10

Era piena notte sul Comune. L’aria era di nero cristallo, chiara e gelida. I venti erano cattivi. Dirk si rallegrò di essere in una macchina dall’armatura pesante, come era quella dei Braith, con una cabina riscaldata, completamente chiusa.

Mantenne l’apparecchio ad un centinaio di metri dalle pianure e dalle basse colline e spinse la macchina alla maggior velocità che riusciva a mantenere. Una volta, dopo che Sfida era ormai lontana all’orizzonte, Dirk si voltò indietro per vedere se c’era qualcuno che li inseguiva. Non vide nessuno, ma la città Emereli si vedeva ancora e lui la fissò affascinato. Era diventata una lancia lunga e nera, che dopo un attimo non fu più visibile nel cielo ancor più nero. Gli ricordava un po’ un grande albero carbonizzato dall’incendio della foresta, senza più rami né foglie, un semplice bastone bruciato color fuliggine, semplice eco della gloria precedente. Si ricordò di Sfida, così come gliel’aveva mostrata Gwen la prima volta, quando lui gli aveva chiesto di poter vedere una città viva: scintillava contro il cielo serale, impossibilmente alta e d’argento scintillante, incoronata da ondate di luce che salivano verso l’alto. Adesso era un involucro morto e morti pure i sogni dei suoi costruttori. I cacciatori di Braith uccidevano ben più che uomini e animali.

«Ci saranno dietro abbastanza presto, t’Larien», disse Jaan Vikary. «Puoi anche fare a meno di cercarli».

Dirk riportò la sua attenzione agli strumenti. «Dove andiamo? Non possiamo volare alla cieca sul Comune per tutta la notte, senza andare in nessun posto particolare, Larteyn?».

Non possiamo rischiare di ritornare a Larteyn adesso», rispose Vikary. Aveva rinfoderato il laser, ma aveva la faccia feroce come quando aveva arrostito Myrik a Sfida. «Sei così stupido da non capire ciò che ho fatto? Ho infranto il codice, t’Larien. Ormai sono un fuorilegge, un criminale, un infrangi-duello. Ora mi inseguiranno e mi uccideranno come un qualsiasi falsuomo». Si mise le mani annodate sotto il mento, pensando. «La cosa migliore… non lo so. Forse non abbiamo speranze di nessun genere».

«Parla per te. Io ho un bel po’ di speranze in più di quante ne avevo un minuto fa, laggiù.

Vikary lo guardò e sorrise malgrado tutto. «Vero. Anche se questo è un punto di vista piuttosto egoistico. Non è stato per te che ho fatto ciò che ho fatto».

«Per Gwen?».

Vikary annui. «Lui… lui non le ha concesso nemmeno l’onore di rifiutare. Come se si trattasse di un animale. Eppure… eppure per il codice aveva ragione lui. Il codice per cui ho vissuto. Per difendere il codice lo avrei anche ucciso. Intendo Garse come forse avevi capito. Lui era arrabbiato perché Myrik aveva… aveva danneggiato la sua proprietà, aveva oscurato il suo onore. Lui avrebbe vendicato l’offesa, se glielo avessi lasciato fare». Sospirò. «Ma hai capito perché non ho potuto t’Larien? Davvero? Io avevo vissuto su Avalon ed avevo amato Gwen Delvano. E lei era là, viva solo per un caso fortuito. A Myrik Braith non sarebbe importato un accidenti se lei viveva o moriva e lo stesso valeva per gli altri. Eppure Garse aveva promesso a quell’uomo che per questa cosa lui si era meritata una morte soddisfacente e gli avrebbe dato il bacio dell’onore condiviso prima di prendersi la sua misera vita… Io… io voglio bene a Garse. Ma non lo potevo proprio lasciar fare. t’Larien, non con Gwen in quelle condizioni, così… così immobile ed ignorata. Non era cosa che potevo lasciar passare».

Vikary rimase zitto, a rimuginare. Nei momenti di quiete, Dirk riusciva a sentire i gemiti dei venti di Worlorn all’esterno.

«Jaan», disse Dirk dopo un po’, «dobbiamo ancora decidere dove andare. Dobbiamo portare Gwen in un posto coperto. Un posto dove possa starsene comoda e dove non sia disturbata. Magari sarebbe bene trovare un dottore e farla visitare».

«Non conosco dottori su Worlorn», disse Vikary. «Comunque, dobbiamo portare Gwen in una città». Considerò la situazione. «La più vicina è Esvoch, ma la città è tutta una rovina. Il posto migliore è allora Kryne Lamiya, direi, dato che è la seconda città in ordine di vicinanza a Sfida. Volta a sud».

Dirk fece fare un ampio arco alla macchina, scivolando verso l’alto e dirigendosi verso la lontana linea di montagne. Si ricordava vagamente la strada che Gwen aveva fatto per andare dalla scintillante torre di di-Emerel, fino alla città-foresta di Cupalba con la sua musica lugubre.

Mentre volavano verso le montagne, Vikary riprese a rimuginare tra sé, fissando con gli occhi ciechi il buio della notte di Worlorn. Dirk riusciva a capire abbastanza bene ciò che doveva provare il Kavalar in quel momento e non fece niente per spezzare la sua malinconia, ma si ritirò invece nella sua personale sfera di silenzio. Si sentiva assai debole; il mal di testa era ritornato a tormentarlo e sentiva chiaramente una specie di ruvida aridità nella gola e sulla bocca. Cercò di ricordare quando aveva bevuto o mangiato, ma non ci riuscì; per qualche ragione aveva perso il computo del tempo.

I grandi picchi di Worlorn, che parevano antracite, apparvero vicinissimi e Dirk fece salire più in su la macchina dei Braith per superarli, ma né lui né Jaan Vikary dissero una parola. Solo dopo aver superato le montagne, mentre sorvolavano la foresta, il Kavalar parlò ancora, ma solo per fornire delle lucide indicazioni sulla rotta da seguire. Dopo di che ricadde nei suoi pensieri e volarono in silenzio per desolati chilometri, verso la loro meta.

