Dirk si riposò ben poco quella notte. Tutte le volte che cominciava ad addormentarsi, i sogni lo risvegliavano di soprassalto: spasmodiche visioni che avevano a che fare con il veleno e che da sveglio non riusciva più a ricordare bene, come ebbe a rendersene conto più volte durante la notte. Alla fine si arrese. Cominciò così a rovistare fra le sue cose finché non trovò la gemma avvolta in velluto e argento e rimase seduto nel buio a berne le fredde promesse.
Passarono le ore. Poi Dirk si alzò e si vestì. Fece scivolare la gemma in una tasca ed uscì fuori, da solo, per vedere la Ruota che si sollevava nel cielo. Ruark dormiva sodo, ma la porta era stata codificata anche per Dirk, per cui non ci furono problemi ad uscire. Prese la cabina che andava verso il tetto ed attese che scomparissero le ultime impurità della notte: si sedette sulla fredda ala metallica dell’aerauto grigia.
Fu un’alba strana, pallida ed insidiosa ed il giorno che la seguì fu cupo. In un primo tempo ci fu come una vaga nube lucente sull’orizzonte, una macchia nera e rossa che echeggiava debolmente con la pietraluce della città. Poi spuntò il primo sole: una pallottola minuscola e gialla che Dirk riuscì a vedere anche ad occhio non protetto. Dopo qualche minuto apparve una seconda stella, un po’ più grande e brillante, in un’altra zona dell’orizzonte. Ma tutti e due i soli, anche se si vedeva che non erano delle semplici stelle, gettavano meno luce della grassa luna di Braque.
Passarono pochi minuti ed il Mozzo cominciò a sollevarsi al di sopra del Comune. In principio apparve come una sottile linea di fioca luce rossa che si perdeva nel consueto sanguigno dell’alba, ma poi prese a diventare sempre più brillante ed alla fine Dirk capì che non era un riflesso luminoso, bensì la corona di un incommensurabile sole rosso. Quando sorse il mondo divenne color cremisi.
Dirk guardò le strade di sotto. Tutte le pietre di Larteyn erano adesso scolorite; il lucore si vedeva solo dove cadevano le ombre e solo appena appena. Sulla città si era depositata come una tenebra, simile ad un manto funebre di color grigiastro solo un po’ macchiato di un rosso slavato. Nella luce debole e fredda, tutte le illuminazioni notturne erano morte e le strade silenziose echeggiavano di morte e di desolazione.
Il giorno di Worlorn. Eppure era già crepuscolo.
«L’anno scorso era più luminoso», disse una voce dietro di lui. «Ora ogni giorno che viene è più buio, più freddo. Due delle sei stelle di Coronadaverno sono nascoste dietro a Grasso Satana e non servono a far luce. Le altre sono sempre più piccole e distanti. Lo stesso Satana, che pure illumina Worlorn, ha una luce sempre più rossa e debole. Per cui Worlorn vive un eterno tramonto. Ancora pochi anni ed i sette soli diventeranno sette deboli stelle e verrà di nuovo il ghiaccio».
La persona che parlava era rimasta immobile a guardare l’alba, con gli stivali leggermente separati e le mani sui fianchi. Era un uomo alto, magro e muscoloso, a torso nudo malgrado il mattino fosse ancora freddo. Aveva la pelle color del bronzo che pareva ancor più rossa sotto la luce di Grasso Satana. Aveva alti zigomi spigolosi, una grande mascella quadrata e capelli che gli arrivavano fino alle spalle, neri come quelli di Gwen. Sul braccio — aveva le braccia scure ricoperte di sottili peli neri — portava due braccialetti, entrambi massicci. Giada ed argento sul braccio sinistro, ferro e rossa pietraluce sul destro.
Dirk non si mosse dalla sua posizione sull’ala della manta. L’uomo lo guardò. «Tu sei Dirk t’Larien ed un tempo sei stato l’amante di Gwen».
«E tu sei Jaan».
«Jaan Vikary», dell’Unione Ferrogiada», disse l’altro. Fece un passo avanti e sollevò le mani con le palme in fuori.
Dirk conosceva il significato del gesto perché lo aveva visto da qualche parte. Si alzò in piedi e premette le mani contro quelle del Kavalar. Allora notò qualcosa d’altro. Jaan portava una cintura di metallo nero dall’aspetto oleoso ed una pistola laser al fianco.
Vikary notò la direzione del suo sguardo e sorrise. «Tutti i Kavalar vanno in giro armati. È un’abitudine… un’abitudine molto rispettata. Spero che tu non sia così scosso e mal influenzato come l’amico di Gwen, il Kimdissi. Se così fosse sarebbe colpa tua, non nostra. Larteyn fa parte di Alto Kavalaan e non ti aspetterai che si sia noi a conformarci alle tue abitudini».
Dirk si risedette. «No. Me lo sarei dovuto aspettare, direi, visto ciò che mi hanno detto ieri sera. Lo trovo strano. C’è forse qualche guerra in corso?».
Vikary fece un sorrisetto tirato… e mostrò i denti, deliberatamente. «C’è sempre una qualche guerra, t’Larien. La vita è una guerra». Fece una pausa. «Il tuo nome: t’Larien. Inconsueto. Non mi è mai capitato di sentire prima un nome del genere e non è capitato nemmeno al mio teyn Garse. Da dove provieni?».
«Baldur. È parecchio distante, dall’altra parte di Vecchia Terra. Ma non me ne ricordo quasi. I miei genitori si trasferirono ad Avalon quando ero giovanissimo».
Vikary annui. «E poi hai viaggiato, mi ha detto Gwen. Quali mondi hai visitato?».
Dirk alzò le spalle. «Prometeo, Rhiannon, Talsasso, il Mondo di Jamison e qualche altro. Avalon, naturalmente. Per lo meno un’altra dozzina, per lo più posti più arretrati di Avalon, dove avevano bisogno di gente esperta. Di solito si trova lavoro facilmente se si è stati all’Istituto, anche se non si è tanto abili e geniali. Per me andava bene. Mi piace viaggiare».
