FUOCO AMICO

Mi dirigo a sud dopo quella che considero una vigorosa colazione e un ancor più vigoroso accesso di tosse. Faccio rifornimento a una piccola stazione di servizio subito prima d’immettermi sulla A9, e, mentre mi fanno il pieno, telefono a Fettes.

Il sergente Flavell mi sembra un po’ sconcertato quando gli dico che sono stato a Jersey e che ora sto tornando a Edimburgo. Gli chiedo se posso riavere il mio laptop nuovo e lui mi risponde che non lo sa. Mi suggerisce di andare subito da loro, perché vogliono parlarmi. Gli dico che va bene.

Prendo la A9 in direzione sud; mi fanno compagnia Michelle Shocked, i Pixies, Carter e Shakespear’s Sister. Nei dintorni di Perth, mentre sto cambiando cassetta, sento un po’ di radio. Stanno trasmettendo una canzone di Bon Jovi che s’intitola I’ll Sleep When I’m Dead che non ha niente a che fare con la canzone di Uncle Warren che ha lo stesso titolo, e questo mi fa incavolare più del dovuto. Arrivo a Edimburgo poco dopo l’ora di pranzo e passo sotto i cartelli che annunciano trionfanti l’ormai prossimo Eurosummit. Non so come ci siano riusciti, ma i cartelli sono stampati con caratteri che mi fanno venire voglia di pronunciare la parola «Eurosummit» come «Edìn-bùrg», e io ci vivo in questo posto, per Dio!

Cristo, ’fanculo il potere di dissuasione indipendente, il Vero Articolo di Merda, il fottuto filtraggio a freddo, Edìn-bùrg, Edìn-summit, Dormirò Quando Sarò Morto mentre invece adesso sono soltanto un normalissimo bianco di mezza età con i capelli lunghi e la voce stridula, una testa di cazzo, uno sfigato a metà strada tra un grunge e un clone dei Led Zeppelin in versione metallara. Che montagna di cazzate!

In Ferry Road, in vista della ridicola guglia della Fettes School e a solo pochi minuti dalla centrale di polizia, mi accendo la prima sigaretta del giorno: non ne ho voglia, ma mi sento giù. (Uncle Warren ne avrebbe da dire, al riguardo.)

E, in un certo senso, si rivela una cosa furba perché, non appena arrivo alla centrale, mi arrestano.


L’albergo è buio e silenzioso. Le cantine sono piene di cianfrusaglie che magari, un tempo, sono state anche utili, ma che ora sono coperte d’acqua, di fango o di muffa. Alcune delle travi del soffitto sono bianche, per via del marciume soffice che le ricopre. Sei al pianoterra, attraversi la sala del biliardo, la sala da ballo e un locale adibito a ripostiglio. Il tavolo da biliardo è impregnato d’acqua, il panno è tutto macchiato e le sponde spaccate. Le vecchie moto, i tavoli, le sedie e i tappeti nella grande sala sembrano giocattoli dimenticati in una casa di bambola abbandonata da tempo. La pioggia che batte piano contro le finestre è l’unico rumore. Fuori è buio pesto.

Le rampe salgono senza interruzione fino all’ultimo piano, con un andamento a spirale intorno alla maestosa tromba delle scale ormai in sfacelo. Al piano superiore, la reception è vuota e polverosa. Il bar puzza di alcolici rancidi e di fumo di sigarette stantio, la sala da pranzo vuota emana un odore di umido e di decomposizione. La cucina è fredda, vuota, e i tuoi passi rimbombano. C’è una vecchia cucina economica, alimentata da una bombola di gas, e un solo lavello. Appeso a un chiodo c’è un grembiule.

Prendi il grembiule e lo indossi.

Ai due piani seguenti ci sono le camere da letto. Anche qui è molto umido e in alcune stanze il soffitto è crollato; l’intonaco e il canniccio coprono i mobili vecchi e massicci, e sembrano una goffa imitazione dei teli antipolvere. La pioggia picchia più forte contro i vetri, il vento ha rinforzato, e sibila tra le spaccature degli infissi.

L’ultimo piano sembra un po’ meno umido e un po’ più caldo, anche se il vento e la pioggia si sentono ancora più forte che altrove.

In fondo a un corridoio buio, oltre l’uscita di sicurezza tenuta aperta con un cuneo, c’è una porta spalancata. Dà su un salottino, illuminato da quel che resta di un fuoco nel caminetto, ormai quasi spento. Ci sono un paio di ceppi appoggiati davanti al fuoco ad asciugare, e nella stanza c’è odore di pino e di fumo di sigaretta. Di fianco al caminetto c’è un vecchio recipiente per il carbone, che però contiene una latta di kerosene quasi piena.

Nel montacarichi, in un angolo della stanza, ci sono pezzi di legno di tutte le dimensioni, molti ancora umidi. Prendi il più grosso, grande più o meno come il braccio di un uomo, e, senza far rumore, attraversi il salotto in direzione della camera. Entri e ti fermi ad ascoltare la pioggia e il vento e — appena avvertibile — il respiro lento e ritmico di un uomo che dorme nel letto. Avanzi verso il letto, tenendo il pezzo di legno davanti a te.

L’uomo si muove nell’oscurità, ma è un movimento che senti più che vedere. Ti fermi e rimani immobile. Poi l’uomo nel letto comincia a russare.

La pioggia martella sui vetri. Senti l’odore di whisky e di tabacco vecchio.

Vai vicino al letto e sollevi il pezzo di legno sopra la testa.

Rimani fermo così.

In un certo senso, questa volta è diverso. Si tratta di una persona che conosci. Ma ciò non ti deve distrarre, perché non è questo il punto. Anche se sai che è importante, non puoi permettere che lo sia per te, non puoi permettere che una cosa del genere ti blocchi. Cali il pezzo di legno con tutta la tua forza.

Lo colpisci sulla testa, però non senti il rumore dell’impatto, perché nel frattempo urli, urli come se fossi tu l’uomo nel letto, come se fossi tu a essere colpito, a essere ucciso. Dalla sagoma nel letto proviene un rumore terribile, simile a un risucchio, a un gorgoglio. Sollevi il pezzo di legno e lo abbassi nuovamente, urlando più forte.

L’uomo non si muove più né emette rumori.

Accendi la torcia elettrica. C’è un sacco di sangue: rosso dove ha inzuppato le lenzuola bianche, quasi nero dove si è raccolto a formare una pozza. Ti togli il grembiule e gli copri la testa e le spalle. Poi scendi di sotto a prendere la bombola della cucina a gas.

