Despot è un gioco che simula la nascita e lo sviluppo di una civiltà, ed è stato ideato dalla HeadCrash Brothers, la stessa squadra che ci ha deliziato con Brits, Raj e Reich. È il loro ultimo programma, il più grande e il migliore, di una complessità bizantina, di una bellezza barocca, di un’immoralità spettacolare e in grado di provocare un’assoluta e totale dipendenza. È uscito da soli due mesi, e ci ho giocato praticamente ogni giorno, da quell’afoso lunedì mattina di agosto in cui sono uscito dal negozio di videogiochi della Virgin in Castle Street, stringendo la mia copia ancora cellofanata, e mi sono precipitato in ufficio leggendo il retro della scatola come un ragazzino degli anni ’60 con in mano l’ultimo modellino della Airfix.
Sono nel mio appartamento in Cheyne Street e sto giocando, mentre dovrei lavorare a un articolo. Il problema è che il gioco e la macchina vanno molto d’accordo; la HeadCrash ha ideato Despot in modo che sfrutti qualsiasi configurazione su cui viene installato. Il massimo rendimento si raggiunge però con un PC 386sx a 25 Mhz, con almeno 2 MB di RAM e 8 MB liberi di hard disk, più una scheda grafica S3; ovviamente può girare su qualsiasi PC, persino su un Atari 520 ST (anche se non così bene dal punto di vista grafico, né con la stessa velocità né con tutte le funzioni interattive abilitate). E altrettanto ovviamente fa le stesse cose su una macchina con caratteristiche superiori, ma si dà il caso che la sua configurazione ottimale sia esattamente quella che ho sul mio computer.
Va da sé che trattasi di pura coincidenza; non è il fato, il karma, non è nient’altro che un caso fortuito, ma, dannazione, questa sì che è fortuna! Nessuno spreco. Niente di più, niente di meno. Esattamente quello che ci vuole, la configurazione ottimale e più raffinata — il meglio che mi potesse offrire il mercato di allora al prezzo che potevo permettermi: non è passato neanche un anno ed è già quasi superato, ’sto bastardo, eppure lo sto ancora pagando — per far girare questo gioco sensazionale e incredibilmente machiavellico; è diventato subito un classico, era praticamente un anno avanti rispetto ai tempi, e forse è perfino meglio del sesso.
Sto giocando a Despot, ma sto pensando al sesso. Domani vedrò Y e non riesco a smettere di pensare al sesso. Ho un’erezione e me ne sto seduto, chino sul computer, al buio, nello studiolo dell’appartamento con la luce spenta, la radio accesa e il monitor inondato dalla grafica seducente delle schermate di Despot che si avvicendano con rassicurante dolcezza; la luce del monitor proietta l’ombra del cazzo sul ventre; ’sto fottuto affare continua a ostacolarmi e così cerco d’infilarlo sotto la scrivania, dove sfrega contro la struttura di metallo. Ma diventa freddo e non è per niente gradevole, così sono costretto a spingere indietro la sedia e ad appoggiarlo, ballonzolante e greve, sul bordo della tastiera, con la grossa testa porpora e l’unico occhio a fessura che mi guarda con aria ottusa e interrogativa, simile a un cucciolotto muto e caldo, e mi distrae. Continuo a pensare che dovrei farmi una sega, tuttavia non posso; voglio risparmiarmi per Y, non perché Y lo desideri in particolare, o perché questo influisca sulla mia prestazione, ma perché mi sembra importante, come parte del corretto rituale pre-coito.
Forse dovrei semplicemente mettermi un paio di mutande e tenere l’arnese sotto controllo… Ma mi piace starmene seduto qui, nudo, e sentire sulla pelle la dolce e tiepida brezza generata dalla ventola del termoconvettore nell’angolo.
E così, il piccolo grande uomo sta aspettando con ansia un caldo benvenuto sulle colline, un dolce ritorno nella profonda vallata (anche se è pronto ad accontentarsi di molto meno); nel frattempo, però, c’è il gioco, il quale minaccia di giocarsi da solo, visto che io sto facendo lo stesso. Despot infatti è interattivo, tuttavia, se lo lasci stare, lui continua a costruire il tuo mondo, sostituendosi a te; perché lui ti osserva, impara il tuo stile di gioco, impara a conoscerti, e fa del suo meglio per diventare te. Tutti i giochi del tipo «creatori di mondi» — quelli che simulano la vita o almeno qualche suo aspetto — se lasciati andare, sviluppano e cambiano lo scenario secondo le loro regole preprogrammate; Despot, invece, è l’unico che, con un minimo di addestramento, cerca davvero di emularti.
Accendo un’altra Silk Cut e sorseggio un po’ di whisky. Per il momento sto lontano dall’anfe, ma quando arriverò al prossimo livello-era (e ormai ci sono molto vicino), mi farò uno spinello. Tiro una lunga boccata e mi riempio i polmoni di fumo. Dalle sei di questa sera, da quando ho incominciato a lavorare per poi passare a Despot, ho fumato un pacchetto intero. Ho fatto fuori anche mezza bottiglia di whisky, e adesso sento la bocca ruvida, come se avessi bevuto sabbia.
Il fumo mi soffoca.
A volte mi succede, quando ho fumato troppo. Spengo la sigaretta nel posacenere e tossisco, poi guardo il pacchetto. È già da un po’ che penso di smettere. Continuo a pensare: Che scopo c’è a usare ’sta droga? Le uniche sigarette dalle quali traggo vero piacere sono le prime che fumo al mattino (cioè quando sono a malapena sveglio, per niente in condizione di godermele, e mi fa male il petto per il gran tossire), e talvolta quelle che fumo dopo qualche drink. Ah, sì, e quella che fumo dopo aver smesso da qualche giorno. O da qualche ora.