«Però non sei mai stato dall’altra parte del Velo Tentatore fino a questo momento. Sei stato solo nei convolvi e mai nei mondi esterni. Le cose sono molto diverse qui, t’Larien».
Dirk aggrottò la fronte. «Com’è la parola che hai usato? Convolvi?».
«I convolvi», ripeté Jaan Vikary. «Ah. Si tratta di un modo di dire Lupano. I mondi convolvi, o sconvolti, come vuoi tu. Un modo di dire che ho imparato dai miei amici Lupani durante gli studi su Avalon. Si tratta dei mondi che si trovano nella sfera compresa tra i mondi esterni e Vecchia Terra nella colonizzazione della prima e della seconda generazione. Fu proprio nei convolvi che gli Hrangani saturarono le stelle e crearono le razze schiave per combattere gli Imperiali Terrestri. Quasi tutti i pianeti che tu hai nominato prima erano già noti in quel periodo e vennero duramente colpiti dall’antica guerra e furono sconvolti durante il collasso. Lo stesso Avalon è una colonia della seconda generazione ed un tempo era un settore capitale. La cosa è ben diversa rispetto al mondo che è adesso in questi secoli di sparpagliamento.
Dirk annuì. «Sì. Conosco un po’ di storia anch’io, ma tu sembri molto ben informato».
«Io sono uno storico», disse Vikary. «La maggior parte del mio lavoro è consistita nell’estrarre i fatti storici dai miti del mio mondo, Alto Kavalaan. Ferrogiada mi ha mandato su Avalon, affrontando notevoli spese, per fare delle ricerche nelle banche di memoria dei vecchi computer e solo per quella ragione. Dopo aver trascorso due anni in quello studio, mi sono trovato con parecchio tempo a mia disposizione, per cui ho sviluppato la mia ricerca sulla più vasta storia dell’uomo».
Dirk non disse niente, ma si limitò a fissare nuovamente lo sguardo verso la luce dell’alba. Il rosso disco di Grasso Satana era ormai sollevato per metà nel cielo e si poteva vedere anche una terza stella gialla. Era leggermente più a nord delle altre e pareva una semplice stella. «La stella rossa è una supergigante», meditò Dirk, «ma vista da qui pare appena un po’ più grande del sole di Avalon. Deve essere ben lontana. La temperatura dovrebbe essere più fredda, ormai ci dovrebbe essere il ghiaccio qui attorno. Invece fa appena freddo».
«Per merito nostro», gli rispose Vikary con evidente orgoglio. «Per la verità non è merito di Alto Kavalaan, comunque è sempre merito dei cittadini dei mondi esterni. Tober ha conservato molta tecnologia sui campi di forza di quella già nota agli Imperialisti Terrestri durante il collasso ed anzi, i Toberiani hanno aggiunto delle nuove cognizioni da quell’epoca. Se non avessero alzato il loro campo, il festival non sarebbe stato possibile. Al perielio il calore della Coronadaverno e di Grasso Satana avrebbe incendiato l’intera atmosfera di Worlorn facendo ribollire gli oceani, ma lo scudo toberiano è servito ad arrestare quella furia, così abbiamo avuto una lunga e luminosa estate. Adesso, in modo analogo, lo scudo contribuisce a mantenere il calore. Comunque ha anche lui i suoi limiti come tutte le cose. Il freddo verrà».
«Non pensavo che ci saremmo incontrati in questo modo», disse Dirk. «Come mai sei venuto qui?».
«Ho tirato ad indovinare. Parecchi anni fa. Gwen mi aveva detto che ti piaceva osservare l’alba. Mi ha detto anche altre cose, Dirk t’Larien. So molto più io di te di quanto tu sappia di me».
Dirk rise. «Be’, è vero. Io non sapevo nemmeno che tu esistessi, fino all’altra sera».
Il viso di Jaan Vikary era duro e serio. «Ma io esisto. Ricordatelo, ed allora potremo essere amici. Speravo di trovarti da solo proprio per dirti questo prima che si svegliassero gli altri. Questo non è Avalon, t’Larien, ed oggi non è più ieri. Questo è un mondo da festival che muore, un mondo senza legge, per cui ognuno di noi deve avvinghiarsi ai suoi propri codici morali. Non cercare di mettere alla prova il mio. Fin dagli anni di Avalon ho sempre cercato di considerarmi semplicemente Jaan Vikary, ma sono pur sempre un kavalar. Non costringermi a diventare Jaantony Riv Lupo alto-Ferrogiada Vikary».
Dirk si alzò in piedi. «Non sono sicuro di capire ciò che dici», rispose. «Ma penso di poter essere sufficientemente amabile. Non ho niente contro di te, Jaan».
Queste parole parvero soddisfare Vikary. Annuì lentamente ed infilò una mano nella tasca dei pantaloni. «Un simbolo della mia amicizia e della mia stima», disse. Nella sua mano c’era una spilla da collare di metallo nero, una minuscola manta. «La porterai per il tempo che rimarrai qui?».
Dirk gliela prese di mano. «Se tu lo vuoi», disse, sorridendo della formalità dell’altro. Fissò la spilla al colletto.
«Qui l’alba è cupa», disse Vikary, «ed il giorno non è granché meglio. Scendi da noi. Io sveglierò gli altri, così potremo mangiare qualcosa».
L’appartamento che Gwen divideva con i due Kavalar era immenso. Il soggiorno con il soffitto alto era dominato da un focolare alto due metri e lungo due volte tanto con una cappa di lastre grige su cui si ergevano delle baluginanti cariatidi appollaiate per far la guardia alle ceneri. Vikary condusse Dirk dall’altra parte, facendogli superare uno spesso tappeto nero, in una stanza da pranzo che era quasi altrettanto grande. Dirk si sedette in una sedia di legno dallo schienale alto, una delle dodici che erano sistemate attorno al grande tavolo, mentre il suo ospite era andato a prendere il cibo ed a svegliare la compagnia.
Ritornò poco dopo, portando un piatto con della carne affettata a fette sottili ed un canestro di biscotti freddi. Mise il tutto di fronte a Dirk, poi si voltò e si allontanò di nuovo.