Questa volta Dirk sapeva cosa doveva aspettarsi, così stette in ascolto. Gli giunse alle orecchie la musica di Kryne Lamiya, un pianto sottile nel vento, parecchio tempo prima che la città sorgesse dalle foreste per sommergerli. Fuori dal loro rifugio corazzato non c’era nient’altro che il vuoto: le intricate foreste notturne sotto di loro, il cielo povero di stelle, vuoto, in alto. Note di cupa disperazione vennero parlando, tintinnando e raggiungendo Dirk nel suo sedile.

Anche Vikary sentì la musica. Guardò Dirk. «Questa è proprio una città adatta per noi, in questo momento, t’Larien».

«No», disse Dirk, troppo forte, perché non voleva crederci.

«Be’, per me allora. Tutto il mio lavoro è andato in fumo. La gente che speravo di salvare, adesso non la salverà più nessuno. I Braith adesso li potranno cacciare tutti quanti, korariel di Ferrogiada, o no. Non potrò fermarli. Forse Garse, ma cosa potrà mai fare un uomo da solo? È addirittura inutile provarci. Ero io che insistevo, non lui. Anche Garse è perduto. Dovrà ritornare da solo ad Alto Kavalaan, penso, e scenderà da solo nelle granleghe di Ferrogiada e il consiglio degli altolegati cancellerà i miei nomi. Dovrà trovare un coltello per scalzare le pietraluci dalla loro incastonatura e portare il ferro vuoto alla destra. Il suo teyn è morto».

«Magari su Alto Kavalaan», disse Dirk. «Ma tu hai vissuto anche su Avalon, ricordi?».

«Sì», disse Vikary. «Purtroppo, purtroppo».

La musica si fece più forte e rimbombò attorno a loro e sotto prese forma la Città Sirena: il cerchio esterno di torri pareva formato di mani senza carne in un’agonia ghiacciata, i ponti pallidi attraversavano canali scuri, i prati formati da muschio che scintillava leggermente, le spirali sibilanti che si conficcavano nei venti. Una città bianca, una città morta, una foresta di ossa acuminate.

Dirk volò in cerchio, fino a ritrovare lo stesso edificio in cui era già stato con Gwen e cominciò a scendere. Sulla terrazza c’erano ancora i due apparecchi abbandonati, che giacevano indisturbati, sprofondati nella polvere. A Dirk parevano i frammenti d’un sogno da tempo dimenticato di qualcun altro. Una volta, per qualche ragione, gli erano sembrati importanti; ma allora lui, Gwen ed il mondo erano stati ben diversi, allora, ed ora era difficile ricordarsi perché erano stati importanti quei due spettri di metallo.

«Tu sei già stato qui prima», disse Vikary e Dirk lo guardò ed annuì. «Allora, fa strada», ordinò il Kavalar.

«Io non…».

Ma Vikary era già in piedi. Aveva preso gentilmente Gwen tra le braccia, sollevandola da dove era sdraiata e stava aspettando. «Fa strada», disse di nuovo.

Così Dirk lo guidò lontano dalla terrazza, nelle stanze dove delle figure murali danzavano alla sinfonia di Cupalba, bianco e grigie. Provarono tutte le porte, finché riuscirono a trovare una stanza con dei mobili. In effetti era un insieme di quattro stanze diverse, desolate e con i soffitti alti e tutt’altro che pulite. I letti — due delle stanze erano camere da letto — erano dei fori circolari, profondamente infossati nel pavimento; i materassi erano ricoperti da una pelle oleosa, senza cuciture, che aveva un odore sgradevole, simile a latte acido. Comunque erano letti, abbastanza soffici ed un posto adatto per riposare. Vikary sistemò il corpo di Gwen con attenzione. Vedendo che riposava tranquilla — pareva quasi serena — Jaan lasciò Dirk presso il letto, con le gambe ripiegate sotto di sé, sul pavimento ed uscì a controllare l’aerauto che avevano rubato. Ritornò dopo poco con una coperta per Gwen ed una borraccia.

«Bevi solo una sorsata», disse, dando l’acqua a Dirk.

Dirk prese la bottiglia di metallo coperta di tela, girò il tappo e trasse un unico sorso, poi la restituì. Il liquido era tiepido e leggermente amaro, ma era piacevole sentirlo scendere giù per la gola secca.

Vikary inumidì una striscia di tela grigia e cominciò a pulire il sangue raggrumato sulla nuca di Gwen. Tamponò piano l’incrostazione marrone, continuando ad inumidire più volte lo straccio, finché i suoi sottili capelli neri furono sufficientemente puliti, aperti come un lucido ventaglio sul materasso, luccicanti per l’opportuna luce proveniente dalle figure murali. Quando ebbe finito, la bendò e fissò Dirk. «La veglio io», disse. «Va nell’altra stanza e cerca di dormire».

«Dovremmo parlare», disse Dirk esitante.

«Più tardi, allora. Non adesso. Va a dormire».

Dirk non aveva la forza per discutere; il suo corpo era disfatto e la testa aveva ripreso a pulsare. Andò nell’altra stanza e cadde scompostamente sul materasso dall’odore acido.

Ma il sonno non venne facilmente, malgrado la stanchezza. Forse era colpa del mal di testa; forse era il fastidioso movimento della luce che correva sulle pareti, che lo braccava anche se teneva gli occhi chiusi. Ma soprattutto era la musica. Che non lo abbandonava e pareva echeggiare più forte quando chiudeva gli occhi, come se fosse rimasta intrappolata tra le ossa del suo cranio: sibili acuti e sottili, gemiti e fischi ed ancora — sempre — il rombare di un tamburo solitario.

