurra Andy.
Tremando, allungo una mano e lo rivolto sulla schiena. Ha gli occhi mezzi aperti, ma non sembra che respiri. Gli afferro un polso e lo stringo per un po’, cercando di sentire il battito.
«Che cosa facciamo?» chiedo, lasciando andare il corpo inerte, che rotola nuovamente a pancia in giù. Il sole getta chiazze di luce sull’erba e sulle felci intorno a noi. Gli uccelli cinguettano dai rami sopra le nostre teste e in lontananza sento il rumore del traffico sulla strada.
Andy non risponde.
«Sarà meglio che lo diciamo a qualcuno, non credi, Andy? Sarà meglio dirlo a qualcuno, eh? Sarà meglio dirlo… alla tua mamma e al tuo papà. Dovremo dirlo alla polizia, anche se lui è… anche se era… Insomma è stata legittima difesa, è così che la chiamano, legittima difesa. Lui… stava cercando di ucciderci, di ucciderti; è stata legittima difesa, possiamo dirlo, la gente ci crederà, è stata legittima difesa…» Andy si volta verso di me. E pallido e teso. «Chiudi la bocca!»
Chiudo la bocca. Ma non riesco a smettere di tremare.
«E allora, che facciamo?» dico con un gemito.
«Lo so io», risponde Andy.
Andiamo a Heathrow su un’auto civetta, una Granada. Londra in una soleggiata mattina di novembre. Gente, macchine, edifici, negozi. Osservo la vita reale che prosegue il suo corso e mi sembra un film di fantascienza. Mi stupisco nel constatare quanto mi appaia aliena, strana e distante. Provo un bizzarro senso di nostalgia. Osservo gli uomini e le donne che affollano le strade o siedono nelle loro macchine, nei furgoni, negli autobus, nei camion, e la loro libertà mi appare inestimabilmente preziosa, esotica, inebriante. Poter passeggiare, guidare, fare tutto ciò che si desidera… Cristo, sono dentro da meno di una settimana e già mi sento come uno che esce dopo trent’anni.
Eppure so che questa gente non si sente libera, so che corre o che se ne sta seduta e intanto si preoccupa per il lavoro, per il mutuo, perché è in ritardo o per la paura che l’IRA abbia messo una bomba nel cestino dei rifiuti lì vicino… Ciononostante la guardo e avverto una terribile nostalgia, perché penso di aver ormai perso tutto: l’ordinarietà della vita, la capacità di farne parte e di prendervi parte. Spero proprio che il mio sia soltanto un atteggiamento po’ melodrammatico e che presto ogni cosa verrà ricondotta alla normalità, a com’era un tempo, prima che cominciasse questo incubo, ma ne dubito. Dentro di me comprendo che, anche se tutto finirà nel migliore dei modi, la mia vita è cambiata profondamente, e per sempre.
Ma chi se ne frega. Se non altro sono tornato nel mondo reale, e con un minimo di controllo su me stesso.
Sono stato ammanettato, con discrezione, al sergente Flavell — la chiave la tiene McDunn — e insieme a noi ci sono un paio di agenti in borghese; ho la netta sensazione che siano armati fino ai denti, ma la tensione si è un po’ allentata. Non credo che mi considerino più il sospettato numero uno. Sono convinto che McDunn mi creda, e per il momento ciò mi basta. Quei poveracci del capitano — poi maggiore, ormai in pensione — Lingary e del dottor Halziel mi hanno aiutato alquanto, scomparendo in modo così misterioso. Cerco di non pensare a quello che Andy potrebbe fare loro. Cerco anche di non pensare a quello che potrebbe fare a me, se mai ne avesse l’opportunità.
Stiamo percorrendo la cara vecchia sopraelevata, parte della M4 (un tratto che i camion in panne sembrano prediligere), quando arriva una telefonata per McDunn. Lui solleva la cornetta, ascolta, aspira aria tra i denti per un po’ e poi dice: «Grazie». Mette giù l’apparecchio e si volta a guardarmi. «Era l’esercito», spiega, e poi si gira di nuovo a guardare la strada intasata dal traffico della tarda mattinata. «Il corpo nell’albergo non è quello di Andrew Gould.»