Se ne era appena andato che un’altra porta si aprì ed entro Gwen sorridendo ancora mezzo addormentata. Indossava una vecchia sciarpa sul capo, pantaloni stinti ed un informe giaccone verde con le maniche larghe. Dirk vide il luccichio del suo pesante braccialetto di argento e giada, attorno al. braccio destro. Un passo dietro di lei venne un altro uomo, alto quasi come Vikary ma di parecchi anni più giovane e molto più magro, vestito con una tuta intera dalle maniche corte fatta di tessuto camaleontino rosso-bruno. Fissò intensamente Dirk con i suoi occhi azzurrissimi, gli occhi più azzurri che Dirk avesse mai visto, posti in un viso affilato al di sopra di una barba completamente rossa.
Gwen si sedette. Quello con la barba rossa si piazzo davanti alla sedia in cui era seduto Dirk. «Io sono Garse Ferrogiada Janacek», disse. Gli offrì i palmi aperti. Dirk si alzò in piedi e glieli premette.
Dirk notò che Garse Ferrogiada Janacek portava una pistola laser alla cintola in un fodero di pelle posto su di una cintura d’argento a rete. Attorno all’avambraccio destro aveva un braccialetto nero, gemello con quello di Vikary… ferro e, pareva, pietraluce.
«Probabilmente sai chi sono», disse Dirk.
«Certo», rispose Janacek. Aveva un ghigno piuttosto malevolo. Entrambi si sedettero.
Gwen aveva già cominciato a masticare un biscotto. Quando Dirk si risedette, lei allungò una mano attraverso il tavolo e gli toccò la piccola spilla a forma di manta sul colletto e sorrise, come per uno scherzo segreto. «Vedo che tu e Jaan vi siete già trovati», disse lei.
«Più o meno», rispose Dirk e proprio in quel momento ritornò Vikary, con la mano destra avvolta goffamente attorno ai manici di quattro boccali di peltro, mentre con la sinistra teneva una brocca di birra scura. Depositò tutto al centro del tavolo, poi si avviò un’ultima volta verso la cucina per prendere piatti e posate, oltre ad una coppa di vetro piena di pasta dolce, gialla, che lui consigliò di spalmare sui biscotti.
Nel momento in cui si era allontanato, Janacek aveva spinto le caraffe attraverso il tavolo di fronte a Gwen. «Mesci», le disse, con un tono un po’ perentorio, poi rivolse ancora la sua attenzione a Dirk. «Mi si dice che lei è stato il primo uomo che la signora abbia mai conosciuto», disse mentre Gwen versava la birra. «Quando lei l’ha lasciata, la ragazza aveva un imponente numero di basse abitudini», disse, sorridendo freddamente. «Sarei quasi tentato di considerarmi insultato e di invitarla fuori per chiedere soddisfazione».
Dirk parve sconvolto.
Gwen aveva riempito tre delle caraffe con birra e con schiuma. Ne mise una di fronte al posto di Vikary, la seconda di fronte a Dirk e trasse un gran sorso dalla terza. Poi si passò il dorso della mano sulla bocca, sorrise a Janacek e gli diede la caraffa vuota. «Se hai deciso di spaventare il povero Dirk per via dei miei modi», lei disse, «allora io dovrei sfidare Jaan per tutti questi tremendi anni in cui ho dovuto sopportarti».
Janacek rivoltò il boccale vuoto tra le mani e guardò torvo. «Vacca-betheyn», disse con il più normale tono mondano. Poi si versò la birra da solo.
Vikary tornò un istante dopo. Si sedette, trasse un gran sorso dal suo boccale, poi cominciarono tutti a mangiare. Dirk scoprì presto che la birra a colazione gli piaceva. Anche i biscotti erano eccellenti, se spalmati con uno spesso strato di pasta dolce. La carne era un po’ asciutta.
Janacek e Vikary continuarono a fargli delle domande per tutto il tempo, mentre Gwen rimase seduta con l’aspetto un po’ stupito e non disse molto. I due Kavalar erano notevolmente diversi. Jaan Vikary parlava tutto piegato in avanti (era sempre a torso nudo ed ogni tanto sbadigliava e si grattava distrattamente) e manteneva un tono generale di gentile interessamento, sorridendo frequentemente e pareva molto più a suo agio di prima, sulla terrazza. Eppure a Dirk parve un atteggiamento studiato, come se fosse una persona tesa che cercasse di rilassarsi; anche la sua maniera di essere informale — i sorrisi, il grattarsi — pareva studiata e formale. Garse Janacek invece si sedeva in maniera più eretta di Vikary e non si grattava mai e parlava con tutte le formalità tipiche del manierismo Kavalar, però pareva più genuinamente rilassato, come se godesse delle restrizioni che la sua società gli imponeva e non avesse la minima intenzione di liberarsene. Parlava in un modo vivace ed abrasivo; sparpagliava insulti nello stesso modo in cui una mola sparpaglia scintille e la maggior parte erano diretti a Gwen. Anche lei gli rispondeva male, ma più debolmente; Janacek sapeva giocare meglio di lei. Il più delle volte pareva un casuale, simpatico dare ed avere, ma c’erano delle volte in cui a Dirk pareva di scorgere dell’ostilità autentica. Vikary era solito aggrottare la fronte ad ogni scambio.
Quando capitò a Dirk di parlare del suo viaggio su Prometeo, Janacek colse la palla al balzo. «Mi dica t’Larien», disse, «per lei gli Uomini Modificati sono umani o no?».
«Oh certo», disse Dirk. «Sono umani. Sono stati preparati dagli Imperiali Terrestri parecchio tempo fa, durante la guerra. I moderni Prometeani sono solo i discendenti delle antiche Truppe di Guerra Ecologica».
«Per la verità», disse Janacek, «io non sarei molto d’accordo con le sue conclusioni. I loro geni sono stati manipolati ad un tal punto che hanno perso ogni diritto di chiamarsi uomini; così la penso io. Uomini libellula, uomini sottomarini, uomini che respirano veleni, uomini che vedono al buio come Hruun, uomini con quattro braccia, ermafroditi, soldati senza stomaco, scrofe che allattano senza alcun sentimento… queste creature non sono uomini. O non-uomini per essere precisi».