Le lenzuola prendono fuoco velocemente: il kerosene ha la meglio sul sangue. Lasci la bombola ai piedi del letto e ti allontani a passi veloci lungo il corridoio più breve, imbocchi l’uscita di sicurezza e ti ritrovi all’esterno, nella rumorosa oscurità della notte. Corri giù per la scala antincendio di metallo che si trova sul lato cieco dell’edificio.

Arrivato in cima alla strada ti fermi e ti volti. In alto, sul tetto, si cominciano a vedere le fiamme che danzano arancioni nella notte.

Un paio di minuti più tardi, mentre ti allontani lungo la strada che costeggia il lago, ti sembra di sentire anche la bombola di gas che esplode, ma il temporale infuria e non ne sei del tutto sicuro.


Sono passati tre giorni, ma non ne sono sicuro, potrei anche sbagliarmi perché non dormo bene ho degli incubi loro credono che sia io ma non sono io, o no? Sto cominciando ad avere qualche dubbio. Ha una maschera da gorilla sulla faccia è parla con una voce da bambino tiene in mano una gigantesca siringa e io sono legato alla sedia e urlo. Non ce la faccio più. Continuano a interrogarmi, a chiedermi dov’ero che cos’ho fatto perché l’ho fatto, perché li ho fatti fuori tutti, dov’ero con chi ero e chi sto pensando di prendere in giro perché non la faccio finita e confesso e se non sono stato io, chi è stato? Sono in prigione, a Londra, a Paddington Green, il centro di massima sicurezza che usano per i Provo e sono convinti che sono così pericoloso un tale rischio per la nazione che mi hanno portato qui e mi tengono dentro sulla base della legge contro il terrorismo Gesù Cristo qualcuno di loro si deve ancora convincere del tutto di non avere a che fare con un qualche terribile gruppo eversivo collegato con l’IRA, il Movimento nazionalista gallese e gli scozzesi teste di cazzo. Mi hanno portato qui da Edimburgo quello stesso giorno, mi hanno fatto salire in tutta fretta su un furgone senza finestrini, ammanettato a un tranquillo ragazzone di Londra che si rifiutava di parlarmi ma che non parlava molto neppure con gli altri due poliziotti seduti nel retro e si limitava a guardare fisso davanti a sé. Mi è parso di viaggiare tutta la notte ci siamo fermati solo una volta a una stazione di servizio sulla M1 c’è voluto un po’ per metterci d’accordo e poi sono tornati con varie bibite in lattina panini dolcetti pasticcio di carne di maiale e cioccolatini e ci siamo messi tutti a mangiare e poi mi hanno chiesto se dovevo andare in bagno io ho detto di sì e allora loro hanno aperto la portiera e mi hanno portato nel bagno degli uomini, con due poliziotti di guardia alla porta e dei tizi che sembravano camionisti lì fuori che sbirciavano e aspettavano il loro turno dopo la mia visita privata; io volevo solo fare pipì ma non ci sono riuscito anche se il ragazzone non guardava, solo averlo lì di fianco ammanettato a me m’inibiva e così hanno controllato tutti i cubicoli e mi hanno tolto le manette però ho dovuto lasciare la porta socchiusa e poi siamo usciti e allora ho visto le altre macchine della polizia Cristo! Una Range Rover e pure una Senator — cazzo sono proprio un VIP! — e poi di nuovo a bordo del furgone e via verso Londra dove comincia l’interrogatorio. Si concentrano sull’assassinio di Sir Rufus per adesso, perché hanno trovato un biglietto un fottuto biglietto da visita nei boschi vicino al cottage bruciato; non mio — quello sarebbe stato troppo ovvio — ma un biglietto di un tizio che conosco di Jane’s Defence Weekly con degli appunti scarabocchiati dietro:


CTRL + ALT O = PDV CAMB

SHFT + ALT = CHN DI CMND ZOOM (SALTA)

LATTE FORM PANE SCHIUMA BARBA


È la tua scrittura? mi chiedono e lo è, certo che lo è, quelli sono codici di controllo di Despot quando il mouse dà i numeri e poi c’è la lista della spesa. Mi pare di ricordare vagamente di aver annotato i codici mesi fa e poi di aver perso il pezzo di carta su cui li avevo scritti. Fisso il biglietto tutto sgualcito e sporco di fango, sigillato in una bustina di plastica come quelle che si usano per le dosi, riconosco la mia scrittura e sento che mi si secca ancora di più la bocca, riesco solo a balbettare qualcosa del tipo sì, sembrerebbe la mia scrittura ma, voglio dire, chiunque potrebbe averlo preso, insomma… Ma loro hanno un’aria piuttosto soddisfatta e le domande continuano.

E l’unica cosa che riesco a pensare è Non confessare, non confessare, non confessare. Ci sono investigatori, ispettori, capi e comandanti, ci sono tutti, tecnici, agenti investigativi speciali e dell’antiterrorismo e della polizia locale più di quanti si possa immaginare tutti che mi fanno domande, tutti che mi fanno le stesse domande del cazzo e io che cerco di dare le stesse risposte del cazzo. Vedere l’ispettore McDunn che succhia saliva tra i denti e divide con me le sue Benson Hedges è come vedere un vecchio amico, anche se pure lui ha le sue domande da farmi. Quando i ragazzi dell’antiterrorismo sembrano perdere interesse per me è un sollievo, però rimane tutto il resto e io non riesco a pensare non riesco a pensare lucidamente e non posso farci niente.