Afferro il pacchetto. La mia mano sembra chiudersi a pugno. Mi sembra di vedere il pacchetto che si accartoccia e si rimpicciolisce, come se lo stessi facendo veramente. Poi penso: Merda, ci sono soltanto cinque sigarette nel pacchetto, prima dovrei fumare quelle. Sarebbe uno spreco non farlo.
Ne tiro fuori un’altra, la accendo e inalo profondamente. Mi sento di nuovo soffocare e riprendo a tossire; il whisky e la lattina di Export che ho bevuto prima sciabordano nella pancia, e minacciano di tornare su. Mi si riempiono gli occhi di lacrime. Che droga stupida! Che droga totalmente inutile, cazzo! Non ti dà nessun vero piacere dopo la prima boccata, crea subito assuefazione ed è altamente letale; anche se non crepi per un cancro ai polmoni o per un infarto, puoi sempre aspettarti che, da vecchio, ti venga la cancrena alle gambe: pezzetti del tuo corpo marciscono, ancora attaccati, e muoiono a rate in vece tua, imputridendo e puzzando mentre tu sei ancora vivo, e allora devono tagliarteli via e, quando ti svegli dall’operazione, non soltanto respiri a fatica, ma dai anche fuori di testa per il dolore e per la voglia di una sigaretta. Nel frattempo, le marche di sigarette sponsorizzano eventi sportivi, si oppongono alla pubblicità che cerca di mettere al bando il fumo, e guardano con ansia a tutti quei nuovi mercati dell’Est europeo e dell’Oriente; sempre più donne fumano per dimostrare che anche loro possono essere vere teste di cazzo, mentre idioti in giacca e cravatta e con la segatura al posto del cervello vanno in televisione e annunciano: «Nessuno ha mai dimostrato che il tabacco possa causare il cancro», e te ne stai lì, a fremere di rabbia. Poi scopri che la Thatcher si è presa mezzo milione dalla Philip Morris per tre anni di consulenza e giuri che non comprerai mai più un loro prodotto; poi, alla fine della giornata, accendi un’altra sigaretta, inali il fumo come se ti desse un gran piacere, e invece aumenti solo i profitti di quei fottutissimi stronzi.
Okay. Mi sono incazzato abbastanza. Schiaccio il pacchetto. Non si accartoccia in maniera soddisfacente, perché dentro ci sono ancora delle sigarette, ma insisto e, con due mani, riesco a ridurlo a metà del suo volume iniziale. Poi vado in bagno, lo strappo, e rovescio le sigarette piegate e rotte nella tazza del water, tiro lo sciacquone e rimango a fissarle mentre si limitano per lo più a galleggiare, girando vorticosamente nel turbine d’acqua invece di sparire dalla mia vita come vorrei. Così m’inginocchio, infilo le mani nella tazza e, a uno a uno, spingo sott’acqua i miseri resti spezzettati e quel che rimane della carta e del tabacco, li spingo oltre la curva, in modo che rispuntino dall’altra parte, dove non posso vederli, poi lavo le mani e le asciugo; a quel punto, il serbatoio dello sciacquone è nuovamente pieno, allora lo tiro e questa volta l’acqua resta pulita e io posso finalmente respirare.
Apro il lucernario del bagno e quello dello studiolo per fare una bella corrente e resto lì a tremare dal freddo, poi m’infilo la vestaglia, assai soddisfatto di me stesso. Mi siedo al computer e scopro che, nel frattempo, il punteggio della mia era è calato un pochino, ma non m’importa: mi sento così virtuoso!
Respiro a fondo l’aria fredda della notte e comincio a ridere, facendo roteare il mouse sulla superficie della scrivania come se fosse diventato incontrollabile; mentre il piccolo folletto sullo schermo schizza dal pannello di controllo al display, afferrando icone e scagliandole come fulmini su tutto il mio Impero, costruendo strade, dragando porti, bruciando foreste, scavando miniere ed erigendo — ironia delle ironie, per mezzo dell’icona ICONA — altri templi a me stesso.
Un’orda di barbari, proveniente dalle inesplorate steppe del sud, cerca d’invadere i miei territori, e perdo un’ora per combattere e respingere quei bastardi; sono costretto a ricostruire la Grande Muraglia e soltanto dopo posso tornare a Corte per rilanciare la lungimirante strategia che ho messo a punto per indebolire il potere dei signori locali e della Chiesa. Secondo il mio piano, il palazzo deve diventare così sontuoso e pregno di lussuria che i baroni e i vescovi non potranno che abbandonarsi alla dissolutezza e al libertinaggio, rivelando così la loro intima corruzione, mentre la mia classe mercantile, grazie ai cauti sviluppi tecnologici da me favoriti, prospererà.
Mi faccio un altro whisky e una scodella di Coco Pops con tanto latte. La mano continua a dirigersi nel punto in cui dovrebbe trovarsi il pacchetto di sigarette, ma tengo a bada il desiderio e per il momento riesco a sopravvivere. Ho davvero voglia di un po’ di anfe, però so che, se cedo, dopo avrò voglia di una sigaretta, e così lascio stare.
Mi viene un’idea brillante: mando la polizia segreta al bazar e catturo qualche spacciatore di droga. Tombola! Gli spacciatori vengono introdotti a Corte e ben presto la maggior parte dei nobili è completamente schiava della droga. Mi viene in mente che questo sarebbe il metodo più efficace per avere il controllo della società, invece di limitarsi a far fuori la gente, cosa nella quale la polizia segreta normalmente è imbattibile. Alle quattro del mattino decido di smettere e, mentre mi dirigo verso il letto, mi sento un po’ nervoso. Non riesco a dormire e continuo a pensare a Y; dopo mezz’ora cedo e mi faccio una sega e, subito dopo, finalmente, mi addormento.