«No», disse Dirk. «Ho già sentito il termine non-uomini. È termine comune su molti mondi, ma si intende quella parte di razza umana che ha subito delle mutazioni tali da non renderla più in grado di generare persone se si unisce al normale ceppo umano. I prometeani hanno fatto molta attenzione ad evitare una cosa del genere. I loro capi — sa, è gente dall’aspetto assolutamente normale, se si escludono delle alterazioni minori, come ad esempio la longevità e cose simili — i loro capi, dicevo, scendono spesso su Rhiannon e Talsasso, sa, a far razzie. Lo fanno per catturare degli umani di tipo terrestre…».
«Perfino sulla Terra non c’è più la razza di tipo terrestre in questi ultimi secoli», interruppe Janacek. Poi alzò le spalle. «Non dovrei lasciarmi trasportare, che ne dice? Ad ogni modo la Terra è troppo lontana. Da noi le notizie arrivano che sono ormai vecchie di secoli. Continui».
«Be’, questa è la mia idea», disse Dirk. «Gli Uomini Modificati sono pur sempre uomini. Anche le classi più infime, le più grottesche, gli esperimenti falliti scartati dai loro chirurghi, anche quelli possono generare. Ecco perché li sterilizzano: hanno paura che la razza dilaghi».
Janacek ingoiò una sorsata di birra e fissò Dirk con quei suoi occhi intensamente azzurri. «Così possono generare, lei dice». Sorrise. «Mi dica, t’Larien, negli anni che lei ha passato su quel mondo ha avuto occasione di verificarlo personalmente?».
Dirk arrossi e si trovò a fissare intensamente Gwen, come se la colpa di tutto fosse solo sua. «Non ho fatto il voto di castità in tutti questi anni, se è questo che intende», sbottò.
Janacek concesse una risata a questa risposta e fissò Gwen. «Interessante», le disse. «Quest’uomo passa parecchi anni nel tuo letto e poi, così all’improvviso, diventa un animale».
Il viso di Gwen fu alterato dalla rabbia; Dirk la conosceva ancora abbastanza bene da accorgersene. Però nemmeno Jaan Vikary pareva troppo soddisfatto. «Garse», disse infatti in tono minaccioso.
Janacek fece un cenno di sottomissione. «Le mie scuse Gwen», disse. «Non c’era insulto. Evidentemente t’Larien ha imparato ad apprezzare le sirene e le donne maggiolino indipendentemente da te».
«Andrai fuori sulle lande, t’Larien?», chiese forte Vikary, strappando deliberatamente la conversazione dalle mani dell’altro Kavalar.
«Non lo so», disse Dirk, sorseggiando la sua birra. «Dovrei?».
«Ah, non ti perdonerei mai se tu non lo facessi», disse Gwen sorridendo.
«Be’, allora ci andrò. Che cosa c’è di tanto interessante?».
«L’ecosistema… si forma e muore, tutto nello stesso istante. L’ecologia è stata una scienza per gran tempo dimenticata qui sul Margine. Anche adesso i mondi esterni non vantano più di dodici eco-ingegneri esperti. Quando si decise per il festival, Worlorn venne inseminato con delle forme di vita provenienti da quattordici mondi diversi e non si è quasi pensato all’interrelazione tra di loro. Per la verità ne sono stati coinvolti più di quattordici mondi, se si vogliono contare anche i trapianti… animali portati dalla Terra su Newholme, su Avalon, su Lupania e da lì a Worlorn, o qualcosa del genere.
«Arkin ed io facciamo proprio uno studio su come sono andate le cose. Sono già un paio di anni che ci stiamo lavorando e c’è da lavorare per almeno altri dieci anni. I risultati interesserebbero i contadini di tutti i mondi esterni. Saprebbero quale fauna e quale flora potrebbero introdurre con buona sicurezza sul loro mondo ed in quali condizioni e quali cose risulterebbero dannose all’ecosistema».
«Gli animali che vengono da Kimdiss si sono rivelati particolarmente dannosi», ghignò Janacek. «Proprio come i maneggioni loro padroni».
Gwen gli fece un gran sorriso. «Garse è inquieto perché pare che la banscea nera si stia a poco a poco estinguendo», disse a Dirk. «Per la verità è una vergogna. Su Alto Kavalaan le hanno cacciate scriteriatamente sicché la specie è chiaramente in pericolo. Perciò sono stati portati qui alcuni esemplari, sperando che potessero vivere in libertà e moltiplicarsi. La cosa è successa vent’anni fa. L’idea era quella di ricatturarli per riportarli su Alto Kavalaan prima che arrivasse il freddo. Pare che la cosa non sia andata come si sperava. La banscea è un predatore temibile, ma sul suo mondo non può certo competere con l’uomo e su Worlorn ha trovato sulla sua strada un’infestazione di spettri-d’albero provenienti da Kimdiss».
«Ci sono tanti Kavalar che pensano alla banscea come ad una piaga e ad una minaccia», spiegò Jaan Vikary. «Nel suo habitat naturale uccide anche gli uomini ed i cacciatori di Rossacciaio, della Fortezza di Scianagate e di Braith considerano la banscea l’ultima cosa con cui giocare, ma c’è un’antica leggenda fin dal tempo di Kay Ferro-Fabbrio e del suo teyn Rolando Lupo-Giada. Si dice che stessero cacciando da soli un intero plotone di demoni sulle colline di Lameraan. Kay era caduto e Rolando, in piedi su di lui, stava sempre più indebolendosi, quando da dietro le colline vennero le banscee. Erano tante e volavano tutte assieme, nere e spesse da oscurare i raggi del sole. Piombarono sui demoni ed erano affamate e li mangiarono tutti, fino all’ultimo, lasciando vivi ed integri Kay e Rolando. Più tardi quando i teyn-e-teyn ritrovarono la caverna delle loro donne ed istituirono la prima granlega di Ferrogiada, la banscea divenne il loro animale fratello ed il loro sigillo. Nessun Ferrogiada ha mai ucciso una banscea e la leggenda vuole che quando un uomo di Ferrogiada è in pericolo, debba apparire una banscea per guidarlo e per proteggerlo».
«Una bella storia», disse Dirk.