All’inizio è già brutta così ma poi peggiora quando trovano dell’altro. Ne hanno trovati altri due e proprio mentre mi trovavo là Cristo mentre mi trattenevano mentre le cose stavano succedendo è uscito fuori dell’altro mentre mi stavano interrogando e loro mi fissavano con incredulità orrore e disgusto e io che facevo cosa? Cosa c’è? Cosa c’è ancora? Cosa dovrei aver fatto d’altro? E mi hanno raccontato di Azul, a Jersey, e prima — mi pare che fosse prima — mi avevano mostrato le foto di tutti quanti scattate dalla scientifica: Bissett infilzato sulla cancellata, grottesco, a braccia e gambe divaricate e abbandonate; il vibratore sporco di sangue usato sul giudice in pensione, Jamieson; il corpo dissanguato e ormai come vuoto di Persimmon, legato a un cancelletto in una pozza di sangue, e poi quel nulla dove avrebbe dovuto esserci qualcosa; quello che restava di Sir Rufus Carter, quattro ossa annerite, contorte e piegate, la mandibola del cranio carbonizzato bloccata in un urlo muto senza più traccia di carne, praticamente solo denti, e tutto nero, i chiodi, il legno, le ossa. Ma sono le bocche, le mandibole che ricordo, penzoloni o aperte — le loro urla mute — e poi è ancora peggio quando mi mostrano il video, mi mostrano il video che pensano io abbia fatto, o che io penso che loro pensano io abbia fatto, ma che invece non ho fatto; mi costringono a guardarlo ed è orribile: c’è un uomo vestito di nero o di blu scuro con una maschera da gorilla e continua a succhiare da una bomboletta che tiene in mano e che deve essere elio perché gli fa venire una voce da bambino che nasconde la sua vera voce, ha legato quest’altro uomo grasso a una poltroncina di metallo, con la bocca chiusa con il nastro adesivo, un braccio bloccato contro il bracciolo della sedia, la manica della camicia arrotolata e l’ometto grasso sta strillando con tutte le sue forze ma non sembra che gridi perché il suono esce dal naso e l’uomo con la maschera da gorilla guarda in macchina e poi l’uomo seduto e tiene in mano un’enorme siringa, che sembra presa da un incubo o da un vecchio film dell’orrore e sento il cuore che mi batte all’impazzata perché proprio di questo si tratta. Questo è un film dell’orrore questo pazzo sta girando il suo film dell’orrore e non puoi neppure dire a te stesso, cazzo, questa è finzione non è realtà, che forti questi effetti speciali, perché invece è tutto vero e l’uomo gorilla sta spiegando con quella sua orribile voce da bambino che cos’ha in quel flacone e in quella siringa e a metà filmato mi viene da vomitare e loro bloccano la proiezione.

Quando è finito si passa a un’altra scena dove si vede una persona che potrebbe essere lo stesso ometto grasso ed è sempre legato a una sedia, ma questa volta è una sedia per invalidi con le ruote e un tavolinetto pieghevole davanti, i legacci che gli assicurano il torso sarebbero facili da slegare, solo che le sue mani giacciono senza vita. Dietro alla testa c’è una specie di tavola e ha qualcosa intorno alla fronte che gli tiene la testa diritta, ma i suoi occhi — Cristo i suoi occhi! — è come se non ci fosse niente e McDunn dice che lo chiamano Stato Vegetativo Persistente ed è esattamente quello che sembra ragazzi uno Stato Vegetativo Persistente.

E poi ci sono gli altri due. Prima Azul e la sua ragazza. Lei è sotto shock e disidratata ma incolume, lui ha gli arti come quelli di un negro invece che di un bianco, necrosi come da congelamento, la cancrena parte dalle estremità ma il fatto è che le estremità incominciano alle spalle e all’inguine. È vivo ma se foste in lui preferireste non esserlo. Venditore d’armi, okay, il Vendicatore il Giustiziere il Pazzo Furioso gli ha fatto fuori braccia e gambe, e poi l’editore infilzato, il giudice tenero con gli stupratori stuprato e il pornografo avvelenato e infartato e l’uomo che era così insensibile al bagno di sangue nella guerra Iran-Iraq costretto a vedere i suoi animali in gabbia morire come animali da macello come soldati e poi morto dissanguato trasformato in una fontana di sangue e poi l’uomo d’affari per cui il profitto viene prima della sicurezza e che non solo ha contribuito a uccidere un migliaio di persone ma poi ha cercato di non risarcire i sopravvissuti e i dipendenti si becca la sua esplosione di gas privata — pare che in gergo tecnico si chiami blevey — ma, cazzo!, chiunque egli sia (dando per scontato che si tratti di un uomo) ha proprio un bel senso dell’umorismo o almeno una buona dose d’ironia. È riuscito a produrre il suo video porno con la morte reale del protagonista — se si accetta per morte quella cerebrale — e comunque è la cosa più vicina a un film di questo genere che chiunque possa ammettere di aver visto o trovato, neppure quelli della Squadra per la lotta alla pornografia che lo cercano da anni — ma anche se tutti danno per scontato che esistano nessuno ne ha mai trovato uno — fino a che non arriva questo uomo gorilla e ne gira uno tutto da solo e proprio per mettere in guardia gli altri mercanti porno che trattano roba simile! È esilarante, è veramente divertente e lo spieghi a McDunn e ti viene pure da ridere, perché non è colpa della polizia se non riesci a dormire, è colpa dell’incubo in cui sei inseguito da un gorilla con la voce di un bambino e una grossa siringa in mano con la quale vuole incularti, non è ridicolo? Non riesci a dormire e sei tu stesso la causa della tua insonnia e gli dici ehi, tra un po’ rischio davvero di farmi del male mentre m’interrogate! Ma sembra che non capisca la battuta e ti riportano in cella e poi di nuovo nella stanza degli interrogatori con le finestre chiuse da sbarre e oscurate in modo che tu non possa vedere fuori e accendono il registratore per registrare tutto come al solito e la cosa diventa sempre più pazzesca. Mi costringono a imitare la voce di Michael Caine! Mi chiedono d’impersonare Michael Caine, cazzo, roba da non crederci! E poi arriva ’sto tecnico o cosa diavolo è e mi chiedono di respirare elio da una maschera e mi fanno ripetere alcune delle frasi che l’uomo gorilla ha detto nel video e mi sembra proprio di diventare lui, stanno cercando di farmi diventare lui; a me non sembra di assomigliargli ma che cazzo ne so che cosa pensano loro, sono in troppi per capire cosa pensano; ce n’è un bordello, agenti da tutta l’Inghilterra, tanti accenti diversi, Londra, Midlands, Galles, Scozia, e sa Dio quale altro posto, non sono più solo Flavell e McDunn, anche se di quando in quando ci sono anche loro e specialmente McDunn mi guarda con un’espressione strana come se non riuscisse a convincersi che sono stato io a fare tutte queste cose e chissà perché ho la strana impressione che mi consideri un po’ patetico, voglio dire — pur sempre deciso a incastrare il colpevole — al limite lui ha più rispetto per l’uomo gorilla che per me, perché io sono crollato sotto il peso delle loro domande delle cose che mi hanno messo in testa con quelle foto e quel video (questo significa che il gorilla mi è già entrato dentro, mi ha fottuto il cervello, mi ha riempito la testa con l’idea, le immagini, l’essenza stessa di quello che ha fatto) e io che credevo di essere un duro e mi sbagliavo, sono solo uno smidollato, sto crollando, mi sto disintegrando e per questo, a meno che non sia il miglior attore che abbia mai visto, McDunn non riesce ad accettare l’idea che io sia stato capace di fare le cose che ha fatto l’uomo gorilla, ma le prove parlano chiaro, specialmente le date e l’ora e via dicendo, tutto punta contro di me, per non parlare di quell’articolo di critica televisiva che ho fatto che ora sembra la lista della spesa dell’assassino.