L’edificio è caldo e puzza di cane. Lo trascini oltre la soglia e chiudi la porta a chiave. I cani stanno già abbaiando e uggiolando.
Il canile è grande quasi come un garage a due posti; le pareti, fatte di blocchi di calcestruzzo, sono nude. Dal soffitto scendono alcuni neon. C’è un ampio corridoio centrale tra due file di recinti, anch’essi fatti di blocchi di calcestruzzo. Le pareti divisorie interne ti arrivano poco sopra la testa e, in alto, sono aperte. Il pavimento di cemento dei recinti è coperto di paglia e la parte anteriore di ognuno è costituita da un cancelletto in profilato di ferro e rete metallica.
Fin qui, tutto bene. Sei arrivato attraversando i campi e il bosco, subito dopo il tramonto; hai controllato la zona con il visore notturno e hai capito che la grande casa era buia e vuota. La spia dell’allarme, in alto su uno dei muri, emanava un debole chiarore rosso. Avevi già deciso di non tentare d’introdurti in casa. Hai seguito il vialetto in discesa. Anche la dépendance era avvolta dall’oscurità; il guardacaccia sarebbe tornato soltanto dopo la chiusura del pub del villaggio. A un certo punto del vialetto, piuttosto in avanti perché non fosse visibile dalla strada principale, hai segato un piccolo albero, poi ti sei seduto ad aspettare. La Range Rover è arrivata ruggendo due ore dopo. Lui era solo, ancora vestito con abiti da città. Lo hai colpito con lo sfollagente mentre guardava l’albero caduto; il borbottio del motore copriva ogni suono e lui non si è neppure voltato. Con la Range Rover sei passato sopra il tronco.
Mentre lo trascini sul cemento, muove appena le braccia; lo appoggi contro il cancello di uno dei due recinti liberi. Non appena vedono il loro padrone, i cani si mettono ad abbaiare in modo diverso. Ti togli lo zaino e lo appoggi sul pavimento, tiri fuori alcuni serrafili di plastica e li metti fra le labbra; poi cerchi di alzare in piedi l’uomo, ma è troppo pesante. Sta sbattendo le palpebre. Lo lasci scivolare di nuovo a terra, seduto contro il cancello di rete metallica e, quando comincia ad aprire le palpebre, lo afferri per i capelli, gli tiri su la testa e lo colpisci ancora una volta. Cade di lato. Riponi i serrafili in tasca e rifletti. I cani continuano ad abbaiare e a guaire.
C’è una manichetta collegata a un rubinetto dietro la porta; la stacchi, ne getti un’estremità sopra l’architrave del recinto vuoto, la fai passare attraverso la rete metallica e gliela leghi sotto le ascelle. Quando la manichetta gli si stringe intorno al petto, l’uomo emette un gemito; cominci a sollevarlo, ma la manichetta si rompe e lui ricade contro il cancelletto. «Merda!» sibili, furioso.
Infine ti viene un’idea. Sollevi il cancelletto, lo sfili dai cardini e lo posi sul pavimento, di fianco a lui. Quindi ce lo fai rotolare sopra. Lui fa un verso a metà fra un gemito e un grugnito.
Gli assicuri i polsi e le caviglie alla rete metallica usando i serrafili, due in ogni punto. Li hai già collaudati: sembrano fragili, ma non sei riuscito ad aprirli neppure con tutte le tue forze, e alla televisione hai visto che li usa anche la polizia al posto delle manette. Però non hai idea di quanto sia resistente la rete metallica, quindi, per precauzione, li usi a due per volta e li fai passare attraverso maglie diverse. I cani continuano ad abbaiare, a intervalli irregolari, ma ora fanno meno chiasso di prima. Quindi gli fai passare un pezzo di manichetta intorno alla vita e la leghi al profilato di metallo, che forma una Z attraverso il cancelletto. Gli slacci la cintura e gli tiri giù i pantaloni; ha ancora una bella abbronzatura — ricordo della vacanza del mese scorso ad Antigua — però sta cominciando a sbiadire. Lo trascini fino al muro del recinto vuoto, ti accucci dietro il cancello e sollevi uomo e cancello insieme, trattenendo il respiro e grugnendo per lo sforzo. Lo sollevi in modo che il lato superiore del cancello appoggi contro il muro, formando un angolo di circa sessanta gradi.
Sta cominciando a riprendere i sensi. Cambi idea sul fatto di lasciarlo parlare, tiri fuori dallo zaino il nastro isolante e glielo fai passare sulla bocca e dietro la nuca, attraverso la rete metallica, così gli tiene ferma anche la testa. Da sotto i capelli chiari, un rivoletto di sangue scende sulla nuca e sul colletto della camicia.
Poi, mentre lui continua a emettere dal naso una specie di lamento, tiri fuori dallo zaino i due ritagli di giornale e il tubetto di colla e li incolli sulla parete proprio di fronte a lui, uno su ogni lato del cancelletto. Il cane all’interno del recinto si precipita contro di te, ringhiando e facendo vibrare il cancelletto di rete.
Il titolo del primo articolo dice: EX MINISTRO COINVOLTO NELLO SCANDALO DEL TRAFFICO DI ARMI CON L’IRAN e, sotto, a caratteri più piccoli: HO PENSATO CHE GLI INTERESSI DEL MONDO OCCIDENTALE SAREBBERO STATI MAGGIORMENTE TUTELATI SE LA GUERRA IRAN-IRAQ FOSSE DURATA IL PIÙ A LUNGO POSSIBILE.
Il titolo del secondo articolo dice: PERSIMMON DIFENDE I PROGETTI DI CHIUSURA — GLI INTERESSI DEGLI AZIONISTI PRIMA DI TUTTO e, sotto: 1000 POSTI DI LAVORO PERSI DOPO SOLO CINQUE ANNI CON LO SCADERE DEI CONTRIBUTI STATALI.