«È ben più di una storia», disse Janacek. «C’è un legame tra Ferrogiada e la banscea, t’Larien. Può darsi che sia un legame di tipo extrasensoriale, oppure può darsi che quegli animali siano intelligenti, o forse è tutta questione di istinto. Non pretendo di saperlo. Eppure un legame esiste».
«Superstizioni», disse Gwen. «Non devi farti delle idee sbagliate su Garse. Non è colpa sua se non ha mai ricevuto un’educazione adeguata».
Dirk spalmava la pasta sul biscotto e fissava Janacek. «Jaan mi ha detto di essere uno storico. So cosa fa Gwen», disse. «E lei? Lei che cosa fa?».
Gli occhi celesti lo fissarono freddamente. Janacek non disse niente.
«Ho l’impressione», disse Dirk continuando, «che lei non sia un ecologo».
Gwen rise.
«È un’impressione misteriosamente esatta, t’Larien», disse Janacek.
«Allora, che cosa ci fa su Worlorn? Per la verità…», spostò lo sguardo su Vikary… «non capisco che cosa ci faccia uno storico in un posto come questo».
Vikary racchiuse il suo boccale di birra tra le grandi mani e lo bevve pensieroso. «È piuttosto semplice», disse. «Sono un altolegato dell’Unione Ferrogiada, vincolato a Gwen Delvano con giada-e-argento. La mia betheyn è stata mandata su Worlorn per i voti del consiglio degli altolegati, per cui è naturale la mia presenza qui. Ed anche quella del mio teyn. Mi capisci?».
«Mi pare. Per cui tieni compagnia a Gwen?».
Janacek parve subito ostile. «Noi proteggiamo Gwen», disse glaciale. «Per lo più dalla sua stessa follia. Lei non avrebbe dovuto venirci per niente in questo posto, ma ha voluto venirci, così ci dobbiamo essere anche noi. Per quanto riguarda la sua prima domanda, t’Larien, io sono un Ferrogiada, teyn con Jaantony alto-Ferrogiada. Posso fare tutto ciò che la mia granlega mi debba richiedere: cacciare o seminare, duellare, fare l’altaguerra contro i nostri nemici, fare bambini nel grembo delle nostre eyn-kethi. Cioè, proprio ciò che faccio. Ciò che io sono lei lo sa già. Le ho già detto come mi chiamo».
Vikary lo fissò e gli impose il silenzio con un unico gesto di taglio fatto con la mano destra. «Pensaci come dei turisti ritardatari», disse a Dirk. «Studiamo ed andiamo in giro, navighiamo sulle foreste e sulle città morte, ci divertiamo. Vorremmo catturare delle banscee in modo da riportarle su Alto Kavalaan, ma purtroppo non siamo riusciti a trovare nessuna banscea».
Si alzò e nello stesso tempo scolò la sua ultima birra. «I giorni vanno alla fine e noi ce ne stiamo seduti», disse dopo aver posato il boccale sul tavolo. «Se vuoi andare nella landa, allora devi andarci adesso. Ci vuole parecchio tempo ad attraversare le montagne, anche con l’aerauto e non è prudente star fuori quando diventa buio».
«Ah!». Dirk terminò la sua birra e si pulì la bocca con il dorso della mano. Pareva che i tovaglioli non facessero parte dei servizi da tavola dei Kavalar.
«Le banscee non sono mai stati gli unici predatori presenti su Worlorn», disse Vikary. «Ci sono ammazzauomini e bestie feroci provenienti da quattordici mondi diversi nella foresta e non sono la cosa più pericolosa. I peggiori sono gli uomini. Al giorno d’oggi Worlorn è un mondo facile e vuoto e le sue ombre e le sue lande sono piene di cose strane».
«Sarebbe meglio che ci andaste armati», disse Janacek. «O meglio ancora, potremmo venire Jaan ed io con voi, per vigilare sulla vostra sicurezza».
Ma Vikary scosse il capo. «No, Garse! Devono andare da soli, per parlare. È meglio così, mi capisci? Lo voglio io». Poi prese su una bracciata di stoviglie e si avviò verso la cucina. Ma giunto presso la porta si fermò e si voltò guardando al di sopra della sua spalla ed i suoi occhi incontrarono per un istante quelli di Dirk.
E Dirk si ricordò delle sue parole, su in cima al tetto, all’alba. Io esisto, aveva detto Jaan. Ricordati di questo.
«Da quand’è che non vai più su di un aeroscooter?» gli chiese Gwen poco tempo dopo, quando si incontrarono sul tetto. Lei aveva indossato una specie di tuta in un pezzo solo fatta di tessuto camaleontino, un abito con cintura che la copriva dagli stivali al collo, di color rosso cupo e grigiastro. Il nastro che le teneva a posto i capelli era fatto dello stesso materiale.
«L’ultima volta è stato da bambino», disse Dirk. Anche lui era vestito nello stesso modo. Gwen gli aveva dato quel vestito perché così avrebbero potuto mimetizzarsi nella foresta. «Fin da quando ero su Avalon. Ma ci voglio provare. Una volta ero piuttosto bravino».
«Allora va bene», disse Gwen. «Non sarà necessario né andare in fretta, né lontano, ma la cosa non dovrebbe essere importante». La donna aprì il portello del baule della manta grigia ed estrasse due pacchetti argentei e due paia di stivali.
Dirk rimase seduto sull’ala dell’aerauto per cambiare gli stivali e per allacciarli. Gwen aprì gli scooter, due piccole piattaforme di tessuto di metallo sottile, larghe appena da poterci stare su. Quando Gwen le allargò per terra, Dirk vide i punti in cui si incrociavano i fili delle griglie di gravità, messi nella parte di sotto. Egli salì su uno degli scooter, con molta attenzione sistemò i piedi e le suole di metallo e gli stivali si bloccarono al loro posto, come se la piattaforma fosse diventata rigida. Gwen gli passò il dispositivo di controllo che lui si sistemò al polso, in modo che gli finisse nel palmo della mano.