E va avanti così, va avanti per un’altra notte con un altro incubo e poi di nuovo nella stanza degli interrogatori con il registratore e altre domande su Stromeferry-noferry e sul Jersey e sui voli che ho preso ed è allora che mi dicono dell’altro uomo è allora che mi dicono: «A proposito, Andy il tuo miglior amico è saltato in aria nel suo albergo quando questo è bruciato; probabilmente prima lo hanno picchiato a morte e gli hanno sfondato la testa ma forse tu lo sai già visto che sei stato tu a farlo, no?»


Ho mentito a proposito di qualcosa. Prima. Ho detto quello che provavo, non come stavano realmente le cose. Ó quello che provo e non come realmente sono. A voi la scelta.

«Andy. Yvonne.»

«Ciao», fa lei, stringendogli la mano.

«E quello è William», dico ad Andy. «Quello laggiù con la sciabola.»

Andy si volta a guardare William; ha il volto coperto dalla maschera, è tutto vestito di bianco, e tiene in mano la sciabola. Improvvisamente avanza a passi velocissimi. Il suo avversario fa un salto indietro e cerca di parare i colpi, ma è sbilanciato, e William lo incalza, roteando la spada con un movimento preciso e irruente, fino a toccare il fianco dell’avversario con la punta della lama curva e pesante.

«Ahi, accidenti», borbotta l’altro mentre Andy si ritira, rilassandosi. Si tolgono le maschere e William viene verso di noi, tenendo la maschera sotto un braccio e la sciabola in mano, rivolta verso il basso, il volto rosso e coperto di sudore, luccicante sotto le forti luci del palazzetto dello sport. Gli presento Andy.

Andy, con i suoi capelli corti, la giacca blu e i calzoni perfettamente stirati, il volto bello ma con qualche foruncolo e un’espressione leggermente sdegnosa e annoiata… Ha ventun anni, due più di noi, ma William sembra più sicuro di sé e a proprio agio.

«Salve», dice William, gettando indietro un ciuffo di capelli biondi che gli è caduto sulla fronte. «Dunque tu saresti l’eroe di Cameron?»

Andy gli rivolge un debole sorriso. «E tu devi essere… Willy, giusto?»

Sospiro. Speravo tanto che questi due andassero d’accordo.

Yvonne dà un colpetto sulla spalla a William con la sua maschera. Anche lei ha tirato di scherma, ha il volto lucido di sudore, i capelli lunghi e neri raccolti in una coda. Penso che assomiglia a una principessa italiana, la discendente di un casato minore senza sfarzo regale, ma con una tranquilla opulenza: grandi ville sbiadite dal tempo a Roma, sul Canal Grande e sulle colline toscane. «A fare la doccia», lo richiama. «Dobbiamo ancora preparare qualcosa per stasera.» Mi sorride. «Ci vediamo al bar fra dieci minuti?»

«Perfetto», rispondo. Andy resta in silenzio. Yvonne si rivolge a lui.

«Vieni alla festa?»

«Sì», risponde lui, «se per voi va bene.»

«Ma certo», fa lei con un sorriso.


«Ah! Brucia, brucia!»

«Cosa?»

«Ho beccato il peperoncino… Ho addentato un peperoncino verde intero… Ah…» annaspa Yvonne, sventolandosi una mano davanti alla bocca e appoggiandosi al mio braccio. «Ah, grazie.» Infila le dita nella mia vodka e limone e tira fuori un cubetto di ghiaccio. «Tieni», dice poi, e mi porge uno spinello, mentre fa ruotare in bocca il cubetto e cerca di respirare, il tutto contemporaneamente. La guardo, ridendo; lei mi osserva, aggrottando la fronte con espressione dolorante. Andy è di fianco a me, ma all’improvviso scompare tra la folla. La musica è forte, l’appartamentino nel campus è pieno zeppo di gente. È una calda sera di maggio, gli esami sono finiti e tutti fanno festa. Le finestre sono spalancate sulla notte e il suono del primo album dei Pretenders si riversa all’esterno, sopra la distesa erbosa che degrada verso il piccolo lago, mentre le luci della biblioteca e degli edifici dell’amministrazione brillano sull’altra sponda.

«Ah, la mia bocca!» sospira Yvonne e mi dà una pacca sulla spalla. «Dimostra un po’ più di partecipazione, porco!» Le stanno lacrimando gli occhi.

«Scusa.»

Andy torna con un bicchiere di latte. «Ecco», dice, porgendolo a Yvonne. Lei lo guarda. Lui fa un cenno con la testa verso la bocca di lei. «Il ghiaccio non serve», le spiega. «La… sostanza responsabile del bruciore nei peperoncini» — e io sorrido perché so, dal modo in cui si è espresso, che lui conosce benissimo il termine tecnico, ma non vuole sembrare troppo saccente — «non è solubile nell’acqua, ma lo è nel latte. Prova, vedrai che funziona.»

Yvonne si guarda intorno. Le porgo una mano e lei sputa delicatamente quel che resta del cubetto di ghiaccio sul mio palmo, poi sorseggia il latte. Alzo le spalle e rimetto il ghiaccio nel mio drink.

Yvonne beve tutto il latte. Annuisce. «Va molto meglio. Grazie.»

Andy le rivolge un fugace sorriso, le toglie il bicchiere vuoto dalle mani e si allontana tra la folla, diretto in cucina.

«Oh», esclama Yvonne, asciugandosi le guance con un fazzolettino di carta. Osserva Andy che si allontana. «Dunque, dopotutto, anche i boy scout servono a qualcosa.»

«Quando torna, chiedigli se ti mostra il suo coltellino svizzero», ribatto, ridendo, sentendomi un po’ perfido. Yvonne indossa una T-shirt nera molto scollata e una semplicissima gonna nera lunga a portafoglio. I capelli sono tirati indietro con un fiocco di pizzo bianco, e le ricadono morbidi sulle spalle. Ha braccia muscolose e asciutte, seni abbronzati alti e sodi e capezzoli che sembrano piccoli rigonfiamenti rigidi contro il cotone nero della T-shirt. L’effetto finale è perversamente erotico, e provo la consueta fitta di gelosia.

Guardo il mio bicchiere e le restituisco lo spinello; prende una boccata chiudendo gli occhi, mentre io porto il bicchiere alle labbra, sorbendo quel pezzettino di ghiaccio che lei ha succhiato e rigirandomelo poi in bocca, immaginando che sia la sua lingua.


«Ma era vero, i laburisti non funzionavano.»