Aspetti che ritorni in sé, ma ci vuole un po’. Sei rimasto sorpreso nel vedere quanto la casa sia distante dalle altre e decidi che ti arrischierai a usare il fucile da caccia che hai trovato nel bagagliaio della Range Rover invece della Browning munita di silenziatore che hai portato con te. Torni alla macchina per prendere il fucile e una scatola di cartucce. Una volta rientrato, chiudi a chiave la porta.
Ora è sveglio, anche se ha ancora lo sguardo vitreo e sfocato. Gli fai un cenno con la testa mentre ti avvicini, ti fermi davanti a lui, infilando un paio di cartucce rosso-marrone nella doppietta. I suoi occhi si muovono in maniera curiosa: sta cercando di metterti a fuoco. Indossi una tuta blu scuro, un passamontagna simile a quello che hai usato a Londra e sottoguanti da sci di seta nera. Sua eccellenza il deputato Edwin Persimmon sta borbottando qualcosa sotto il nastro isolante, mentre si sforza ancora d’inquadrarti. Ti domandi se l’hai colpito troppo forte con il manganello; forse sarebbe meglio farla finita subito con la pistola, lasciando perdere tutto il resto: pensi che sarebbe più veloce e meno pericoloso per te, ma poi decidi di attenerti al piano. È importante: dimostra che non sei uno dei tanti pazzi, e la dose extra di rischio ti eleva a un più alto livello di pericolo e di sfida al destino.
Ti giri e vai verso il recinto pieno di foxhound: ricominciano ad abbaiare. Infili le due canne della doppietta dentro un esagono della rete, più o meno all’altezza della vita, fino a che il fucile non è entrato bene, poi lo punti verso il basso, ti chini appena in modo che la tua spalla sia saldamente appoggiata contro il calcio dell’arma e fai fuoco due volte contro il branco di cani ringhianti.
Il fucile rincula contro la spalla. Il rumore, nel locale costruito a blocchi di calcestruzzo, è sorprendentemente forte. Il fumo riempie il recinto; un cane è stato fatto a pezzi, due giacciono bocconi sul cemento, mentre tutti gli altri abbaiano furiosamente; parecchi si sono messi a correre in tondo, in cerchi stretti, facendo volare la paglia dappertutto. Apri il fucile: le cartucce saltano fuori e una colpisce il signor Persimmon sul petto. Ha gli occhi spalancati e sta scuotendo con tutte le sue forze il cancello cui è legato. Ricarichi la doppietta senza tirarla fuori dalla griglia, quindi prendi la mira con maggiore attenzione e spari, un colpo per volta, uccidendo due cani sul colpo e ferendone altri tre o quattro. Per un attimo il fumo è molto denso, e senti un gusto acre in gola.
I cani ormai sono come impazziti e lanciano ululati acuti e disperati. Uno di essi non ha mai smesso di correre in tondo, ma continua a scivolare sul sangue. Ricarichi e spari di nuovo, uccidendo altri due foxhound; ora ne rimarranno sì e no cinque o sei che continuano a saltare contro le pareti e ad abbaiare. Quello che corre in cerchio sanguina da una zampa posteriore, ma non accenna a rallentare.
Ti volti verso il signor Persimmon, sollevi il passamontagna dalla bocca e, cercando di farti sentire sopra gli ululati e i guaiti, gli gridi: «Si stanno divertendo un sacco!» poi gli fai l’occhiolino. Ricarichi il fucile e ne fai a pezzi altri due. Eviti quello che corre in tondo perché hai deciso che ti è simpatico.
Il fumo ti fa tossire. Metti giù il fucile e tiri fuori il Marttiini dal fodero nel calzino destro. Ti avvicini al signor Persimmon, che continua a scuotere il cancelletto come meglio può. Si mette a strisciare contro la parete con un rumore stridente, fastidioso; lo tiri su di nuovo. Ha gli occhi spalancati. La faccia è coperta di sudore. Anche tu sei tutto sudato. È una serata calda.
Non hai riabbassato il fondo del passamontagna: desideri che veda la tua bocca. Gli vai molto vicino, in modo che possa guardarti soltanto con l’occhio sinistro e, sopra i sempre più deboli e rochi latrati provenienti dal recinto di fronte, gli dici: «A Teheran, nel cimitero principale, c’era una fontana rossa, una fontana di sangue in memoria dei martiri della guerra». Lo fissi e senti che tenta di dire o di urlare qualcosa, ma i rumori che gli escono dal naso sembrano lontani e soffocati. Forse sta imprecando contro di te o magari ti sta implorando, non lo capisci. «Nell’ultima fase della guerra, coloro che venivano dichiarati colpevoli di reati capitali non erano fucilati o impiccati», prosegui. «Erano obbligati a dare il loro contributo allo sforzo bellico.»
Alzi il coltello in modo che lo possa vedere. Non potrebbe spalancare gli occhi più di così.
«Li hanno dissanguati», gli spieghi.
Ti accucci di fronte a lui e gli pratichi una profonda incisione nella coscia sinistra, recidendo l’arteria. L’urlo gli esce dal naso; lui continua a scuotere la griglia. Il sangue esce con violenza, schizzando sui tuoi guanti e zampillando verso l’alto in una luccicante fontanella rosa che gli inzuppa le mutande e gli arriva persino sulla faccia, coprendola di lentiggini rossastre. Cambi la presa sul manico del coltello per incidergli l’altra gamba. Lui continua a scrollare il cancelletto, per quel che serve, ma i legacci tengono e il cancelletto non può scivolare in avanti perché ti ci sei accucciato di fronte, e lo tieni bloccato con gli stivali. Il sangue sgorga con violenza, scintillante sotto la luce dei neon. Gli corre giù per le gambe, gli scende fino ai calzoni arrotolati intorno alle caviglie e li inzuppa.