Pochi sogni attraversarono quella notte senza fine… visioni intense e surreali, piene di ansia bollente. Dirk per tre volte fu costretto a mettersi a sedere sul letto, risvegliato da un sonno agitato… tremava, aveva la pelle umida e fredda… e si trovava di fronte la solita canzone di Lamiya-Vailis, senza mai ricordarsi di ciò che lo aveva svegliato. Una volta, credette di sentire delle voci nella stanza vicina. Un’altra volta fu quasi certo di vedere Jaan Vikary seduto contro la parete più lontana che lo osservava. Nessuno dei due parlò e Dirk impiegò quasi un’ora per riaddormentarsi. Solo per risvegliarsi di nuovo, nella stanza echeggiante, piena di luci mobili. Si chiese per un momento se lo avessero abbandonato per la sua strada; più ci pensava e più era spaventato e tremava sempre di più. Ma chissà perché non poteva alzarsi, non aveva il coraggio di andare nella stanza vicina a vedere. Invece chiudeva gli occhi e cercava di allontanare tutti i ricordi.

E poi venne l’alba. Grasso Satana era a mezzo cielo e da una finestra alta con un vetro colorato (al centro era prevalentemente chiara, ma tutto attorno c’era un sobrio disegno marrone e rosso e grigio fumo) si riversava una luce rossa e febbrile, fredda come gli incubi di Dirk e batteva sul suo volto. Si allontanò rotolando e cercò di mettersi a sedere. In quel momento apparve Jaan Vikary che gli offrì la borraccia.

Dirk bevve parecchi lunghi sorsi, quasi soffocandosi con l’acqua fredda. Un po’ d’acqua si versò fuori dalle sue labbra secche e screpolate e gli ruscellò sul mento. Quando Jaan gliela aveva data, la borraccia era piena e lui gliela restituì mezza vuota. «Hai trovato l’acqua», disse.

Vikary chiuse di nuovo la borraccia ed annui. «Le stazioni di pompaggio sono state chiuse da anni, per cui non c’è acqua fresca nelle torri di Kryne Lamiya. Però ci sono ancora i canali. Sono sceso questa notte, mentre tu e Gwen dormivate».

Dirk si alzò in piedi barcollando e Vikary allungò una mano per aiutarlo ad uscire dal letto incassato. «Gwen è…?».

«Ha ripreso conoscenza nelle prime ore della notte, t’Larien. Abbiamo parlato e le ho detto ciò che avevo fatto. Penso che si riprenderà abbastanza presto».

«Posso parlarle?».

«Si sta riposando adesso, dormendo normalmente. Più tardi sono sicuro che vorrà parlarti, ma per il momento non credo che dovresti svegliarla. Questa notte ha cercato di mettersi a sedere, ma barcollava e le veniva la nausea».

Dirk annuì. «Capisco. E tu? Hai dormito?». Parlando guardava verso la loro stanza. La musica di Cupalba era un po’ diminuita. Si sentiva ancora, gemeva e si lamentava e permeava l’atmosfera di Kryne Lamiya; ma le orecchie la percepivano debole e distante, forse perché cominciavano ad abituarsi ed imparavano ad escluderla dalla coscienza. I murali luminosi, come le pietreluci di Larteyn, erano sbiaditi e morivano nei punti dove batteva il sole; i muri erano grigi e vuoti. I mobili che erano nella stanza — poche sedie dall’aspetto scomodo — uscivano dalle pareti e dal pavimento: estrusioni contorte che si adattavano al colore e ai toni della camera talmente bene da risultare quasi invisibili.

«Ho dormito abbastanza», stava dicendo Vikary. «È una cosa senza importanza. Ho pensato alla nostra posizione». Fece un gesto con la mano. «Vieni»

Andarono in un’altra stanza, una stanza da pranzo vuota, poi uscirono su uno dei molti balconi che si affacciavano sulla città Cupalba. Vista di giorno, Kryne Lamiya era diversa, meno disperata; anche il debole sole di Worlorn era sufficiente a far scintillare la veloce acqua che riempiva i canali e nell’eterno crepuscolo le pallide torri apparivano meno sepolcrali.

Dirk era debole ed aveva molta fame, ma il suo mal di testa era andato via ed il vento frizzante contro il volto lo faceva star bene. Si allontanò i capelli dagli occhi — i capelli erano tutti annodati e stopposi — e aspettò di sentire Jaan.

«Ho guardato da qui durante la notte», disse Vikary, con i gomiti sulla fredda ringhiera e gli occhi che frugavano l’orizzonte. «Ci stanno cercando, t’Larien. Per due volte ho visto delle macchine sulla città. La prima volta era solo una luce, alta e distante, per cui può darsi che mi sia sbagliato. Ma la seconda volta non posso essermi sbagliato. Era la macchina a testa di lupo di Chell che volava rasoterra sui canali, con un faro attaccato. È passato vicinissimo. C’era anche un cane. Ho sentito che abbaiava come impazzito per la musica di Cupalba».

«Non ci hanno trovati», disse Dirk.

«Vero», rispose Vikary. «Penso che qui siamo abbastanza al sicuro, per un po’. A meno che… Non so bene come hanno fatto a trovarvi a Sfida e la cosa mi spaventa. Se seguono la nostra pista fino a Kryne Lamiya e setacciano la città con i cani Braith, siamo in un grosso pericolo. Ormai non abbiamo più annulla-scia». Guardò Dirk. «Come hanno fatto a sapere dove eravate fuggiti? Hai qualche idea?».

«No», disse Dirk. «Non lo sapeva nessuno. Certamente non ci ha seguiti nessuno. Può darsi che l’abbiano semplicemente indovinato. Era la scelta più logica, dopotutto. La vita era più comoda a Sfida che in qualsiasi altra città. Più facile. Capito?».

«Si, lo so. Ma non accetto la tua teoria, però. Ricordati, t’Larien, che anche Garse ed io abbiamo preso in considerazione questo problema, quando tu ci hai svergognati abbandonandoci al quadrato della morte. Sfida era la scelta più ovvia, e quindi la meno logica, abbiamo pensato. Sembrava più probabile che sareste andati a Musquel vivendo con il pesce che riuscivate a pescare, oppure che Gwen avesse pensato per tutti e due procurando cibo nella foresta che lei conosceva così bene. Garse aveva anche suggerito che potevate semplicemente aver nascosto la macchina per rimanere in qualche altra sezione di Larteyn, in modo da poterci far fessi mentre vi cercavamo per tutto il pianeta».