«Vuoi dire che non producevano i profitti che vogliono vedere i capitalisti. Le implicazioni dello spot erano che i laburisti avevano causato una disoccupazione di massa e che i Tories l’avrebbero risolta. Invece non soltanto l’hanno peggiorata, ma sapevano anche che sarebbe andata così. Ammesso poi che fossero stati sinceramente convinti che la loro politica era la migliore per la nazione, erano perfettamente consapevoli che avrebbero gettato centinaia di migliaia di persone sulla strada, e avrebbero dovuto arrivarci anche da Saatchi Saatchi se solo si fossero dati la pena di riflettere. È stata tutta una menzogna.»

«È stata un’elezione», ribatte William, con aria stanca.

«Che c’entra?» esclamo. «Era comunque una menzogna!»

«Non ha importanza, e in ogni caso è solo una situazione transitoria; alla fine riusciranno a creare altri posti di lavoro. Per il momento si stanno liberando dei pesi morti: ci saranno nuovi posti di lavoro nelle industrie in crescita.»

«Stronzate! Ma se non ci credi neppure tu!»

William scoppia a ridere. «Tu non puoi sapere che cosa credo io. Però se quello spot ha contribuito a far vincere le elezioni a Maggie, per me sta bene. Su, Cameron, in guerra e in amore tutto è permesso. Dovresti smetterla di fare l’estremista e cominciare a dare una mano perché le cose migliorino.»

«Non tutto è permesso in guerra e in amore! Non hai mai sentito parlare della Convenzione di Ginevra? Se Yvonne s’innamorasse di un altro, tu cosa faresti, li uccideresti tutti e due?»

«Proprio così», annuisce William senza scomporsi, mentre Andy si avvicina a noi con una lattina di birra in mano. Qualcuno gli passa uno spinello, ma lui si limita a porgerlo a me. William scuote la testa. «Anche tu devi sopportare tutto questo?» chiede ad Andy.

«Cosa?»

«Oh, questo continuo lavaggio di cervello sui Tories e sul fatto che sono schifosi imbroglioni.»

«Ah, sempre», conferma Andy, e sorride.

«Hanno mentito per andare al potere», riprendo. «E mentiranno ancora per cercare di mantenerlo. Come potete fidarvi di loro?»

«Spero soltanto che cerchino di sistemare una volta per tutte i sindacati», commenta William.

«Era il momento di cambiare», dice Andy.

«Il Paese ha bisogno di un bel calcio nel culo», conviene William, con aria di sfida.

Sono sbalordito. «Dunque sono circondato da bastardi egoisti che credevo miei amici», esclamo, dandomi un colpo sulla fronte con la mano con cui tengo lo spinello, rischiando quindi di darmi fuoco ai capelli. «È terribile.»

Andy annuisce. Beve un sorso di birra e mi guarda al di sopra della lattina. «Io ho votato Tory», mi comunica, tranquillo.

«Andy!» grido, sbigottito, quasi disperato.

«Terapia d’urto», commenta, ridendo, rivolto più a William che a me.

«Come hai potuto?» Scuoto la testa; poi passo lo spinello a William.

Andy riflette con esagerata serietà. «È stato quello spot a farmi decidere, credo. Non so se ce l’hai presente: IL LABURISMO NON LAVORA PER LA NAZIONE. Fantastico come slogan politico: conciso, memorabile, efficace, persino arguto. Ho un poster nella mia stanza, al St. Andrew’s. L’hai mai visto, William?»

William annuisce, e mi guarda, ridendo. Cerco di mantenermi calmo, ma è difficile.

«Molto spiritoso, Andy.»

Andy mi fissa. «Oh, su, Cameron», mi dice con un tono tra l’esasperato e il comprensivo. «È successo. Devi accettarlo. Potrebbe anche rivelarsi meglio di quanto pensi.»

«Vallo a dire ai disoccupati», ruggisco, allontanandomi verso la cucina. Poi mi fermo. «Uno di voi due Tories bastardi vuole qualcosa da bere?»


Sono a letto, sveglio, nella mia stanza nell’appartamento che divido con altri studenti e che si trova al piano inferiore rispetto a quello di William e Yvonne. Mi sono fatto un po’ di anfe che ha portato un amico e non riesco a dormire. Ho anche lo stomaco in subbuglio: probabilmente troppi vodka e limone, e il punch alla festa era schifoso. Il mio appartamento è sul lato opposto dell’edificio rispetto al loro; si vedono la strada di accesso, i prati fino al vecchio muro di cinta e gli alberi alti che si ergono sulla collinetta dall’altra parte. La finestra è aperta; sento il rumore del vento tra gli alberi. Presto sarà l’alba. Sento la porta d’ingresso che si apre e si richiude e, dopo pochi secondi, la porta della camera che viene aperta. Mi batte forte il cuore. Una figura scura s’inginocchia di fianco al mio letto. Sento il suo profumo.

«Cameron?» mormora.

«Yvonne?» chiedo con un sussurro.

Mi mette le mani dietro la testa e posa le labbra sulle mie. Sono nel bel mezzo del bacio quando mi viene in mente che forse sto sognando, ma immediatamente ho la prova che non è così. Le sfioro la nuca e poi le spalle. Lei si toglie la camicia da notte e scivola dentro il letto singolo di fianco a me, calda, nuda e già bagnata.

Fa l’amore in fretta, con forza, quasi in silenzio. Anch’io cerco di non fare rumore e — dato che prima mi sono fatto una sega veloce e furtiva — ci metto un po’ di più a venire. Quando raggiunge l’orgasmo, lei lancia un breve urlo soffocato, come un cinguettio, e affonda i denti nella mia spalla. Mi fa un male cane. Resta sopra di me per qualche minuto, ansante, con la testa sulla mia spalla, poi si riscuote, si tira su e, mentre scivolo fuori di lei, i suoi capezzoli duri mi sfiorano il petto. Mi avvicina le labbra all’orecchio.

«Ho approfittato di te, Cameron», dice, quasi facendo le fusa, a voce bassissima.

«Sono un uomo di facili costumi», le sussurro.

«William ha bevuto troppo e si è addormentato sul più bello.»

«Ah, ah! Be’, quando hai bisogno, sono qui.»

«Hmm. Questo non è mai successo, d’accordo?»

«Resterà fra queste quattro mura.»

Mi dà un bacio ed esce, infilandosi la camicia da notte e camminando veloce a piedi nudi, richiudendo piano la porta alle sue spalle.