«Hanno confrontato i dati con quelli della cartella di Howie?» chiedo.
McDunn annuisce. «E i dati corrispondono a quelli di Gould. Non proprio esattamente — si era fatto fare altri lavori da allora —, però mi hanno riferito che si può esserne sicuri al novantanove per cento. Le cartelle sono state scambiate.»
Mi appoggio allo schienale e sorrido; per un poco sento dentro di me un calore che sostituisce la nausea. Ma non dura molto.
McDunn chiama al telefono qualcuno della polizia del Tayside e gli chiede di mettersi in contatto con i Gould per fermare il funerale.
Pranzo per cinque a dodicimila metri, Edimburgo vista dall’alto: grandiosamente grigia e un po’ nebbiosa. Atterriamo poco dopo l’una e ci stringiamo tutti e cinque su una Jaguar XJ. L’auto corre veloce verso nord e oltrepassa il ponte: non ha luci rotanti né sirena, eppure fila come un razzo È il tragitto autostradale più tranquillo che abbia mai fatto; tutta una volata sui centosessanta, senza problemi, senza doversi preoccupare di macchine civetta della polizia; il traffico davanti a noi sembra dileguarsi nell’aria, ragazzi, tutti frenano (e talvolta sbandano, e a quelli che guidano probabilmente vengono i sudori freddi) si gettano umilmente a sinistra e frenano di nuovo. In vita mia, non ho mai visto tante BMW darti strada così docilmente: sembra quasi che guidino tutti delle Due cavalli. È fantastico.
Gli afferriamo una gamba per uno e lo trasciniamo a faccia in giù tra le felci, in direzione del versante nord-occidentale della collina. I suoi calzoni sono ancora abbassati intorno alle caviglie e continuano a impigliarsi. Siamo costretti a fermarci, a girarlo, a tirarglieli su e ad allacciarglieli. Ora il suo pene è piccolo e, sopra, c’è un po’ di sangue, secco e incrostato. Trasciniamo l’uomo sotto gli alberi. Andy tiene ancora in mano il bastone con cui l’ha colpito.
Arriviamo a una macchia folta, formata da rododendri e da cespugli di more. Andy si fa strada attraverso il sottobosco e così trasciniamo l’uomo in mezzo ai rovi, dentro la verde oscurità. Lo zaino s’impiglia nei rami e Andy glielo toglie e lo spinge davanti a noi.
Arriviamo a un tozzo cilindro di pietre grezze: è la seconda presa d’aria del vecchio tunnel della ferrovia che corre sotto la collina.
Dall’autostrada facciamo in un lampo. Sembra incredibile, ma, se guidi una macchina della polizia, la gente ti aiuta addirittura a sorpassare. Quasi rimpiango di essere diventato un giornalista e non un autista della polizia: guidare così è un vero piacere. Ma forse, a pensarci bene, proprio questo lo rende meno eccitante.
A Gilmerton, dove un tempo erano parcheggiate le tre FIAT 126 blu, c’è una Sapphire Cosworth bianca e arancione che ci aspetta, acquattata all’incrocio; quando le passiamo davanti, ci lampeggia. Ferma all’ultimo incrocio per Strathspeld c’è un’altra autopattuglia.
«Facciamo le cose in grande stile, eh?» chiedo a McDunn.
Lui si limita ad annuire.
Arriviamo al villaggio. Osservo la mia vecchia casa: i cespugli e gli alberi sono più alti. C’è un’antenna parabolica sul tetto e una serra di fianco all’edificio. Osservo i negozi e i palazzi dall’aria familiare che mi sfilano davanti: il vecchio negozio di oggetti da regalo della mamma (ora è un videoshop), il pub dove ho bevuto la mia prima birra, il vecchio distributore di papà, ancora in servizio. C’è anche un’altra macchina della polizia, parcheggiata davanti ai giardini.