Dirk si innervosì. «Si. Be’, immagino che la nostra scelta sia stata stupida».

«No, t’Larien, non direi così. L’unica scelta stupida, penso sarebbe stata quella di scappare verso la Città nella Palude Senzastelle, dove si sapeva che i Braith erano a frotte. Sfida era una scelta sottile, sia che fosse stata fatta apposta o no. Pareva una scelta così sbagliata che in effetti era l’unica giusta. Mi capisci? Non riesco a vedere come abbiano fatto i Braith a scoprirlo con un semplice processo deduttivo».

«Forse», disse Dirk. Ci pensò un momento. «Ricordo che il primo che abbiamo sentito è stato Bretan, che ci ha parlato. Lui… Be’, non stava verificando una teoria. Lui sapeva che noi eravamo là da qualche parte».

«E non hai nessuna idea di come facesse?».

«No. Nessuna idea».

«Allora dovremo vivere con la paura che ci trovino anche qui. Altrimenti, a meno che i Braith non possano ripetere il miracolo, saremmo al sicuro.

«Devi capire, però, che la nostra posizione non è priva di difficoltà. Abbiamo un tetto e acqua a volontà, ma non abbiamo cibo di nessun genere. La prossima volta che usciamo all’aperto — dobbiamo andare allo spazioporto ed abbandonare Worlorn al più presto possibile, non c’è altra possibilità — la prossima volta che usciamo sarà molto difficoltoso. I Braith ci anticiperanno. Noi abbiamo la mia pistola a laser e due laser da caccia che ho trovato nell’aerauto. Più la macchina, armata e corazzata bene, che dovrebbe appartenere probabilmente a Roseph alto-Braith Kelcek…».

«Uno dei relitti sulla terrazza è ancora parzialmente funzionante», intervenne Dirk.

«Allora abbiamo due aerauto, se dovessimo averne bisogno», disse Vikary. «Contro di noi ci sono otto dei cacciatori Braith ancora vivi e probabilmente nove… Non sono sicuro, di aver colpito gravemente Lorimaar Arkellor. È possibile che l’abbia ucciso, ma sono propenso a dubitarne. Probabilmente i Braith possono mettere in cielo otto macchine, se lo credono opportuno, benché sia più tradizionale volare assieme, teyn-e-teyn. Tutte le macchine saranno corazzate. Hanno delle riserve, energia, cibo. Ci superano di gran numero. Può darsi, dato che io sono un fuorilegge infrangi-duello, che facciano pressione su Kirak Rossacciaio Cavis e sui due cacciatori della Fortezza di Scianagate perché si uniscano a loro nella mia ricerca. Infine, c’è Garse Janacek».

«Garse?».

«Io spero — prego — che si tolga la pietraluce dal braccio e ritorni su Alto Kavalaan. Si vergognerà, sarà solo se porterà solo il ferro. Non è un destino facile, t’Larien. È in disgrazia per causa mia, come tutta Ferrogiada. Mi dispiace che lui sia nei guai, però spero che vada a finire così. Però c’è anche un’altra possibilità, vedi».

«Un’altra…?».

«Potrebbe cacciarci. Lui non può abbandonare Worlorn fino a quando non verrà la nave. E per questo ci vorrà un po’ di tempo. Non so cosa farà lui».

«Non si unirà di sicuro ai Braith. Loro sono suoi nemici e tu sei il suo teyn e Gwen è la sua cro-betheyn. Può darsi che voglia uccidere me, questo è certo, ma…».

«Garse è più Kavalar di me, t’Larien. Lo è sempre stato. E adesso ancor più di prima, dato che io non sono più un Kavalar dopo quello che ho fatto. I vecchi usi insegnano che il teyn di un uomo debba portare la morte ad un infrangi-duelli, non meno degli altri. È un uso che può essere seguito solo dai più forti. Per molti, il vincolo del ferro-e-pietraluce è troppo stretto, per cui li si lascia da soli a piangere. Comunque Garse Janacek è un uomo molto forte, in un certo senso anche più forte di me. Non so. Non so».

«E se ci venisse dietro?».

Vikary parlò con calma. «Non potrei sollevare un’arma contro Garse. Lui è il mio teyn, anche se io non sono più il suo e gli ho fatto già abbastanza male, ho causato il suo fallimento, gli ho gettato addosso la vergogna. Per causa mia lui ha dovuto sopportare una dolorosa ferita per la maggior parte della sua vita da adulto. Una volta, quando eravamo giovani tutti e due, un uomo più anziano accusò offesa per uno dei suoi scherzi e lanciò la sfida. Il modo era il colpo-solo e combattemmo teynati e nella mia saggezza non proprio infinita, convinsi Garse che avremmo dimostrato il nostro onore se avessimo sparato in aria. Purtroppo facemmo proprio così. Gli altri due decisero di insegnare una lezione di umorismo a Garse. Con mia grande vergogna mi lasciarono illeso, mentre lui venne sfigurato a causa della mia stupidità.

«Eppure non mi ha mai rimproverato. La prima volta che lo vidi dopo il duello, quando stava ancora riprendendosi dalle ferite, mi disse: "Avevi ragione Jaantony, hanno proprio mirato in aria anche loro. peccato che abbiano sbagliato la mira"». Vikary rise, ma Dirk lo guardò e vide che aveva gli occhi pieni di lacrime, la bocca tesa e amara. Però non piangeva; con uno sforzo di volontà immenso riuscì a tenere indietro le lacrime.

All’improvviso Jaan si voltò e ritornò dentro, lasciando Dirk da solo sul balcone con i venti della bianca città del crepuscolo e la musica di Lamiya-Bailis. Lontano, sull’orizzonte si alzavano le bianche mani tese, che trattenevano la foresta usurpante. Dirk le studiò, pensoso, riflettendo sulle parole di Vikary.

Dopo qualche minuto il Kavalar ritornò, con gli occhi asciutti e la faccia priva di emozioni. «Mi dispiace», cominciò.

«Non è necessario…».