Ti alzi, allunghi una mano, prendi il fazzoletto perfettamente piegato che gli spunta dal taschino, lo apri con un solo gesto e asciughi la lama del Marttiini finché il coltello non è perfettamente pulito. Viene dalla Finlandia: ecco perché il suo nome si scrive in modo così strano. Non ci avevi mai pensato prima, però ora la sua nazionalità ti sembra particolarmente divertente, anche se in modo un poco macabro: hai finito il signor Persimmon con un coltello finnico.
Ora il sangue esce più lentamente. Lui ha ancora gli occhi spalancati, ma lo sguardo è vitreo. Ha smesso di divincolarsi, si è afflosciato, anche se respira forte. Hai l’impressione che stia piangendo, ma forse è solo l’effetto del sudore sulla faccia ormai terrea.
Sei sinceramente dispiaciuto per lui perché adesso è soltanto un uomo che sta morendo, come tanti altri; ti stringi nelle spalle e gli dici: «Su, avrebbe potuto andar peggio».
Poi ti giri, fai su la tua roba e lo lasci lì, con il sangue che esce a goccia a goccia, e la pelle che si è fatta cerea sotto l’abbronzatura.
Parte del suo sangue si è raccolto in una pozza sul cemento davanti a lui, e va a unirsi a quello che sta lentamente colando fuori della gabbia piena di cani morti o straziati.
Spegni le luci e, mentre apri la porta, tieni la Browning alzata contro la spalla; prima di uscire, controlli l’esterno con il visore notturno.
Ho voglia di piangere. Sono con Y, però lei si è portata dietro il marito. Sono venuti insieme al giornale ma, quando l’addetto alla reception mi ha chiamato, ha detto solo che lei mi stava aspettando e così sono corso per le scale come un ragazzino tutto eccitato per una promessa che sta per essere mantenuta; poi, quando me li sono visti davanti tutti e due, intenti a osservare le foto nella bacheca che espone i più recenti lavori dei nostri fotografi, sarei sprofondato. Yvonne, alta, magra, muscolosa ma slanciata, in gonna e giacca scura, camicia di seta. Capelli neri cortissimi, che lasciano scoperta la nuca in un nuovo taglio, ancora più severo del precedente, con un ciuffo sulla fronte. Lei si è voltata verso di me proprio mentre la mia faccia si allungava per la delusione e mi ha rivolto un sorriso contrito.
Anche William si è voltato; spalle larghe, una bella faccia che, quando mi vede, si apre in un gran sorriso. William, biondo quanto Yvonne è nera, fisico da campione olimpionico di canottaggio, dentatura perfetta, una stretta di mano da gorilla.
«Cameron! Che piacere! Quanto tempo che non ci vediamo! Come stai, tutto bene?»
«Bene, bene», ho risposto, rivolgendogli un sorriso il più sincero possibile e salutandolo con un cenno del capo. William è alto, oltre che grosso: mi sovrasta, e sì che io sono un po’ più di uno e ottanta. Yvonne posa le mani sulle mie spalle e mi bacia su una guancia; con i tacchi, è alta quasi quanto me. I tacchi. Lei preferisce le scarpe basse e si mette quelle con i tacchi alti soltanto perché così il suo sedere è all’altezza giusta quando la prendo da dietro. Quando le sue labbra mi sfiorano la guancia, sento il suo profumo: Cinnabar, il mio preferito. Ci siamo scambiati qualche convenevole e intanto pensavo: … e io che mi sono pure preso il pomeriggio libero.
«Bene», ha detto William, fregandosi le mani. «Dove andiamo?»
«Pensavo di fare un salto giù al Viva Mexico…» ho proposto (e per poco non aggiungevo «come al solito»), guardando mesto le labbra rosso acceso di Yvonne.
«Naa», ha replicato William con una smorfia. «Ho voglia di ostriche. Andiamo al Café Royal, che ne dici?»
«Hmm…» E pensavo: Ostriche…
«Offriamo noi», ha annunciato Yvonne, sorridendo e prendendo sottobraccio il marito.
Ho conosciuto Yvonne e William all’università, nel periodo d’oro dei nostri anni migliori, quelli passati a Stirling, quelli compresi esattamente fra la prima e la seconda vittoria della Thatcher.
Loro due frequentavano i corsi di economia. Lui veniva da Birmingham, anche se i suoi genitori sono scozzesi. Lei era di Bearsden, vicino a Glasgow. Si erano conosciuti durante la prima settimana e facevano ormai coppia fissa quando li conobbi per caso nel palazzetto dello sport, un sabato pomeriggio in cui William doveva giocare a rugby e Yvonne stava cercando un compagno per una partita a squash. Stavo aspettando da almeno mezz’ora il mio avversario — un ragazzo che frequentava con me il corso di tecniche della comunicazione — ed ero già pronto a dirigermi al bar, quando Yvonne mi propose di giocare insieme. Me le suonò. Da allora dobbiamo aver fatto almeno duecento partite, e sono riuscito a batterla esattamente sette volte, di solito se stava covando qualche malanno, o quando era ancora convalescente. Io do la colpa alla droga e al fatto che, a parte qualche seduta di sesso atletico con Yvonne di quando in quando, una partita a squash ogni due settimane è l’unica attività fisica che pratico.