«I Gould sono in casa?» chiedo.
McDunn scuote la testa. «Si trovano nell’albergo davanti al quale siamo appena passati.»
Mi sento sollevato. Credo proprio che non avrei saputo cosa dire loro. «Salve! La bella notizia è che non ho ucciso vostro figlio, anzi, lui non è affatto morto, ma la cattiva notizia è che lui è un pluriomicida.»
Cinque minuti dopo arriviamo alla casa.
La spianata di ghiaia sembra il parcheggio di una stazione di polizia. Mentre McDunn scende dalla macchina, sento un gran frastuono e alzo gli occhi verso il cielo coperto: cazzo, abbiamo persino l’elicottero!
McDunn si mette a parlare con alcuni pezzi grossi in divisa fermi sui gradini davanti al portone. Mi guardo intorno. Le cornici intorno alle finestre sono state ridipinte, le aiuole sembrano un po’ trascurate, ma non è cambiato nulla. Non sono più stato qui da quel lontano giorno, dalla settimana successiva alla morte di Clare; anche allora ogni cosa aveva questo aspetto smorto e sbiadito.
McDunn ritorna verso la macchina, incrocia lo sguardo di Flavell e gli fa un cenno. Scendiamo e seguiamo McDunn dentro la casa.
Anche all’interno non è cambiato nulla: la casa ha lo stesso aspetto e il medesimo odore di allora: pavimenti di parquet lucidissimo, vecchi tappeti sontuosi ma consunti, mobili assortiti in gran parte molto vecchi, un sacco di piante in vaso e quadri con panorami e ritratti sbiaditi dal tempo appesi alle pareti coperte da pannelli di legno. Passiamo sotto la curva della grande scalinata ed entriamo nella sala da pranzo. La stanza è piena di poliziotti; aperta sul tavolo, c’è una mappa della proprietà che copre quasi tutto il ripiano. McDunn mi presenta agli altri agenti. Non ho mai ricevuto tante occhiate sospettose in tutta la mia vita.
«Allora, dov’è il corpo?» chiede uno degli agenti in uniforme. Fa parte della polizia dello Strathclyde e si trova qui perché l’elicottero è proprietà loro.
«È ancora qui», gli rispondo. «A differenza… dell’uomo che state cercando.» Mi rivolgo a McDunn, l’unico volto amico e l’unica persona che possa guardare senza sentirmi come un ragazzino di cinque anni che ha appena fatto pipì nei calzoni. «Credevo che l’idea fosse quella di lasciare che il funerale si svolgesse comunque, o perlomeno di fare finta che si svolgesse. Lui sarebbe stato qui sicuramente. Avreste potuto catturarlo.»
Il volto di McDunn sembra di pietra. «Non ci è parso il modo migliore di procedere», spiega, e, per la prima volta, si esprime come un portavoce della polizia.
Ho l’impressione che alcuni dei presenti, fasciati nelle uniformi nere dal taglio perfetto, siano a disagio; dall’atmosfera generale e dallo scambio di occhiate capisco che su questo punto c’è stata parecchia discussione.
«Stiamo sempre aspettando questo cadavere», dice il poliziotto del Tayside, il comando ufficialmente incaricato di condurre questa fase dell’inchiesta. «Signor Colley», aggiunge.
Studio la mappa della proprietà. «Vi ci porto», annuncio. «Avrete bisogno di un palanchino o di qualcosa di simile, di una cinquantina di metri di corda e di una torcia. E anche di un seghetto.»
Andy stringe la grata di ferro e comincia a tirarla.
«Questa viene via», dice con un grugnito. Gli trema ancora la voce.
Lo aiuto. Riusciamo a sollevarla da una parte, ma dall’altra è trattenuta da una cerniera di metallo e non possiamo alzarla più di così.
Andy prende il ramo con cui ha colpito l’uomo e lo incastra sotto la grata: ne esce fuori un pezzo, ma, nel punto in cui un ramo più piccolo si è staccato, c’è un nodo, e la grata si blocca in quel punto, sollevata di circa mezzo metro dal bordo di pietra.