«Dobbiamo arrivare al punto cruciale, t’Larien. Che Garse mi dia la caccia o no, abbiamo sempre dei vantaggi formidabili. Abbiamo le armi, ammesso che ci sia da combattere, ma non c’è chi le può usare. Gwen è una brava tiratrice, abbastanza coraggiosa, ma è ferita e non sta bene in piedi. E tu… mi posso fidare di te? Te lo dico chiaro. Ho già avuto fiducia in te una volta e tu mi hai tradito».

«Come faccio a rispondere a questa domanda?», disse Dirk. «Tu non sei costretto a credere a tutte le promesse che faccio. Ma anche i Braith mi volevano uccidere, ti ricordi? E volevano uccidere anche Gwen. O magari credi che avrei tradito anche lei con la stessa…». Si fermò terrorizzato da ciò che stava dicendo.

«… con la stessa facilità con cui lo hai fatto a me», terminò per lui Vikary con un sorriso duro. «Sei piuttosto schietto. No, t’Larien, non penso che tu avresti tradito Gwen. Comunque non pensavo che tu ci avresti abbandonato, nemmeno quando io ti avevo nominato keth e tu avevi accettato il nome. Noi non avremmo duellato, se non fosse stato per te».

Dirk annui. «Lo so. Forse ho fatto un errore. Non lo so. Però sarei morto, se avessi avuto fiducia in te».

«Moriva un keth di Ferrogiada, con onore».

Dirk sorrise. «Gwen mi attraeva più della morte. Speravo che tu lo avresti capito questo».

«Infatti. Alla fine lei è ancora in mezzo a noi. Guarda in faccia la realtà, renditene conto. Prima o poi lei dovrà scegliere».

«Lei aveva scelto, Jaan, quando era venuta via con me. Tu devi tener conto di questa realtà». Dirk lo disse in fretta, cocciutamente; si chiese fino a che punto ci credeva lui stesso.

«Ma lei non ha tolto la giada-e-argento», rispose Vikary. Poi fece un gesto impaziente. «Ma questo non è importante. Per questa volta ti voglio credere».

«Bene. Che cosa vuoi che faccia?».

«Qualcuno deve volare fino a Larteyn».

Dirk corrugò la fronte. «Perché continui a volermi spingere al suicidio, Jaan?».

«Non ho detto che avresti dovuto essere tu, t’Larien», disse Vikary. «Ci andrò io. Sarà pericoloso, sì, ma bisogna farlo».

«Perché?».

«Il Kimdissi».

«Ruark?». Dirk sì era quasi dimenticato il suo antico ospite co-cospiratore.

Vikary annuì. «È stato amico di Gwen fin dai tempi di Avalon. Anche se non gli sono mai piaciuto, né lui piace a me, tuttavia non posso abbandonarlo completamente. I Braith…».

«Capisco. Ma come farai ad avvicinarlo?».

«Se riesco a raggiungere sano e salvo Larteyn, lo posso chiamare al visifono. Per lo meno lo spero». Diede una spallucciata, vaga e fatalistica.

«Ed io?».

«Resta qui con Gwen. Fagli dà infermiere, proteggila. Ti lascerò uno dei fucili di Roseph. Se lei si ristabilisce un po’, faglielo usare. Probabilmente lei è più capace di te. Sei d’accordo?».

«D’accordo. Non ci vuol molto a fare ciò che mi chiedi».

«No», disse Vikary. «Spero che tu sappia restare nascosto, al sicuro, fino a quando io ritornerò con il Kimdissi. Spero di trovarti come quando ti ho lasciato. Se fosse necessario scappare, per te, hai sempre a disposizione quell’altra aerauto. C’è una caverna da queste parti che Gwen conosce benissimo. Lei ti mostrerà la strada. Va alla caverna se sei costretto ad abbandonare Kryne Lamiya».

«Che cosa faccio se tu non torni indietro? È anche questa una possibilità, sai».

«in questo caso sarai di nuovo per conto tuo, come quando sei scappato la prima volta da Larteyn. Allora avevi dei progetti. Segui quelli, se ti sarà possibile». Fece un sorriso, ma non c’era il minimo divertimento. «Comunque, conto di ritornare. Ricordatelo bene, t’Larien. Ricordatelo».

C’era una nota sottile di acciaio acuminato nella voce di Vikary, un’eco che gli fece venire in mente un’altra conversazione fatta nello stesso vento algido. Le vecchie parole di Jaan, gli ritornarono alla mente con improvvisa chiarezza: ma io esisto. Ricordalo… Questo adesso non è Avalon, t’Larien ed oggi non è ieri. È un mondo di festival morente, un mondo senza leggi, per cui ognuno di noi deve aggrapparsi strettamente ai suoi propri codici, quelli che si è portato dentro. Ma Jaan Vikary, pensò violentemente Dirk, aveva portato due codici con sé quando era venuto su Worlorn.

Invece Dirk non se ne era portato nessuno, non aveva portato niente, tranne il suo amore per Gwen Delvano.

Gwen dormiva ancora quando i due uomini rientrarono dal balcone. I due camminarono assieme verso la terrazza d’atterraggio, senza disturbare la donna. Vikary aveva completamente spacchettato la macchina dei Braith. Roseph ed il suo teyn avevano preparato tutto per una spedizione di caccia, ovviamente breve, all’interno della foresta, ma poi tutto era andato all’aria. Dirk pensò che era un peccato che non avessero previsto un viaggio più lungo.

Comunque, Vikary aveva trovato solo quattro dure barrette di proteina al posto del cibo, più i due laser da caccia e qualche vestito che era stato messo sopra i sedili, Dirk mangiò immediatamente una delle barrette — era affamato — e fece scivolare le altre tre nella tasca del pesante giaccone che aveva indossato. Gli stava un po’ largo, ma non gli andava male; il teyn di Roseph aveva approssimativamente la taglia di Dirk. E poi era caldo… di cuoio spesso, tinto di rosso porpora, con il colletto, i polsi e le bordure di pelliccia bianca maculata. Entrambe le maniche del giaccone avevano dei disegni vorticanti disegnati sopra. La manica destra era rossa e nera, la sinistra argento e verde. Una giacca simile, ma più piccola (indubbiamente di Roseph), fu presa da Dirk con l’intenzione di farla usare a Gwen.