Sento un leggero russare, che proviene dalla stanza vicina alla mia: uno dei ragazzi con cui divido l’appartamento. L’unico isolante acustico sui blocchetti di cemento che dividono la sua stanza dalla mia è costituito da qualche mano di pittura. Probabilmente è questo il motivo per cui Yvonne ha fatto così piano.

Mi sollevo appena e guardo ai piedi del letto, sul pavimento, dove Andy se ne sta rannicchiato nel suo sacco a pelo, nascosto nell’oscurità, ed è questo il motivo per cui io ho fatto così piano.

«Andy?» sussurro pianissimo, pensando che forse lui ha continuato a dormire per tutto il tempo.

«Fottuto bastardo. Hai tutte le fortune», dice con un tono di voce normale.

Torno a sdraiarmi, e rido in silenzio.

Mi sanguina la spalla, nel punto in cui i denti hanno lacerato la pelle.


Un’altra mattina, un altro interrogatorio, qualche battuta…

Sono seduto sulla sedia di plastica grigia nella solita stanza spoglia con McDunn e con uno della polizia del Galles: un tizio grande e grosso con i capelli biondi striati e un abito grigio che gli va stretto. Ha il collo da giocatore di rugby, occhi d’acciaio e mani enormi che tiene incrociate sul tavolo. Sembrano due mazze di carne e ossa.

McDunn socchiude gli occhi. Fa quel rumore, quel risucchio con i denti. «Che cos’ha fatto agli occhi, Cameron?»

Deglutisco, faccio un respiro profondo e lo fisso. «Ho pianto», spiego. Lui pare sorpreso. Il ragazzone gallese distoglie lo sguardo.

«Pianto?» ripete McDunn, aggrottando la fronte.

Respiro a fondo, nel tentativo di controllarmi. «Mi avete detto che Andy è morto. Andy Gould. Era il mio migliore amico. Era il mio migliore amico e… e non sono stato io… a ucciderlo, va bene?»

McDunn mi guarda, leggermente perplesso. Il poliziotto gallese invece mi fissa come se avesse intenzione di usare la mia testa a mo’ di palla da rugby.

Un altro respiro profondo. «Ho pianto per lui.» E non solo per lui. «Va bene?»

McDunn annuisce lentamente, con un’espressione remota negli occhi, come se non stesse annuendo per quello che gli ho appena detto. In realtà non ha ascoltato una sola parola.

Il gallese si schiarisce la gola e prende la valigetta. Tira fuori alcuni documenti e un altro registratore. Mi passa un foglio formato A4. «Le dispiace leggere quello che è scritto su questo foglio, Colley?»

Leggo quello che c’è scritto, dall’inizio alla fine: sembra il comunicato che il nostro uomo ha fatto al telefono dopo che Sir Rufus è stato cotto alla brace. Pare che siano stati gli estremisti del Movimento nazionalista gallese a rivendicare la sua uccisione.

«Una voce in particolare?» gli chiedo. «Michael Caine, John Wayne, Tom Jones?»

«Prima proviamo con la sua voce, eh?» dice Occhi d’Acciaio. «Poi passiamo a un accento gallese.» Mi sorride, il tipo di sorriso che immagino ti rivolga un attaccante del pacchetto di mischia prima di staccarti un orecchio con un morso.


«Sigaretta?»

«Grazie.»

Seduta pomeridiana. Di nuovo McDunn. Pare che stia diventando lui lo specialista in Colley. Accende lui la sigaretta per me, tenendola tra le labbra. Le mie mani non tremano più come prima, dunque una simile premura non è più strettamente necessaria, però non m’interessa. Mi porge la sigaretta. La prendo e sa di buono. Tossisco un po’, ma sa comunque di buono. McDunn mi guarda, comprensivo. La cosa mi fa piacere. Lo so come dovrebbe funzionare il meccanismo, conosco l’importanza di stabilire un rapporto di fiducia, di costruire un legame di complicità e tutte ’ste stronzate (e mi sento onorato che non abbiano fatto con me la solita farsa del poliziotto buono e del poliziotto cattivo, anche se forse non la fanno più con nessuno perché ormai la conoscono tutti, dopo averla vista migliaia di volte in TV), comunque provo veramente qualcosa per McDunn: lui è il filo che mi tiene legato alla realtà, il mio raggio di sanità mentale nel buio dell’incubo. Sto cercando di non dipendere troppo da lui, ma è difficile.

«Allora?» dico, appoggiandomi allo schienale. Indosso la casacca blu della prigione — aperta sul collo, ovviamente — e ho ancora i jeans che portavo quando mi hanno arrestato. Senza cintura non mi stanno tanto bene; a dire il vero sono un po’ sformati sul sedere, ma di questi tempi il look non è in cima alle mie priorità.

«Dunque», fa McDunn consultando il suo taccuino, «abbiamo trovato alcune persone che credono di ricordare di averla vista al Broughton Arms Hotel la notte di domenica 25 ottobre, quando è stato assassinato Sir Rufus.»

«Bene, bene.»

«E il lasso di tempo in cui poteva andare a Londra per aggredire Oliver, se si calcola le volte in cui lei — o chiunque sia — è stato visto nei gabinetti di Tottenham Court Road, è piuttosto stretto. Quel giorno tutti i voli da Edimburgo a Heathrow portavano ritardo… e questo rende la cosa decisamente impossibile.»

«Magnifico», dico, dondolandomi avanti e indietro sulla sedia. «Magnifico.»

«A meno che lei non avesse un sosia a Edimburgo oppure che un sacco di persone stiano mentendo», prosegue lui, «significa che lei doveva avere un complice a Londra, qualcuno che ha pagato per… hmm, fare la raccolta.» McDunn mi rivolge uno sguardo fermo. Non riesco ancora a decifrarlo; non sono in grado di capire se pensa che questo sia possibile oppure no, se pensa che questa sia una prova del fatto che non sono il suo uomo, oppure se crede che sia io, e che qualcuno mi abbia aiutato.

«Be’, senta», sbotto, «fate un confronto all’americana.»

«Su, su, Cameron», dice McDunn con indulgenza. Non è la prima volta che lo chiedo, e continuo a chiederlo perché non mi viene in mente altro. Il signor Azul, rimasto senza arti, penserà che sono io l’uomo che ha visto sulla porta? E i ragazzi di vita dei gabinetti di Tottenham Court Road? I poliziotti sono convinti che io abbia la corporatura giusta, e sospettano che l’uomo gorilla indossasse una parrucca e i baffi finti; forse addirittura denti finti. Mi hanno scattato qualche foto molto da vicino con una grossa macchina fotografica e ho il sospetto — da un paio di particolari che probabilmente non si aspettavano afferrassi — che queste foto verranno usate come base da manipolare al computer per vedere quanto corrispondo alle immagini del film. Comunque, la conclusione è che McDunn non crede che sia ancora il momento di un confronto. Mi studia con un’espressione seria e paterna e dice: «Non credo proprio che sia il caso, no?»