Andy getta lo zaino nel camino della presa d’aria, poi si piega per prendere l’uomo, lo afferra sotto un’ascella e cerca di sollevarlo.
«Su, vieni!» sibila.
Lo tiriamo su: la schiena è contro la base di pietra, la testa gli ciondola sul petto. Sulle pietre rimane una piccola scia di sangue. Andy afferra i polpacci dell’uomo, se li posiziona sotto le ascelle e li tira su. Io invece cerco di sollevargli le spalle, e la testa urta il bordo di pietra sottostante la grata. Lo spingiamo e lo solleviamo con tutte le nostre forze: le spalle strisciano contro il bordo, le braccia sono rivolte verso l’alto. Andy spinge, grugnendo e scivolando sulle foglie e sul terreno umido. Alzo il sedere dell’uomo con quanta forza ho in corpo, ma i calzoni restano impigliati nello spigolo di una pietra e cominciano a scendere; in quel momento, poi, il ramo che tiene su la grata si sposta e la griglia di ferro cade giù, andando a sbattere sul petto dell’uomo.
«Merda!» impreca Andy sottovoce. Lottiamo per risollevare la grata e la puntelliamo di nuovo con il ramo. La testa dell’uomo ciondola nel vuoto. Lo spingiamo per le gambe, ma queste si piegano all’altezza delle ginocchia, e siamo costretti a tenerle sollevate sopra le nostre teste per farle stare dritte; poi, però, mentre lo spingiamo e mentre i calzoni, impigliati contro il bordo di pietra, continuano a scendere, improvvisamente le braccia cadono nel vuoto, ed è più facile spingerlo. Ci sfugge di mano e scivola dentro la presa d’aria, strisciando sul bordo. I calzoni gli si fermano intorno alle caviglie e poi si raccolgono intorno agli scarponi che, un attimo dopo, scompaiono dentro la presa d’aria, sollevandosi verso l’alto e andando a colpire la grata all’ultimo momento; il ramo scivola nuovamente e la grata si chiude con un tonfo. Il ramo cade dentro e scompare.
Rimaniamo immobili per qualche secondo. Poi si sente — a meno che non sia frutto della nostra immaginazione — un tonfo molto lontano. Andy si scuote all’improvviso e si arrampica fino al bordo del camino. Guarda giù, nel buio, attraverso la grata.
«Lo vedi?» gli chiedo.
Andy scuote la testa. «No, ma prendiamo qualche ramo. Non si sa mai», dice.
Riapriamo la grata, puntellandola con un altro ramo, e passiamo la mezz’ora seguente a radunare pezzi di legno e rami caduti, sparsi lungo tutto quel versante della collina, trascinandoli in mezzo ai cespugli e gettandoli infine nella bocca del camino. Stacchiamo i rami morti dagli alberi e dai cespugli e ci aggrappiamo con forza a quelli vivi per strapparli. Raccogliamo bracciate di foglie morte e gettiamo pure quelle. Ma non riusciamo a vedere nulla.
Alla fine buttiamo anche un grosso ramo con tanti rami più piccoli ancora attaccati e un sacco di foglie — praticamente mezzo cespuglio — che scende per pochi metri e poi si blocca. Finalmente ci fermiamo, tutti sudati, senza fiato, tremanti per la fatica e per lo shock ritardato. Lasciamo andare la grata e gettiamo l’ultimo ramo, che s’impiglia nel ramo grosso incastrato vicino all’imboccatura. Ci sediamo sulle foglie morte ai piedi della presa d’aria, con la schiena appoggiata alle pietre.
«Stai bene?» chiedo ad Andy dopo un po’.
Lui annuisce. Allungo una mano per toccarlo, ma lui si ritrae.
Restiamo seduti lì per qualche tempo; continuo a sollevare lo sguardo, sempre più terrorizzato all’idea che l’uomo non sia morto oppure che sia diventato uno zombie e si stia arrampicando su per il camino, verso di noi, che apra la grata e ci afferri entrambi per i capelli. Mi alzo e mi metto davanti ad Andy. Mi tremano ancora le gambe e ho la bocca asciutta.