Vikary prese due dei fucili a laser, lunghi tubi di plastica nerissima con incisi sul calcio dei lupi bianchi che latravano. Si mise il primo sulla spalla; il secondo lo diede a Dirk, assieme a brevi spiegazioni di come funzionava. L’arma era leggerissima, leggermente oleosa al tatto. Dirk la tenne in mano goffamente.

I saluti furono brevi e senza formalità. Quindi Vikary si chiuse dentro la grande macchina Braith. la fece sollevare da terra e si lanciò nel cielo vuoto. Quando partì si sollevarono grandi nubi di polvere e Dirk si ritrasse tossendo, con una mano sulla bocca e l’altra sul fucile.

Quando ritornò nell’appartamento, Gwen aveva incominciato a muoversi. «Jaan?», disse, sollevando il capo dal materasso di cuoio per vedere chi era entrato. Gemette e ricadde subito all’indietro, massaggiandosi le tempie con tutte e due le mani. «La mia testa», disse con un sussurro piagnucoloso.

Dirk appoggiò il laser contro la parete, appena oltre la porta e si sedette accanto al letto incassato. «Jaan è appena andato via», disse. «Sta volando verso Larteyn a prendere Ruark».

L’unica risposta di Gwen fu un altro gemito.

«Posso fare qualcosa per te?», chiese Dirk. «Acqua? Cibo? Abbiamo un paio di queste». Tirò fuori dalla tasca le barrette di proteina, gliele diede e lei le guardò.

Gwen, dopo averle osservate un momento, fece una smorfia disgustata. «No», disse. «Mettile via. Non sono affamata sino a quel punto».

«Dovresti mangiare qualcosa».

«L’ho fatto», disse lei. «Questa notte. Jaan ha spezzato un paio di queste barrette nell’acqua ed ha fatto una specie di pasta». Gwen abbassò le mani dalle tempie e si voltò a guardarlo. «Non sono riuscita a tenerne giù granché», disse lei. «Non mi sento tanto bene».

«Mi sembra logico», disse Dirk. «Non potevi aspettarti di star bene dopo ciò che è capitato. Probabilmente hai avuto una commozione cerebrale e sei fortunata a non essere morta».

«Jaan me lo ha detto», disse lei un po’ aspramente. «Mi ha parlato anche di ciò che è successo dopo… ciò che ha fatto a Myrik». Aggrottò la fronte. «Pensavo di averlo colpito piuttosto forte quando siamo caduti. Tu hai visto, non è vero? Mi è sembrato di rompergli la mascella, o quella o le mie dita. Ma lui non se ne è nemmeno accorto».

«No», disse Dirk.

«Parlami di… tu lo sai, di quello che è successo poi. Jaan mi ha fatto un accenno. Voglio saperlo». La sua voce era affaticata e piena di dolore, ma non si poteva ignorarla.

Così Dirk glielo disse.

«Ha puntato il fucile a Garse?», disse lei ad un certo punto. Dirk annuì e lei si lasciò di nuovo andare.

Quando lui ebbe finito, Gwen rimase nel silenzio più assoluto. I suoi occhi si chiusero un momento, si riaprirono, poi si richiusero e non li riaprì. Se ne stava tranquilla su di un fianco, ripiegata in una specie di posizione fetale, con le mani chiuse in piccoli pugni sotto il mento. Osservandola, Dirk fece scivolare lo sguardo fino al suo braccio sinistro, con il freddo metallo della giada-e-argento che lei continuava a portare.

«Gwen», disse lui piano. La donna riapri gli occhi… solo per un istante… poi scosse il capo violentemente, come un urlo silenzioso: no! «Ehi», disse lui, ma le palpebre di Gwen erano di nuovo chiuse strettamente, e lei era perduta in se stessa e Dirk era solo con le gemme e le sue paure.

La stanza era inzuppata di luce, ciò che su Worlorn era il sole; le tinte del tramonto a mezzogiorno entravano dalla finestra e particelle di polvere galleggiavano pigramente attraverso l’ampia striscia luminosa. La luce colpiva solo un lato del materasso; Gwen era sdraiata per metà al sole e per metà all’ombra.

Dirk — lui non parlò più con Gwen, né la guardò — si mise ad osservare i disegni luminosi sulla parete.

Al centro della camera tutto era caldo e rosso ed era qui che la polvere danzava, uscendo fuori dall’oscurità e diventando cremisi per un momento, dorata per un momento, creava minuscole ombre, ma poi si allontanava galleggiando e subito dopo spariva. Dirk alzò una mano, la tenne sollevata — minuti? ore? — per un po’. Diventò calda, sempre più calda; la polvere vorticava attorno; le ombre scivolavano come l’acqua quando lui faceva scattare le dita e le voltava; il sole era amichevole e familiare. Ma improvvisamente si rese conto che i movimenti della sua mano, come l’infinito vorticare della polvere, non avevano scopo, né schema e nemmeno significato. Fu la musica a dirglielo; la musica di Lamiya-Bailis.

Ritirò la mano e aggrottò la fronte.

Attorno al grande centro luminoso e vitale c’era un sottile confine tormentato dove il sole brillava attraverso il bordo della finestra fatto di vetro colorato nero e sangue. O cercava di passare. Era solo un bordo sottile, ma delimitava la zona della polvere mobile da entrambi i lati.

Al di là c’erano gli angoli neri, le parti della stanza che il Mozzo ed i Soli Troiani non raggiungevano mai, dove demoni grassi e le forme delle paure di Dirk si avvinghiavano nascostamente, sicuri per sempre da occhi indiscreti.

Dirk sorrise e si massaggiò il mento — una corta barba gli copriva le guance e la mascella e lui sentiva la necessità di grattarsi — poi osservò quegli angoli e ricacciò al fondo dell’anima la musica di Cupalba. Non sapeva esattamente da dove fosse rispuntata, ma ora era lì e lo circondava.