«Arkin ed io usiamo gli scooter per andare in giro nella foresta», gli disse Gwen mentre era chinata ad allacciarsi gli stivali. «Un’aerauto ha una velocità dieci volte maggiore, si capisce, ma non è sempre facile trovare una radura abbastanza ampia per atterrarvi. Gli scooter sono adatti ad un lavoro a distanza ravvicinata, a patto che non si debba trasportare un equipaggiamento troppo pesante, o che non si abbia fretta. Garse dice che sono dei giocattoli, ma…». Si alzò in piedi, salì sulla sua piattaforma e sorrise. «Pronto?».
«Ci puoi scommettere», disse Dirk e soffregò tra le dita la cialda d’argento nel palmo della mano destra. Però un po’ troppo forte. Lo scooter saltò in alto e si allontanò, portando via anche i piedi di Dirk che si ritrovò con la testa sotto ed i piedi in alto. Ci mancò poco che non si rompesse la testa contro il tetto e salì nel cielo ridendo selvaggiamente, penzolando appeso allo scooter.
Gwen gli venne dietro, in piedi sulla sua piattaforma, arrampicandosi nel vento crepuscolare con l’abilità nata dalla gran pratica; pareva un djing dei mondi esterni che cavalcasse un cimelio a forma di tappeto volante d’argento. Quando raggiunse Dirk, lui si era dato da fare con i controlli ed era riuscito a raddrizzarsi, anche se continuava ad oscillare avanti e indietro nel tentativo di bilanciarsi. Al contrario delle aerauto, gli scooter non avevano giroscopi.
«Eeeehi», gridò quando lei fu vicina. Gwen si mosse ridendo dietro di lui e gli diede una cordiale pacca sul sedere. Dirk non aspettava altro per scattare di nuovo lontano e cominciò a scorazzare per il cielo di Larteyn caprioleggiando.
Gwen gli si mise dietro e gridò qualcosa. Dirk sbatté gli occhi e vide che stava quasi per schiantarsi contro un’alta torre di ebano. Manovrò i controlli e scattò in alto, sempre lottando per stare in equilibrio.
Dirk si trovava al di sopra della città quando lei lo acchiappò. «Sta lontana», l’ammoni sorridendo e si sentiva stupido, goffo e giocherellone. «Colpiscimi ancora ed io prenderò il cannone volante e ti sbatterò giù dal cielo a colpi di laser, donna!». Oscillò da un lato, si riprese, poi sovraccompensò la spinta e si portò dall’altra parte gridando.
«Sei ubriaco», gridò Gwen attraverso il lamento del vento. «A colazione hai bevuto troppa birra». Adesso lei era su di lui, con le braccia piegate contro il petto, osservandolo mentre si dava da fare per star dritto e facendo finta di disapprovarlo.
«Questi affari sembrano molto più stabili se si sta a testa sotto», disse Dirk. Era finalmente riuscito a raggiungere una specie di equilibrio, però si vedeva dal modo in cui teneva le braccia, allargate all’infuori, che non si sentiva troppo sicuro di riuscire a mantenerlo.
Gwen si sistemò alla sua altezza e gli si mise di fianco, con le gambe ben ferme e sicure, coi capelli scuri che le volavano dietro simili ad una nera bandiera. «Come va?», gridò lei quando furono uno di fianco all’altra.
«Mi pare di avercela fatta!», annunciò Dirk. Per adesso era ancora in piedi.
«Bene. Guarda sotto!».
Lui guardò giù, al di là della magra protezione della piattaforma che aveva sotto i piedi. Sotto di loro non c’era più Larteyn con le sue torri cupe e le sbiadite strade di pietraluce. Invece c’era un lungo lunghissimo abisso che portava nel lontano Comune, aprendosi in un cielo crepuscolare. Riuscì a vedere un fiume, un intreccio di scure acque in movimento nella breve luce inverdita. Allora la testa gli prese a girare vertiginosamente, strinse le mani e venne nuovamente sbattuto di lato.
Questa volta Gwen si mise sotto di lui, non appena Dirk si fu capovolto. Gwen incrociò le braccia al petto come aveva già fatto prima e gli fece un sogghigno. «Tu sei uno stronzo, t’Larien», gli disse. «Perché mai non voli in posizione diritta?».
Lui grugni, o per lo meno tentò di grugnire, ma il vento si portò via il suo fiato e riusci solo a fare delle smorfie. Poi si capovolse. Le gambe gli cominciavano a dolere per tutto questo lavoro. «Tiè!», gridò e guardò in basso con gesto di sfida, per provare che l’altezza non sarebbe riuscita a giocargli un secondo tiro.
Gwen gli si rimise di fianco, lo guardò ed annui. «Qualsiasi bambino di Avalon ti considererebbe una calamità, e la stessa cosa penserebbero quelli che vanno su gli scooter sugli altri mondi», disse lei. «Ma probabilmente sopravviverai. Allora, vuoi vedere questa landa?».
«Fammi strada, Jenny!».
«Allora gira. Stiamo andando dalla parte sbagliata. Dobbiamo superare le montagne». Lei allungò la mano libera e prese quella di Dirk, poi cominciarono a girare assieme in una grande spirale, ascendente e discendente, con davanti le montagne e Larteyn. La città aveva un aspetto grigio e slavato per la distanza, la sua orgogliosa pietraluce era un sole spento nel nero. Le montagne erano una grande mole buia.
Andavano verso le montagne assieme, guadagnavano altezza con regolarità e ben presto si trovarono al di sopra della Fortezza di Luce, abbastanza in alto da poter superare il picco. Si trovavano più o meno alla massima altezza raggiungibile con un aeroscooter; naturalmente un’aerauto poteva arrivare parecchio più in alto. Ma per Dirk era alto più che abbastanza. Le tute fatte di tessuto camaleontino erano diventate tutte grigie e bianche e lui si rallegrò che quegli abiti fossero così caldi; il vento era gelato e l’incerto giorno di Worlorn non era molto più caldo delle sue notti.
Sempre tenendosi per mano e gridando dei rari commenti, Gwen e Dirk cavalcarono al di sopra di una montagna, aprendosi la strada nel vento. Poi scesero lungo una valle piena di rocce ombrose, poi ancora su e ancora giù e su ancora, superando rocce simili a spade e rocce verdi e nere, superarono alte cascate e precipizi ancora più alti. Ad un certo punto Gwen lo sfidò alla corsa e lui gridò che era d’accordo. Poi scattarono avanti a tutta la velocità possibile per gli scooter e per la loro abilità, finché Gwen fu colta da pietà per lui e ritornò indietro a riprenderlo per la mano.