Yvonne e io siamo rimasti semplici amici finché lei e William non si sono trasferiti a Edimburgo; tre anni fa, un giorno che William era lontano, avevamo un appuntamento per andare a vedere — ironia della sorte — Le relazioni pericolose. Ma non abbiamo neppure visto il cinema perché siamo finiti in un pub. Ci siamo ubriacati e, non so come, abbiamo cominciato a baciarci, poi, sul taxi che ci riportava a Cheyne Street, l’autista ci ha detto di darci una calmata perché stavamo praticamente scopando sul sedile posteriore. Abbiamo fatto neanche mezzo metro oltre la porta d’ingresso e lei aveva già le mutandine abbassate, io i calzoni calati, e l’abbiamo fatto in piedi contro il muro, lei con la testa appoggiata al contatore del gas, io con la schiena che mi si ghiacciava per lo spiffero freddo che entrava dalla buca per le lettere.
Adesso, di solito, riusciamo ad arrivare sino al letto, ma è comunque una relazione varia e interessante, e Yvonne giura che con me fa cose che non ha mai neppure menzionato a William, la cui unica perversione sembra essere quella di vedere la moglie in guêpière e reggicalze. Considerato che ha proprio l’aria di un ragazzo in gamba, è piuttosto deludente apprendere che ha una certa ritrosia per i pompini e un vero e proprio orrore — per quanto espresso in maniera gentile e contrita — all’idea di leccarla. E così, a quanto pare, questi (insieme al fare la lotta dopo esserci cosparsi di olio per bambini, al mangiare gelato dalla sua vulva, al fingere uno stupro o un atto di sodomia con tanto di variazioni bondage) sono tutti piaceri riservati unicamente a me.
E così eccoci seduti al Café Royal dopo una allegra passeggiata per il North Bridge; William si è pappato una dozzina di ostriche vive (Yvonne e io abbiamo preso una zuppa di molluschi) e stiamo parlando di computer: sono il mio strumento di lavoro e l’argomento m’interessa, senza contare che William lavora per un’azienda che li fabbrica. La loro base operativa in Scozia è nel sud del Queensberry, mentre il quartier generale è nel Maryland, negli Stati Uniti. William doveva partire oggi per l’America, ma proprio quando stava per salutare la sua deliziosa Yvonne, questa mattina, e lasciare la loro meravigliosa e lussuosissima villa — garage a tre posti, salone su due piani, sauna, Jacuzzi e parabola satellitare — costruita su una esclusiva e prestigiosa proprietà, tra alberi d’alto fusto, con una clubhouse per i residenti, ristorante, piscina, palestra superattrezzata, campi da tennis e da squash, ha ricevuto una telefonata che lo avvertiva che il viaggio era stato rimandato di qualche giorno.
Siamo seduti a un tavolo d’angolo; William e Yvonne sono uno di fianco all’altra su una panchetta di pelle verde, mentre io mi trovo su una comunissima sedia, proprio di fronte a Yvonne. Mi sta facendo piedino sotto il tavolo, si è tolta la scarpa e il suo piede fasciato di nylon nero mi accarezza il polpaccio. Presumo che la tovaglia bianca inamidata sia abbastanza lunga da nascondere il tutto.
Nel frattempo io continuo a parlare di 486, di clockdoublers, del nuovo chip P5 che sta per uscire e di CD-ROM, ma ci sono almeno tre pensieri diversi che mi ronzano nella testa. Infatti, mentre una parte del mio cervello è impegnata a condurre la conversazione con William, un’altra si sta godendo le sensazioni prodotte dal piede di sua moglie che ora è salito alle ginocchia — procurandomi una mostruosa erezione, nascosta dal tovagliolo — e una terza sembra osservarmi dall’esterno, mentre parlo con quest’uomo cordiale e affabile che ho reso cornuto, e sta pensando che brutto bastardo sono, e quanto riesco ad apparire ciarliero, informato e simpatico mentre subisco questa deliziosa, segreta ma al contempo pubblica ed erotizzante distrazione. Stiamo parlando di multitasking e vorrei tanto dirgli: «Vuoi che ti spieghi come funziona il multitasking, amico? Ecco, lo sto applicando proprio in questo momento».
Yvonne sembra un tantino annoiata da tutto ’sto parlare di computer, e probabilmente è questo il motivo per cui ha incominciato ad accarezzarmi una gamba. A lei, i computer non interessano: si occupa di fallimenti. Non appena uscita dall’università è entrata in una piccola società specializzata nell’alleviare l’agonia delle imprese in fallimento. Per lavoro, ha viaggiato per tutta l’Inghilterra, e l’anno scorso l’hanno nominata direttore. Non è più una piccola società. I fallimenti sono un’industria in espansione.
Maschera elegantemente uno sbadiglio e si appoggia allo schienale della panchetta, mentre mi lascio sfuggire un respiro strozzato che devo contrabbandare per un colpo di tosse: di colpo il suo piede è scivolato fra le mie gambe. Stupidamente sollevo il tovagliolo per pulirmi la bocca, dopo il finto colpo di tosse, e… Cristo! Il piede è appoggiato proprio sulla mia sedia, e le dita coperte dalle calze si piegano in avanti per accarezzarmi l’uccello attraverso la stoffa dei calzoni. Con la massima rapidità, rimetto giù il tovagliolo e torno all’argomento delle immagini dei CD-ROM, sperando che nessuno abbia visto il suo piede. Sai l’imbarazzo, se ci fosse un cameriere nelle vicinanze. Senza dare nell’occhio, mi tiro la tovaglia in grembo e, con la tovaglia, anche il suo piede. È sempre appoggiata allo schienale e mi sta sorridendo appena, mentre le sue dita si flettono e si distendono.
Sollevo la mia flûte di champagne, annuendo per qualcosa che William ha appena detto.
«Scusate, devo scappare in bagno», fa lui, alzandosi. Il piede di Yvonne s’irrigidisce contro il mio inguine, ma non si sposta.
Yvonne e io restiamo a guardarlo mentre si allontana e poi, contemporaneamente, ci chiniamo in avanti sopra il tavolo.
«Cristo, hai un’aria maledettamente scopabile», le sussurro.
«Hmm», mormora lei, e si stringe nelle spalle. «Mi dispiace per oggi.»