«Su, McDunn, mi dia una possibilità. Sono disposto a fare qualsiasi cosa. Voglio uscire di qui.»

McDunn giocherella con il pacchetto di sigarette, facendolo girare in tondo sul tavolo un paio di volte. «Be’, questo dipende da lei, Cameron.»

«Eh? Che intende dire?»

Oh, è riuscito ad agganciarmi. Sono tutt’orecchie, chino in avanti, gomiti sul tavolo, viso sollevato verso di lui. In altre parole, ho abboccato. Qualsiasi cosa intenda darmi a bere, me la berrò.

«Cameron», scandisce, come se fosse giunto a una decisione molto importante, e intanto aspira aria tra i deriti. «Lei sa che io non credo che sia stato lei.»

«Oh, bene!» esclamo, ridendo; poi mi appoggio allo schienale e mi guardo intorno, scruto le pareti nude e l’agente seduto di fianco alla porta. «E allora perché cazzo sono qui?»

«Non dipende da me, Cameron», spiega lui con tono paziente. «Lo sa.»

«E allora…?»

«Lasci che sia franco con lei, Cameron.»

«Oh, sia franco quanto vuole, ispettore.»

«Non credo che sia stato lei, Cameron, ma sono convinto che lei sappia chi è l’assassino.»

Mi porto una mano alla fronte, abbasso lo sguardo e scuoto la testa, poi sospiro con fare teatrale e lo fisso, abbassando le spalle. «Non so chi è, McDunn. Se lo sapessi, ve lo direi.»

«No, lei non ce lo può ancora dire», precisa McDunn, pacato e comprensivo. «Lei sa chi è, ma… non sa di saperlo.»

Lo fisso a bocca aperta. Ora si mette a fare il metafisico. Oh, merda! «Sta dicendo che si tratta di qualcuno che conosco.»

McDunn allunga una mano, con il palmo rivolto all’insù, e sorride. Decide di far girare il pacchetto di sigarette sul tavolo invece di parlarmi, così parlo io. «Be’, questo non lo so, ma una cosa è certa: si tratta di qualcuno che conosce me; insomma, quel biglietto scritto da me lo dimostra. Oppure ha qualcosa a che fare con quei tizi del…»

«…del Lake District», conclude McDunn con un sospiro. «Già…» L’ispettore è convinto che la mia teoria, secondo la quale sono i Servizi segreti che cercano d’incastrarmi, sia paranoia allo stato puro. «No.» Scuote la testa. «Credo che sia qualcuno che lei conosce, Cameron, qualcuno che lei conosce bene. Vede, credo che lei lo conosca bene… quanto… quasi quanto lui conosce lei. Suppongo che lei possa dirmi chi è. Davvero. Deve semplicemente pensarci.» Mi sorride. «È soltanto questo che lei deve fare per me. Deve semplicemente pensare.»

«Semplicemente pensare», ripeto, annuendo. Anche lui annuisce. «Semplicemente pensare», continuo a ripetere. McDunn continua ad annuire.


Estate a Strathspeld: il primo giorno dell’anno veramente torrido, un’aria calda e satura del profumo di ginestra che ricorda quello del cocco — quella ginestra che colora di giallo carico le colline — e dell’aroma dolce e pungente della resina di pino, che scende a goccioline sino a formare grosse bolle traslucide sui tronchi ruvidi. Gli insetti ronzavano e le farfalle riempivano le radure di silenziose esplosioni di colori. Nei campi, un re di quaglie correva, a capo chino, e il suo strano richiamo, quasi un suono di percussioni, si diffondeva monotono nell’aria satura di odori.

Andy e io arrivammo fino al lago e al fiume; arrampicandoci sulle rocce, prima risalimmo il fiume e poi discendemmo per osservare i pesci che guizzavano pigri fuori delle acque calme del lago, oppure si gettavano sugli insetti che ne punteggiavano la superficie piatta; li azzannavano da sotto il pelo dell’acqua, li uccidevano e li inghiottivano, lasciando solo lievi increspature. Ci arrampicammo anche su qualche albero in cerca di nidi, ma non ne trovammo.

Ci togliemmo le scarpe e le calze e cominciammo a sguazzare tra i giunchi che circondavano la piccola baia nascosta e frastagliata in cui il ruscello, quello che scendeva dal laghetto ornamentale vicino alla casa, si gettava nel lago, un centinaio di metri più in su lungo la riva, oltre la vecchia rimessa per le barche. Avevamo il permesso di tirare fuori la barca da soli purché indossassimo i giubbotti di salvataggio ed era appunto quello il nostro programma, ma ce lo riservavamo per dopo: saremmo andati a pesca o a fare un giretto.

Salimmo sulle basse colline a nord-ovest del lago e ci sdraiammo nell’erba alta sotto i pini e le betulle; rimanemmo lì a guardare la collina boscosa che si estendeva sull’altro lato della piccola radura, dove si trovava il vecchio tunnel della ferrovia. Più in là, nascosta da un’altra cresta boscosa, c’era la strada principale che portava a nord, ma il rumore del traffico ne tradiva la presenza soltanto se il vento soffiava da quella direzione. Ancora più oltre, le cime verdi e marrone dorato delle Grampian Mountains meridionali svettavano nel cielo azzurro.

Più tardi, quella sera, saremmo andati tutti a Pitlochry, a teatro. Sulle prime l’idea non mi aveva entusiasmato — avrei preferito un film — ma Andy pensava che fosse una gran cosa e così mi ero convinto anch’io.

Andy aveva quattordici anni, io ne avevo appena compiuti tredici ed ero molto orgoglioso della mia nuova condizione di teenager (e, come sempre, del fatto che per i due mesi seguenti sarei stato più giovane di Andy di un solo anno). Rimanemmo sdraiati nell’erba a guardare il cielo e le foglie tremolanti delle betulle argentate, a succhiare cannucce e a parlare di ragazze.

Frequentavamo scuole diverse: Andy era interno in una scuola esclusivamente maschile a Edimburgo, e tornava a casa durante i fine settimana. Io invece frequentavo la scuola superiore locale. Avevo chiesto a mamma e papà se potevo andare in collegio — quello di Edimburgo che frequentava Andy, per esempio — ma loro avevano risposto che non mi sarebbe piaciuto e che costava un sacco di soldi. Senza contare che là non ci sarebbero state ragazze: non mi preoccupava la cosa, eh? A dire il vero, questo commento mi mise un po’ in imbarazzo.