Anche Andy si alza. «Una nuotata», dice.
«Come?»
«Andiamo… a fare una nuotata. Giù al lago, al fiume.» Lancia un’occhiata alla presa d’aria.
«Sì», annuisco, cercando di sembrare allegro e nient’affatto preoccupato. «Andiamo a fare una nuotata.» Mi guardo le mani. Sono tutte sporche e graffiate. C’è anche un po’ di sangue. Tremano ancora. «Buona idea.»
Usciamo dai cespugli del sottobosco nella vivida luce del sole.
Passano alcuni minuti, forse tre o quattro, durante i quali vengo preso da una sconcertante esplosione di speranza, di gioia, d’incomprensione e di timore. Non trovano il corpo in fondo alla presa d’aria.
Abbiamo attraversato i giardini e il bosco, la collina su cui Andy e io ci sdraiavamo al sole, durante tutte quelle estati ormai lontane, siamo scesi nella piccola valle e poi su di nuovo tra gli arbusti e gli scheletri color rosso scuro delle felci morte, fino ad arrivare agli alberi sulla sommità della collinetta. Da ovest soffiava un vento umido che scuoteva le gocce di pioggia dagli alberi alti e spogli e portava fino a noi i rumori della strada.
In tutto siamo circa venti persone, compresi i cinque o sei agenti che portano l’attrezzatura. Sono sempre ammanettato al sergente Flavell. Avevo creduto, ingenuamente, che organizzassero qualche operazione segreta per catturare Andy mentre assisteva al proprio funerale; mi ero immaginato poliziotti che, sussurrando nelle radio, sgattaiolavano nel sottobosco, lo circondavano e lo arrestavano. E invece eccoci qui, in metà di mille, che avanziamo rumorosamente nel bosco alla ricerca di un cadavere.
Ma il cadavere non c’è. Io insisto nel dire che c’è. Ribadisco che c’è il corpo di un uomo in fondo al camino della presa d’aria, e loro mi credono. Ci mettono parecchio ad aprirsi un varco tra gli arbusti per arrivare alla presa, devono segare i rami di rododendro e strappar via i cespugli di more e di altri arbusti; quindi fanno leva sotto la grata di ferro e la sollevano senza la minima difficoltà. Uno dei poliziotti più giovani, con tuta ed elmetto, si lega con la corda — in una delle Range Rover avevano quelle corde che usano gli scalatori — e si cala giù nell’oscurità.
McDunn ha una piccola ricetrasmittente con sé e sta ascoltando.
La radio gracchia. «Un sacco di rami», spiega il poliziotto, e poi: «Giù, sul fondo».
L’elicottero ci gira sulla testa. Mi sto chiedendo dove si trovi Andy in questo momento, quando sento il tizio nel camino che annuncia: «Qui non c’è niente».
Cosa?
«Solo un sacco di rami e di detriti», dice il poliziotto.
McDunn non reagisce. Io, sì. Fisso la radio. Cosa sta dicendo? Provo un senso di vertigine. È successo. Me lo ricordo bene. Da allora ho sempre vissuto con questo ricordo, annidato in una zona remota del mio cervello. So che è successo. Mi sembra che il bosco si sia messo a girare in tondo. Forse, se non fossi ammanettato al sergente, cadrei per terra. (E ricordo le parole dell’uomo, ricordo perfettamente la sua voce, mi sembra ancora di sentirlo mentre dice: «Sono un poliziotto!»)
Alcuni degli agenti radunati intorno alla presa d’aria hanno un’espressione scettica.
«Un minuto», dice il poliziotto nel tunnel.
Il cuore mi batte forte. Che cos’ha trovato? Non so se desidero che lo trovi o meno.
«C’è uno zaino, qui», spiega la voce alla radio. «Uno zaino grosso, marrone… Sembra pieno, e piuttosto vecchio.»