«Pazienza. Dio mio, come me lo fai tirare!»
«Vuoi che ci vediamo il giorno in cui lui parte?»
«Sì», rispondo, senza fiato. «Sì, sì, sì.»
«Togliti una scarpa e infilami un piede tra le gambe», dice, calma. «Sono senza mutandine.»
«Oh, Cristo!»
Un’ora dopo sono nel bagno degli uomini, al giornale. Ho il calzino destro avvolto intorno all’uccello e mi sto masturbando. L’odore del calzino mi è rimasto sul viso; prima di avvolgermelo intorno al cazzo l’avevo annusato a lungo, inalando il suo odore nei polmoni. Questa è la seconda sega che mi faccio; al ristorante stavo quasi per venire, mentre me ne stavo lì, seduto a mangiare la mia aragosta con il piede di Yvonne che continuava ad accarezzarmi l’inguine e il mio piede infilato sotto la sua gonna. Per evitare una brutta figura a tavola, sono stato costretto a ritrarre il piede, a infilarmi la scarpa, a scusarmi e ad andare imbarazzatissimo nel bagno degli uomini per sfogarmi. È bastato toccarlo. Questa volta, invece, ci vuole un po’ di più. La calza emana un forte odore di donna, altamente erotico. Grazie al cielo stavamo mangiando pesce.
Oh, Yvonne… Ah, ecco, ci siamo…
«Cameron, stai bene?»
«Sì, Frank.»
«Sei un po’ pallido.»
«Mi sento benissimo.»
«Bene. ‘Carse of Gowrie’.»
«Come?»
«’Carse of Gowrie’. Sai, su vicino a Perth. Indovina che cosa suggerisce il correttore ortografico?»
«Mi arrendo.»
«’Carriera o governo’!»
«Piantala, oppure non riuscirò a trattenere le lacrime.»
«Ce n’è una ancora migliore…»
«Senti, Frank, devo fare una ricerca molto importante», taglio corto, afferrando un notes e avviandomi verso la biblioteca. Diamine, devo lavorarci, insieme a ’sto tipo. Meglio una ritirata strategica davanti alle ultime battute, per niente spiritose, di questo scherzo che va avanti ormai da troppo tempo, piuttosto che perdere la pazienza e indicare a Frank il posto in cui potrebbe infilarsi il suo correttore ortografico.
Il Caley possiede ancora una biblioteca tradizionale, dove vengono custoditi tutti gli articoli. Quando s’incomincia a lavorare a un pezzo, il primo passo è quello di procurarsi i ritagli, ed è appunto qui che vengono custoditi. Immagino che entro pochi anni tutto finirà immagazzinato in banche dati che si potranno consultare da tutto il mondo tramite modem, ma, per il momento, c’è un luogo fisico in cui bisogna recarsi se si vogliono consultare i libri più oscuri, gli schedari pre-computer e i vecchi numeri del Caledonian, sebbene questi ultimi siano già conservati su microfiches. La biblioteca del Caley occupa un unico locale cavernoso nelle viscere dell’edificio, due piani sotto l’area della reception; non ci sono finestre, non si sente il rumore del traffico né dei treni e, in realtà, è un luogo piuttosto riposante, a meno che le rotative non siano in movimento. Scambio qualche parola con Joanie, la nostra bibliotecaria, e poi mi metto al lavoro.
A parte la conferma che Ares è il dio greco della guerra, il che può essere attinente al caso oppure no, non riesco a trovare granché. Non c’è il minimo accenno a qualcosa o a qualcuno chiamato Jemmel. Mi ritrovo quindi a sfogliare il materiale che ho già scoperto su Wood, Bennet, Harrison, Aramphahal e Isaacs.
Wood e Isaacs lavoravano per la British Nuclear Fuels Ltd., Bennet per l’Ente per il controllo nucleare, Aramphahal era impiegato in qualità di esperto crittografo nel quartier generale per le Comunicazioni governative e Harrison era un uomo del ministero del Commercio e dell’Industria; di quest’ultimo si vociferava che avesse stretti legami con l’MI6, la celebre sezione dei Servizi segreti dell’esercito. Aramphahal era sceso sui binari ferroviari posti lungo il confine della sua proprietà, vicino a Gloucester, si era legato una corda attorno al collo, aveva assicurato prima un’estremità a un albero su un lato dei binari, poi se stesso a un tronco sul lato opposto, e aveva atteso che passasse l’espresso. Wood viveva a Egremont, un piccolo villaggio della Cumbria: aveva fatto il bagno in compagnia di un trapano elettrico, e non del tipo a batteria. Bennet era stato trovato nel pozzo nero di una fattoria vicino a Oxford: annegamento. Isaacs si era legato ai piedi una vecchia e pesantissima macchina da scrivere e si era gettato nel Derwentwater, mentre Harrison si era chiuso in una stanza d’albergo e aveva inghiottito due liquidi che, se combinati, reagiscono e formano quella schiuma isolante per le intercapedini dei muri: era morto soffocato. Sembrava che si conoscessero tutti, e che il loro stato di servizio fosse piuttosto oscuro: c’erano lunghi periodi vuoti in cui nessuno sapeva dove fossero stati; nessuno di loro aveva legami di amicizia con colleghi, o perlomeno, non c’era nessuno che ammettesse di essere stato loro amico.
La faccenda era estremamente sospetta; per quanto ne sapevo, alcuni giornalisti — di almeno due quotidiani londinesi — avevano cercato di scoprire se si era trattato di qualcosa di più di una serie di coincidenze, ma senza risultato. C’era stata un’interpellanza parlamentare e la polizia aveva prima avviato un’indagine e poi l’aveva insabbiata in fretta e furia; da tale indagine, comunque, non era emerso un bel niente, oppure, se qualcosa era emerso, era stato tenuto ben nascosto.