La torre in cui erano — la loro casa — suonò una nota lunga e bassa. Anni dopo, o secoli, le rispose un coro di finestre risonanti che piangevano. Dirk udì delle pulsazioni terrificanti e gli strilli di bambini abbandonati ed il suono scivoloso di coltelli che dividevano la carne viva. Ed il tamburo. Come poteva il vento battere un tamburo? pensò lui. Non lo sapeva. Forse era qualcos’altro. Però assomigliava a un tamburo. Comunque era terribilmente lontano, e terribilmente solo.

Così orribilmente ed infinitamente solo.

Le nebbie e le ombre si radunarono negli angoli più lontani e più pallidi della loro stanza e poi cominciavano a schiarirsi. Dirk vide un tavolo ed una sedia bassa, che nasceva dalle pareti e dal pavimento, come uno strano vegetale di plastica. Per un momento si chiese come mai riuscisse a vederli; il sole si era mosso un po’ e solo un piccolo raggio di luce stava adesso attraversando la finestra ed alla fine anche quello scomparve ed il mondo fu grigio.

Quando il mondo era grigio, notò lui, la polvere non danzava più. No. Per niente. Mise una mano nell’aria per assicurarsene; non c’era polvere, non c’era calore, non c’era sole. Annuì solennemente. Gli parve di aver scoperto una qualche grande verità.

Deboli luci si muovevano sulle pareti, spettri che si svegliavano per un’altra nota. Fantasmi e recipienti di antichi sogni. Erano tutti grigi e bianchi; i colori erano solo per le cose vive e qui non c’era posto per loro.

Gli spettri cominciarono a muoversi. Erano imprigionati nelle pareti, ognuno di loro; di tanto in tanto, Dirk credette di vederne uno che si fermava nella danza furiosa e batteva inutilmente e senza speranza contro le pareti di vetro che lo tenevano lontano dalla stanza. Mani irose che battevano, battevano, eppure nella stanza non si sentiva nessun rumore. Il silenzio faceva parte di queste cose; essenzialmente i fantasmi erano proprio questi, privi di sostanza e potevano battere finché volevano, ma alla fine sarebbero dovuti tornare a danzare.

La danza… la danza macabra… ombre senza forme… Oh, ma era splendido! Si muovevano, si tuffavano, si contorcevano. Pareti di grigia fiamma. Questi danzatori erano molto meglio dei granellini di polvere; avevano uno schema e la loro musica era la stessa canzone della Città Sirena.

Desolazione. Vuoto. Decadenza. Un unico tamburo, percosso lentamente. Solo. Solo. Solo. Niente aveva un senso.

«Dirk!».

«Era la voce di Gwen. Lui scosse il capo, smise di guardare la parete e puntò lo sguardo verso di lei nell’oscurità. Era notte. Notte. Il giorno era sparito, chissà come.

Gwen — lei non aveva dormito — teneva gli occhi alzati verso di lui. «Mi dispiace», disse lei. Gli stava dicendo qualcosa. Ma lui lo sapeva già, lo sapeva per il suo silenzio, lo aveva saputo dal… forse dal tamburo. Da Kryne Lamiya.

Lui sorrise. «Non hai mai dimenticato, non è vero? Non era questione di dimenticare. C’era una ragione perché tu non hai tolto il…». Allungò un dito ad indicare.

«Sì», disse lei. Gwen si sedette nel letto, mentre la coperta le scivolava dalla vita. Jaan le aveva aperto la parte anteriore del vestito che ora le stava addosso piuttosto largo ed erano visibili le morbide curve del suo seno. Nella luce oscillante la sua carne era pallida e grigia. Dirk non sentì alcun trasporto. La mano della donna si appoggiò sulla giada-e-argento. La toccò, la batté, sospirò. «Non avevo mai pensato… non so… ho detto ciò che dovevo dire. Bretan Braith ti avrebbe ucciso».

«Magari sarebbe stato meglio così», rispose lui. Non con amarezza, ma in un modo un po’ stupito, leggermente turbato. «Così non avevi mai avuto intenzione di lasciarlo».

«Non lo so. Come faccio a sapere che intenzione avevo? Io volevo provare, Dirk, davvero. Comunque non ci ho mai creduto seriamente. Te l’avevo detto. Sono stata onesta. Questo non è Avalon e noi siamo cambiati. Io non sono la tua Jenny. Non lo sono mai stata ed ora meno che mai».

«Sì», disse lui, annuendo. «Ti ricordo mentre guidavi. Il modo in cui stringevi l’asta. La tua faccia. I tuoi occhi. Tu hai gli occhi di giada, Gwen. Occhi di giada e sorriso d’argento. Mi fai paura». Allontanò lo sguardo da lei, fissandolo di nuovo sulle pareti. I murali luminosi si muovevano secondo schemi caotici, assieme alla musica selvatica e sottile. Chissà come, gli spettri se ne erano andati. Lui si era limitato ad allontanare gli occhi da loro per un istante, eppure si erano tutti confusi e si erano allontanati. Come i suoi antichi sogni, pensò.

«Occhi di giada?», stava dicendo Gwen.

«Come Garse».

«Garse ha occhi azzurri», disse lei.

«Eppure. Come Garse».

Lei ridacchiò e poi gemette. «Mi fa male quando rido», disse.

«Ma è divertente. Io come Garse. Non mi stupisce che Jaan…». «Ritornerai con lui?».

«Forse. Non ne sono sicura. Mi sarebbe assai difficile lasciarlo a questo punto. Capisci? Lui ha scelto finalmente. Quando ha puntato il laser contro Garse. Dopo di che, dopo che lui si è rivolto contro il suo teyn, contro la granlega ed il mondo, non posso limitarmi a… Tu lo sai. Ma non voglio essere di nuovo una betheyn per lui, mai più. Deve diventare qualcosa di più della giada-e-argento».

Dirk si sentì svuotato. Si strinse nelle spalle. «Ed io?».

«Tu sai bene che non avrebbe funzionato. È sicuro. Tu avresti dovuto sentirlo, invece non hai mai smesso di chiamarmi Jenny».