Ad ovest la montagna precipitava verso il basso tanto improvvisamente come si era sollevata ad est e costituiva un’alta barriera che oscurava la foresta impedendole di vedere ia Ruota che stava ancora cercando di sollevarsi. «Giù», disse Gwen e lui annuì. Iniziarono una lenta discesa verso il guazzabuglio verde scuro che c’era sotto di loro. In quel momento era già più di un’ora che erano in volo; Dirk era mezzo intorpidito a causa del vento pungente di Worlorn e la maggior parte del suo corpo protestava per il maltrattamento.
Atterrarono ben all’interno della foresta, presso un lago che avevano visto mentre scendevano. Gwen fece una specie di picchiata graziosa con una curva degradante e si posò in perfetto equilibrio sulla riva muschiosa dello specchio d’acqua. Dirk aveva paura di atterrare male e di rompersi una gamba così diede il colpetto alla sua griglia di controllo un attimo troppo presto e cadde giù per l’ultimo metro.
Gwen lo aiutò a staccare gli stivali dallo scooter, poi lo aiutò a togliersi di dosso la sabbia umida ed il muschio che si erano attaccati ai suoi vestiti ed ai capelli. Poi gli si sedette vicino e gli sorrise. Anche lui sorrise e la baciò.
O per lo meno ci provò. Non appena lui allungò il braccio e glielo mise attorno alle spalle, lei glielo tirò via e lui si ricordò. Lasciò cadere le mani mentre un’ombra gli passava davanti al volto. «Mi dispiace», disse mangiandosi le parole. Guardò da un’altra parte, verso il lago. L’acqua era come olio verde e la superficie calma del lago era punteggiata da piccole isole di funghi. L’unico movimento era quello degli insetti quasi invisibili che volavano sulle acque basse. La foresta era anche più cupa della città, perché le montagne schermavano ancora il Grasso Satana.
Gwen allungò una mano e toccò Dirk sulla spalla. «No», disse piano. «Mi dispiace. Anche io me ne ero dimenticata. Pareva quasi di essere ad Avalon».
Lui la guardò e si sforzò di sorridere: si sentì perso. «Sì, quasi. Io ti ho perduta, Gwen, malgrado tutto. Ma dovrei dire una cosa del genere?».
«Probabilmente no», disse lei. Gli occhi di lei evitarono di nuovo gli occhi di lui e vagarono lontano, dall’altra parte del lago. La riva lontana era perduta nella foschia. Gwen fissò per parecchio tempo un punto distante, senza muoversi, tranne una volta in cui dovette tremare per il freddo. Dirk la osservò e vide che i suoi vestiti stavano lentamente cambiando colore e diventavano biancastri e verdi, per adeguarsi al colore della riva su cui erano seduti.
Alla fine Dirk allungò la mano per toccarla, incerto. Lei si scrollò la mano di dosso. «No», disse.
Dirk sospirò e prese una manciata di sabbia, facendola scorrere tra le dita ed intanto pensava. «Gwen». Dirk esitò. «Jenny, io non so…».
Lei lo fissò e si incupì. «Quello non è il mio nome, Dirk. Non mi sono mai chiamata in quel modo. Nessun altro mi ha mai chiamata così, tranne te».
Lui sussultò, colpito. «Ma perché…».
«Perché quella non sono io!».
«Nessun’altra», disse lui. «É una cosa che mi è venuta in mente fin da quando si era su Avalon, ti stava bene ed io ti ho chiamata così. Credevo che ti piacesse».
Lei scosse il capo. «Una volta. Tu non capisci. Tu non capisci mai. Cominciò poi a significare per me molto più di quanto significasse all’inizio, Dirk. Sempre di più, di più, di più e le cose che quel nome mi ricordava non erano piacevoli. Avevo cercato di dirtelo, anche allora. Ma è stato un sacco di tempo fa. Ero più giovane allora, una bambina. Non avevo le parole».
«Ed adesso?». Nella sua voce si sentivano degli spigoli rabbiosi. «Hai le parole adesso, Gwen?».
«Sì. Per te sì, Dirk. Più parole di quelle che io possa usare». Sorrise, come per qualche segreta barzelletta e scosse il capo gettando i lunghi capelli nel vento. «Sai, i nomignoli sono simpatici. Possono essere una cosa speciale. Con Jaan mi succede proprio così. Gli altolegati hanno nomi lunghi perché occupano diverse cariche. Lui può diventare Jaan Vikary per un amico Lupano che lo venga a trovare su Avalon, ma è alto-Ferrogiada nei consigli delle Unioni. Poi diventa Riv per i momenti di preghiera e Lupo durante l’altaguerra e poi un altro nome ancora a letto, un nome privato. E c’è qualcosa di giusto in tutto questo, perché tutti questi nomi sono lui. Io me ne rendo conto. Ci sono parti di lui che mi piacciono più di altre, mi piace più Jaan che Lupo o alto-Ferrogiada, ma sono tutti degli autentici lui. I Kavalar hanno un detto, che un uomo è la somma di tutti i suoi nomi. I nomi sono importantissimi su Alto Kavalaan. I nomi sono importanti dappertutto, ma i Kavalar conoscono meglio di altri questa verità. Una cosa che non abbia un nome non ha nessuna sostanza. Se è esistita, allora avrà dovuto avere un nome. E nello stesso modo, se dai un nome ad una cosa, in qualche punto, ad un qualche livello, la cosa nominata esisterà, verrà fuori. Si tratta di un altro detto dei Kavalar. Mi capisci Dirk?».
«No».