A detta del signor Archer, i cinque morti avevano una cosa in comune: il segno di un’iniezione su un braccio e/o una contusione nella parte posteriore del cranio, dov’erano stati colpiti. Di conseguenza, nessuno di essi era cosciente al momento del suicidio. Il signor Archer sosteneva inoltre di essere in possesso di copie dei rapporti forensi originali che avvaloravano le sue affermazioni, ma io — come altri miei colleghi — avevo controllato presso i distretti di polizia e con i vari coroner e non avevo scoperto niente; inoltre il fatto che l’anziano medico della Cumbria che aveva effettuato le autopsie su Isaacs, Wood e Harrison fosse morto d’infarto poco dopo l’avvio delle indagini poteva essere un’ennesima coincidenza oppure no… Comunque pure questo era impossibile da dimostrare, soprattutto perché il suo corpo, al pari degli altri cinque, era stato cremato.
Scuoto la testa, perplesso davanti a questa teoria della congiura, e mi sto chiedendo se la sensazione di fastidio che provo proprio dietro agli occhi sia l’inizio di un mal di testa, quando squilla il telefono della biblioteca. Joanie mi chiama; è per me.
«Cameron?» È Frank.
«Sì», rispondo, a denti stretti. Sarà meglio per lui che non si tratti di un altro giochetto sul controllo ortografico.
«C’è il tuo signor Archer al telefono. Devo passartelo?»
Oh, oh. «Ah, perché no?»
Si sentono parecchi clic (e penso: Merda, non posso registrare neanche questa telefonata) e poi la voce alla Stephen Hawking dice: «Signor Colley?»
«Sì, signor Archer.»
«Ho qualcos’altro per lei.»
«Che cosa?»
«Il vero nome di Jemmel mi sfugge, però conosco il nome dell’agente, il rappresentante del cliente finale.»
«Ah.»
«Si chiama Smout», mi rivela; quindi lo sillaba.
«Okay», faccio io, pensando che il nome suona vagamente familiare. «E…?»
«È uno di quelli di cui non si parla a Baghdad, ma…»
Ma la linea cade. Si sentono un paio di clic, una serie di rumori lontani analoghi ai suoni di un telefono a toni e una vaga eco, appena udibile: «…non si parla a Baghdad, ma…»
Riattacco. Provo un leggero senso di vertigine; la testa ancora gira a causa dell’alcool bevuto a pranzo, l’uccello brucia per le due seghe violente e frustranti e la mente macina le implicazioni di ciò che il signor Archer mi ha appena detto, per non parlare del forte sospetto che (anche se io non ho potuto farlo) qualcuno, da qualche parte, abbia registrato la telefonata.
Il fatto è che so chi è Smout: ho scritto un articolo su di lui. L’ostaggio dimenticato, l’uomo di cui — come ha detto il signor Archer — non si parla.
Daniel Smout è — o era — un trafficante d’armi di media levatura che ha passato gli ultimi cinque anni in prigione a Baghdad, accusato prima di spionaggio e poi incarcerato per traffico di droga. È stato condannato a morte, ma la sentenza è stata commutata in ergastolo. Il governo di Sua Maestà ha sempre dimostrato una certa riluttanza ad avere a che fare con lui; l’ultima visita di un diplomatico risale a tre anni or sono. Voci insistenti, però, lo identificano come un agente occidentale coinvolto in qualcosa di così segreto da costringere tutte le persone implicate ad agire in modo che i giornalisti (e chiunque altro, del resto) ne fossero tenuti all’oscuro; il motivo per cui è stato sbattuto dentro, quindi, è impedirgli di parlare, soprattutto dopo il fallimento dell’operazione alla quale stava lavorando.
Riassumendo: stiamo parlando di un progetto il cui nome in codice è quello del dio greco della guerra; di un progetto che coinvolge l’Iraq, un accordo molto, molto segreto, cinque uomini morti — dei quali almeno tre avevano accesso a informazioni di carattere estremamente riservato sull’industria nucleare e due addirittura al prodotto concreto di tale industria (cioè il plutonio) — e un luogo in cui si è riusciti a smarrire tanto di quel materiale bellico da far impallidire anche i più folli sogni di acquisizione di un dittatore di medio livello che vive nel Terzo Mondo e coltiva ambizioni nucleari.
La British Nuclear Fuels Ltd., il quartier generale per le Comunicazioni governative, l’Ente per il controllo nucleare, il ministero del Commercio e dell’Industria e un agente — il rappresentante del cliente finale, come lo ha definito il signor Archer — tutti a Baghdad.
Oh, porca merda!
Metto il naso in redazione giusto per far vedere la mia faccia ma, come arrivo alla scrivania, squilla il telefono. Ho un sussulto e lo afferro: è di nuovo il signor Archer. Questa volta riesco a far partire il registratore.
«Signor Colley, non posso parlare adesso. Se posso chiamarla a casa venerdì sera, spero di poterle dare qualcosa di più.»
«Come?» sbotto, passandomi una mano tra i capelli. A casa? Questa è una procedura nuova. «Va bene. Il mio numero è…»
«Conosco il suo numero. Arrivederci.»
«…Arrivederci», dico al ricevitore ormai silenzioso.
«Tutto bene?» chiede Frank, corrugando la fronte.
«Sì», rispondo, facendogli un gran sorriso, probabilmente poco convincente. «Benissimo.»
Mi ritiro di nuovo in bagno, dando la colpa a qualcosa che era nella zuppa di molluschi che ho mangiato a pranzo, e sniffo un po’ di anfe, poi faccio una passeggiata fino ai Salisbury Crags, mi siedo su un masso e rimango a guardare la città, fumandomi uno spinello e pensando: Oh, signor Archer, in che casino siamo finiti?