Anche l’osservazione economica mi lasciò confuso: ero abituato a considerare benestante la mia famiglia. Papà gestiva una stazione di rifornimento sulla strada principale che attraversava Strathspeld e mamma aveva un piccolo negozio di drogheria e di articoli da regalo. Dopo la Guerra dei sei giorni, quando avevano introdotto il limite di velocità di ottanta all’ora, razionando inoltre la benzina, papà era molto preoccupato; la cosa però si era risolta in fretta e, anche se il prezzo della benzina era salito, la gente aveva continuato a viaggiare e a spostarsi in automobile.

Sapevo bene che la nostra villetta moderna nella zona più periferica del villaggio, sopra il Carse, non era importante come la casa dei genitori di Andy, che era praticamente un castello e aveva il suo parco privato con stagni, ruscelli, statue, laghetti, fiumi, colline, boschi e persino la vecchia ferrovia che la attraversava in un angolo: era in effetti un grande giardino, immenso se paragonato al nostro unico acro di prato e di cespugli. Ma non avevo mai pensato che dovessimo preoccuparci tanto dei soldi; certo, ero abituato ad avere più o meno tutto quello che desideravo, e ormai lo consideravo una specie di diritto, come d’altronde fanno i figli unici quando i genitori non si comportano nei loro confronti in modo apertamente ostile.

Non mi era mai passato per la mente che gli altri bambini non fossero viziati come lo ero io, e ci sarebbero voluti anni — nonché la morte di mio padre — prima di capire che quella della spesa per mandarmi in collegio era stata soltanto una scusa: la semplice, affettuosa verità era che non volevano sentire la mia mancanza.


«No, non è vero.»

«Ti assicuro di sì.»

«Stai scherzando.»

«No.»

«Chi era?»

«Non sono fatti tuoi.»

«Ah, te lo stai inventando, impostore. Non è vero niente.»

«Era Jean McDuhrie.»

«Cosa? Stai scherzando.»

«Eravamo nella vecchia stazione. Aveva visto quello di suo fratello e voleva sapere se erano tutti uguali, me l’ha chiesto, e così io gliel’ho mostrato, ma soltanto se lei mi mostrava la sua, e così ha fatto.»

«Piccolo farabutto sporcaccione! Te l’ha lasciata toccare?»

«Toccare?» ripetei, sorpreso. «No!»

«Ah! Allora…!»

«Allora cosa?»

«Bisogna toccarla.»

«No, invece. No, se vuoi soltanto vederla.»

«Ma certo che devi toccarla.»

«Balle!»

«E com’era? C’erano dei peli, sopra?»

«Peli? Puah! No.»

«No? E quando è successo?»

«Non tanto tempo fa. Forse l’estate scorsa. Non me lo sto inventando, davvero.»

«Hmm.»

Ero contento che stessimo parlando di ragazze, perché pensavo che fosse un argomento in cui i due anni in più di Andy non contavano affatto: in questo avevo la sua stessa età e forse ne sapevo più di lui, perché frequentavo ragazze ogni giorno, mentre lui conosceva soltanto Clare, sua sorella. Quel giorno lei era andata a Perth, a far spese con sua madre.

«Hai visto quella di Clare?»

«Non essere disgustoso!»

«Perché disgustoso? È tua sorella!»

«Appunto.»

«Cosa vuoi dire?»

«Non sai proprio niente, vero?»

«Ci scommetto che ne so più di te.»

«Stronzate.»

Rimasi a succhiare la mia cannuccia per un po’, fissando il cielo.

«Tu ne hai peli, sul tuo?» dissi.

«Sì.»

«Non ci credo!»

«Vuoi vederlo?»

«Eh?»

«Te lo faccio vedere. Adesso è anche grosso perché abbiamo parlato di donne. Succede così.»

«Oh, sì! Guardati i calzoni! Lo vedo… Com’è grosso!»

«Ecco qua…»

«Ah! Uau!»

«Questa si chiama ‘erezione’.»

«Uau! Il mio non viene mai così grosso.»

«Be’, è normale. Tu sei ancora piccolo.»

«Fantastico! Sono un teenager, se non ti dispiace.»

Rimasi a osservare l’uccello di Andy — grande, dorato, rosso — che spuntava fuori della patta come una pianta dolcemente ricurva, come un frutto esotico che cresceva alla luce del sole. Mi guardai intorno, sperando che nessuno ci stesse osservando. Ci potevano vedere soltanto dalla cima della collina, dove si trovava la galleria del treno, e di solito nessuno arrivava fin là.

«Puoi toccarlo, se vuoi.»

«Non so…»

«Alcuni ragazzi a scuola si toccano l’uno con l’altro. Non è lo stesso che stare con una ragazza, ovviamente, però tanti lo fanno. Meglio che niente.»

Andy si leccò le dita e cominciò a passarsele su e giù sulla punta violacea del pene. «È bello. Tu lo fai già?»

Scossi la testa, senza riuscire a distogliere lo sguardo dalla saliva su quel cappuccio pieno, teso, che luccicava sotto la luce del sole. Mi sentivo un groppo in gola, una stretta allo stomaco; il mio uccello pulsava.

«Su, non startene lì così», disse Andy come se niente fosse, lasciando andare il cazzo, sdraiandosi nell’erba con le mani dietro la testa e fissando il cielo. «Fa’ qualcosa.»

«Oh… va bene», risposi con un sospiro, vagamente disgustato, con la mano che mi tremava. Gli presi l’uccello e tirai su e giù.

«Piano!»

«Va bene.»

«Sputa sulle dita.»

«Accidenti, non so come…» Mi sputai sulle dita; scoprii che la pelle era abbastanza libera da poter essere tirata su e giù sulla punta, e per un po’ feci così. Andy trasse un respiro più profondo, mi posò una mano sulla testa e mi accarezzò i capelli.

«Potresti usare la bocca», disse con voce rotta. «Se ti va… voglio dire.»

«Hmm, io… non saprei. Cosa succede… Ah!»

«Oh, oh, oh…»

«Puah, che schifo!»

Andy respirò profondamente e mi diede un colpetto sulla testa, ridendo. «Niente male per un principiante», commentò.

Mi pulii la mano sui suoi calzoni.

«Ehi!»

Avvicinai il viso al suo. «Ho visto quella di Clare», gli dissi.

«Cosa? Tu…!»

Saltai in piedi e corsi via, ridendo tra l’erba e i cespugli della radura. Anche lui saltò su, imprecando e saltellando, cercando di chiudersi la patta prima di corrermi dietro.

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