Lui sorrise. «Davvero? Forse no. Può darsi che non abbia mai smesso».

«Mai», disse lei. Si soffregò la testa. «Adesso mi sento un po’ meglio», continuò. «Hai ancora quelle barrette di proteine?».

Dirk ne tirò fuori una dalla tasca e gliela diede. Lei l’afferrò al volo, con la mano sinistra, gli sorrise, la spacchettò e cominciò a mangiare.

Dirk si alzò improvvisamente in piedi, sprofondando le mani nelle tasche del giubbotto e camminò verso la finestra alta. Le vette delle torri bianche come ossa portavano ancora un leggero tocco rossastro… forse Occhiodaverno ed i suoi attendenti non erano ancora completamente tramontati nel cielo occidentale. Ma giù, nelle strade, la città Cupalba era ebbra di notte. I canali erano nastri neri ed il paesaggio essudava la leggera fosforescenza purpurea del muschio luminoso. Dirk vide attraverso quelle tenebre scintillanti il suo barcaiolo solitario, come già gli era capitato di vederlo su quelle stesse acque cupe. Era piegato sul suo palo, come sempre, lasciandosi trasportare dalla corrente, e andava e andava, con facilità, inesorabilmente. Dirk sorrise. «Benvenuto», mormorò, «benvenuto».

«Dirk?». Gwen aveva finito di mangiare. Si stava di nuovo allacciando stretta la tuta e si delineava nelle tenebre luminose. Dietro di lei le pareti erano animate da danzatori bianchi e grigi. Dirk udiva tamburi e sussurri, e promesse. E sapeva che le ultime erano menzogne.

«Una domanda, Gwen», disse con difficoltà.

Lei lo fissò.

«Perché mi hai mandato a chiamare?», disse lui. «Perché? Se davvero pensavi che tutto fosse morto tra noi, tra te e me, perché non mi hai lasciato stare da solo?».

Il suo viso era pallido e vuoto. «Mandato a chiamare?».

«Sì, sai», disse lui. «La gemma mormorante».

«Già», disse lei incerta. «Si trova a Larteyn»,

«Naturalmente», disse lui. «Nel mio bagaglio. Tu me l’hai mandata».

«No», disse lei. «No».

«Ma mi sei venuta incontro!».

«Ci avevi mandato un segnale laser dalla nave. Ma io… Credimi, quella era la prima volta che ho sentito parlare del tuo arrivo. Io non sapevo che cosa pensare. Pensavo che prima o poi me l’avresti spiegato, anche se naturalmente non c’era nessuna fretta».

Dirk disse qualcosa, ma la torre pianse la sua nota bassa e le sue parole furono portate lontano. Dirk scosse il capo. «Tu non mi avevi mandato a chiamare?».

«No».

«Ma io ho ricevuto la gemma mormorante. Su Braque. La stessa gemma, esperincisa. Impossibile da falsificare». Poi si ricordò qualcos’altro. «Ed Arkin ha detto…».

«Sì», disse lei. Si stava mordendo le labbra. «Non capisco. Deve essere stato lui a mandarla. Eppure era mio amico. Avevo bisogno di qualcuno con cui parlare. Non capisco». Lei piagnucolò.

«La testa?», chiese Dirk in un soffio.

«No», disse lei. «No».

Lui la guardò in faccia. «È stato Arkin a mandarla?».

«Sì. Era l’unico. Deve essere stato lui. Ci siamo incontrati su Avalon, subito dopo che tu ed io… sai. Arkin mi ha aiutata. Sono stati tempi difficili. C’era anche lui quando tu hai mandato la tua gemma a Jenny. Io piangevo eccetera eccetera. Ne ho parlato con lui e ne abbiamo discusso. Anche più tardi, quando io ho incontrato Jaan, Arkin ed io eravamo vicini. Era come un fratello!».

«Un fratello», ripeté Dirk. «Perché avrebbe dovuto…».

«Non lo so.

Dirk era pensoso. «Quando tu mi sei venuta incontro allo spazioporto, Arkin era con te. Eri tu che gli avevi chiesto di venire? Io contavo sul fatto che tu fossi sola, ricordo».

«È stata un’idea sua», disse lei. «Be’, gli avevo detto che ero nervosa. Per il fatto di rivederti. Lui… lui si è offerto di venire con me per sostenermi moralmente. E poi ha detto che voleva conoscerti. Sai, del resto gli avevo parlato di te su Avalon».

«E quel giorno quando tu e lui ve ne siete andati nella foresta… sai, quando mi sono messo nei guai con Garse e con Bretan… cosa è successo?».

«Arkin aveva parlato di… una migrazione di scarabei corazzati. Invece non c’era niente, ma siamo dovuti andare a controllare. Siamo scappati fuori di corsa».

«Perché non mi hai lasciato detto dove andavi? Io credevo che Jaan e Garse ti avessero picchiata, che ti tenessero lontana da me. La notte prima, tu avevi detto…».

«Lo so, ma Arkin mi aveva detto che te lo avrebbe riferito lui».

«E poi mi ha convinto a scappare», disse Dirk. «E a te, immagino che ti abbia detto che per convincermi avresti dovuto…».

Gwen annuì.

Lui si voltò verso la finestra. L’ultima luce era scomparsa dalle vette delle torri. In alto c’era una manciata di stelle che scintillava. Dirk le contò. Dodici. Una dozzina esatta. Si chiese se alcune di loro fossero davvero delle galassie dall’altra parte del Grande Mare Nero. «Gwen», disse lui, «Jaan se ne è andato questa mattina. Da qui a Larteyn e ritorno, con l’aerauto… quanto ci vorrà?».

Lei non rispose, e Dirk si voltò a guardarla di nuovo.

Le pareti erano piene di fantasmi e Gwen tremava alla loro luce.

«Avrebbe dovuto essere già di ritorno a quest’ora, non è vero?».

Lei annuì e si sdraiò di nuovo sul pallido materasso.

La Città Sirena cantava la sua ninna nanna, il suo inno al riposo finale.

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