«Nient’altro?» chiede McDunn.
«Solo rami… Non riesco a vedere sino in fondo alla galleria, nelle due direzioni. Ma c’è uno spiraglio di luce in lontananza… verso est.»
«È l’altra presa d’aria», chiarisco a McDunn. «In quella direzione», aggiungo, e gliela indico.
«Vuole che dia un’occhiata in giro, signore?»
McDunn guarda il capo della polizia del Tayside, che annuisce. «Sì», dice McDunn. «Se sei sicuro che non c’è pericolo.»
«Direi di no, signore. Mi sto slegando.»
McDunn mi fissa e aspira aria tra i denti. Evito gli sguardi degli altri poliziotti. McDunn solleva impercettibilmente le sopracciglia.
«Era qui», gli dico. «Eravamo Andy e io. Quell’uomo ci ha assaliti. Ha abusato di Andy. Lo abbiamo colpito con un pezzo di legno. Glielo giuro.»
McDunn non sembra molto convinto. Allunga la testa per sbirciare dentro la bocca del camino.
La testa mi gira ancora. Appoggio una mano alla base di pietra per mantenere l’equilibrio. Se non altro, lo zaino c’è. È successo, per Dio. Non è stata un’allucinazione. Probabilmente il tizio era morto quando lo abbiamo gettato giù — allora lo avevamo dato per scontato, ma con gli anni erano arrivati i dubbi —, tuttavia, anche se non lo fosse stato, doveva essere morto per forza quando aveva picchiato sul fondo. Era un volo di almeno trenta metri.
Forse Andy aveva deciso che il corpo non era nascosto adeguatamente ed era tornato a spostarlo? Chissà, magari lo aveva tirato su, per portarlo via e seppellirlo altrove… Non avevamo più parlato di quel giorno, e non ci eravamo più avvicinati alla vecchia presa d’aria. Non so che cosa abbia fatto, da allora, ma ho sempre creduto che, come me, anche lui abbia cercato di dimenticare, di far finta che quell’episodio non sia mai accaduto.
Rifiuto. Diamine, a volte è la miglior cosa.
«Mi sentite?» gracchia la radio.
«Sì», dice McDunn.
«L’ho trovato.»
Ci vorrà un po’ per tirare su il corpo; devono calare altri agenti, e scattare fotografie. Le solite menate. Ritorniamo quasi tutti alla casa. Non so cosa pensare. Finalmente è finita, è uscito fuori, la gente lo sa, lo sanno altre persone; lo sa la polizia, non è più una cosa tra Andy e me, è di dominio pubblico. Provo un certo sollievo; non m’importa quello che succederà ora, eppure continuo a pensare di aver tradito Andy, qualsiasi cosa lui abbia fatto.
Il corpo dell’uomo si trovava sotto l’altra presa d’aria. Quel povero cristo probabilmente si è trascinato fin là, percorrendo più di cento metri, con lo scopo di raggiungere lo spiraglio di luce. La nostra brillante idea di nascondere il corpo, gettandogli addosso un bel po’ di rami, era stata perfettamente inutile. In tutti questi anni sarebbe stato sufficiente che qualche ragazzino fosse andato là con una torcia o con un fascio di giornali da bruciare e avrebbe scoperto il corpo. Hanno visto molti rami sotto la presa d’aria da cui abbiamo spinto giù l’uomo; secondo il giovane poliziotto che è sceso per primo, sembra che il tizio sia strisciato fuori da sotto la pila. Anche così, non so proprio come abbia fatto a sopravvivere a quella caduta; Dio solo sa che cosa si è rotto, come ha sofferto, quanto ci ha messo a strisciare verso l’altro spiraglio di luce, quanto ci ha messo a morire.
Una parte di me prova compassione per lui, nonostante quello che ha tentato di fare, nonostante quello che ha fatto. Chissà, forse avrebbe finito con l’uccidere Andy, o forse tutti e due, ma nessuno merita di morire in quel modo.
Ma c’è un’altra parte di me che esulta, felice che quell’uomo abbia pagato per quello che ha fatto, che per una volta il mondo giri nel modo giusto, punendo il cattivo… Questo però m’intristisce e mi fa star male perché penso che è proprio questo che Andy sta provando ora.
È strano essere a Strathspeld, trovarsi nella loro casa e non aver visto i signori Gould. Alcuni dei poliziotti se ne sono andati; sul vialetto di ghiaia sono rimasti soltanto una decina tra macchine e furgoni. L’elicottero è andato a fare rifornimento, è tornato indietro ed è rimasto a ronzare per un po’ sopra la casa, poi è rientrato a Glasgow. Pare che abbiano istituito posti di blocco, messo pattuglie su tutte le strade della zona e abbiano perquisito la tenuta. Il tutto con scarse possibilità di successo.
Tornati nella casa, seduti nella biblioteca, racconto a un ispettore del Tayside ciò che è successo in quel giorno di vent’anni fa. È presente anche McDunn. Non è doloroso come pensavo. Gli racconto le cose proprio come sono andate, da quando ci siamo rincorsi su per la collina e siamo andati a sbattere contro l’uomo; sorvolo su quello che Andy e io stavamo facendo un attimo prima, e sulla battuta dell’uomo a proposito di cose sporche, da pervertiti. Non glielo posso raccontare con McDunn seduto lì: sarebbe come raccontarlo di fronte a mio padre. In realtà, credo che non lo racconterei a nessuno, non tanto perché mi vergogno (almeno, questo è ciò che dico a me stesso), quanto perché è un fatto privato: l’ultimo segreto che posso tenere nascosto, tra Andy e me, che mi permette di credere che c’è almeno una cosa in cui non l’ho tradito completamente.
Non sono più ammanettato al sergente Flavell: lo hanno liberato in modo che possa prendere appunti. Ormai sono legato soltanto a me stesso, con i polsi ammanettati insieme. I tomi rilegati in pelle della famiglia Gould, vecchi e rispettabili, assistono dall’alto allo sgradevole racconto che sono costretto a fare. Fuori è già buio.
«Pensate che sarò incriminato?» chiedo ai due ispettori. So già che non esiste un limite di tempo oltre il quale un omicidio non è più perseguibile.
«Non spetta a me dirlo, signor Colley», risponde il poliziotto del Tayside, raccogliendo il taccuino e il registratore.
Gli angoli della bocca di McDunn si piegano all’ingiù; aspira aria tra i denti. Chissà perché, ma la sua presenza mi dà coraggio.
Hanno ordinato da mangiare allo Strathspeld Arms; lo stesso cibo che era stato preparato per i partecipanti al funerale. Alcuni di noi mangiano nella sala da pranzo. Ora sono ammanettato a un massiccio poliziotto di Londra e siamo entrambi costretti a mangiare con una mano sola. Avevo sperato che mi levassero del tutto le manette, ma probabilmente pensano che il corpo nel tunnel di per sé non provi nulla, e che Andy potrebbe essere comunque morto, oppure potrebbe essere ancora vivo e lui stesso — o qualcun altro — potrebbe aver rapito Halziel e Lingary per fornirmi una copertura.
Mentre sto rincorrendo con la forchetta l’ultimo pezzo di quiche che scivola nel piatto, McDunn entra, mi si avvicina, fa un rapido cenno con la testa all’agente e apre le manette.
«Vieni qui», mi dice, mettendosi le manette in tasca. Mi pulisco le labbra e lo seguo fino alla porta.
«Cosa c’è?» gli chiedo.
«È per te», risponde, attraversando l’ingresso, diretto al telefono; la cornetta è appoggiata sul tavolo e un agente sta collegando un piccolo congegno che sembra una ventosa. Dalla ventosa parte un cavo che finisce in un walkman. L’agente fa partire il registratore. McDunn si volta a guardarmi, poi si ferma davanti al telefono e lo indica con un cenno del capo. «È Andy», dice.
E mi porge la cornetta.