Lei rise. «Sei imbranato come al solito. Senti, quando Jaan è venuto su Avalon, lui era Jaantony Ferrogiada Vikary. Questo era il suo nome, il nome completo. La parte più importante era costituita dalle prime due parole… Jaantony è il suo nome vero, il suo nome di nascita e Ferrogiada è la granlega a cui è stato affiliato. Vikary è un nome costruito, che lui ha assunto al tempo della sua pubertà. Sono nomi che tutti i Kavalar assumono; solitamente sono nomi di altolegati che loro ammirano, oppure figure mitiche, o eroi personali. Ci sono un sacco di cognomi terrestri che in questo modo hanno resistito al tempo. Si pensa che se il ragazzo assume il nome di un eroe, automaticamente acquisti delle qualità di quell’uomo. Pare che su Alto Kavalaan la cosa funzioni.
«Il nome che ha scelto Jaan, Vikary, è un tantino inconsueto per molti versi. Parrebbe un nome della Vecchia Terra, di seconda mano, ma non è così. Effettivamente Jaan fu un bambino strano… faceva molti sogni, spesso di malumore, fin troppo introverso. Gli piaceva sentir cantare le eyn-kethi e gli piaceva quando gli raccontavano le storie da piccolo. Per un ragazzo Kavalar non è una bella cosa. Le eyn-kethi sono le donne che allevano i bambini, le eterne madri della granlega ed un bambino normale non dovrebbe stare assieme a loro più di tanto. Quando Jaan diventò più vecchio, passava quasi tutto il tempo da solo; ad esplorare caverne e miniere abbandonate, su in montagna. Se ne stava a distanza di sicurezza dai confratelli di granlega. Non lo posso biasimare. Era continuamente oggetto di punzecchiature, per lo più per niente amichevoli, finché non incontrò Garse. È parecchio più giovane di lui, ma ha fatto di tutto per proteggere Jaan fin da quando lui stesso era un bambino. Poi tutto è cambiato. Quando Jaan si avvicinò all’età in cui sarebbe stato soggetto alle leggi del duello, cominciò ad interessarsi di armi ed imparò ad usarle in fretta. Jaan è veramente notevole; al momento è velocissimo ed è considerato pericolosamente mortale, fin meglio di Garse, che possiede un’abilità essenzialmente istintiva.
«Però non è stato sempre così. Comunque, quando è venuta l’ora per Jaantony di scegliersi il nome, lui pensava a due grandi eroi, ma non se la sentiva di proporre nessuno dei due agli altolegati. Nessuno dei due era Ferrogiada e, peggio ancora, erano entrambi dei mezzi paria, dei cattivi nella storia dei Kavalar, capi carismatici che combatterono per cause perdute e furono soggetti a secoli di insulti. Per cui Jaan mescolò assieme i due nomi e compose i suoni fino ad ottenere un qualcosa che paresse un cognome importato dalla Terra. Gli altolegati lo accettarono senza pensarci. In fondo si trattava del suo nome scelto, la parte meno importante della sua identità. Il nome che viene per ultimo».
Corrugò la fronte. «Ed ecco il punto di tutta la storia. Jaantony Ferrogiada Vikary venne ad Avalon e fu soprattutto Jaantony Ferrogiada. Ma Avalon è un posto dove i cognomi sono assai importanti, per cui egli scoprì di essere quasi sempre Vikary. All’accademia venne registrato con quel nome ed i suoi istruttori lo chiamarono soprattutto Vikary e dovette vivere con quel nome per due anni. Diventò quasi subito Jaan Vikary, oltre ad essere Jaantony Ferrogiada. Credo che la cosa non gli dispiacesse. Da allora ha sempre cercato di restare Jaan Vikary, anche se non fu facile dopo che ritornammo su Alto Kavalaan. Per i Kavalar è sempre rimasto Jaantony».
«Dove ha preso tutti gli altri nomi?», si ritrovò a chiedere Dirk, malgrado le sue intenzioni. La storia che Gwen gli aveva raccontato lo aveva affascinato e pareva fornire nuovi punti di vista a ciò che Jaan Vikary gli aveva detto all’alba, sul tetto.
«Quando ci sposammo, lui mi portò al Ferrogiada e diventò un altolegato, automaticamente un membro del consiglio degli altolegati», disse lei. «Per questa ragione è stato aggiunto un "alto" al suo nome e gli diede il diritto di possedere cose sue indipendentemente dalla granlega e di fare sacrifici religiosi, oltre a guidare i suoi kethi, i confratelli della granlega, nelle azioni di guerra. Per cui assunse anche un nome di guerra, una specie di rango, ed un nome religioso. Una volta questi nomi erano molto importanti. Adesso non più tanto, ma è rimasto l’uso».
«Capisco», disse Dirk, ma non aveva capito tutto. Pareva che i Kavalar attribuissero un’insolitamente grande importanza al matrimonio. «Ma tutto questo che cosa c’entra con noi?».
«Parecchio», disse Gwen, ridiventando serissima. «Quando Jaan arrivò su Avalon e la gente cominciò a chiamarlo Vikary, divenne un altro. Diventò Vikary, un ibrido dei suoi due idoli iconoclasti. Ecco che cosa può fare un nome, Dirk. E questo è stato anche il punto in cui noi siamo caduti. Io ti amavo, sì. Parecchio. Io ti amavo e tu amavi Jenny».
«Ma Jenny eri tu!».
«Sì, no. La tua Jenny, la tua Ginevra. Continuavi a ripeterlo. Tu mi chiamavi con quei nomi almeno altrettanto spesso di quanto mi chiamassi Gwen, ma avevi ragione. Quelli erano i tuoi nomi. Sì, mi piacevano. Che ne sapevo dei nomi o del dare i nomi? Jenny andava bene e Ginevra aveva un’alea di leggenda. Che ne sapevo?
«Ma poi l’ho imparato, anche se non avevo le parole per dirlo. Il problema era che tu amavi Jenny… ma Jenny non ero io. Era una figura basata su di me, magari, ma era soprattutto un fantasma, un desiderio, un sogno che ti eri costruito da solo. Tu l’hai collegata a me e ci amavi tutte e due. Succedeva che a volte io fossi Jenny. Dà un nome ad una cosa ed in qualche modo diventerà reale. Tutta la verità è nei nomi, come tutta la menzogna, perché non c’è niente che distorca le cose come un falso nome, un falso nome che cambi la realtà secondo ciò che sembra.
«Io volevo che tu amassi me, non lei. Io ero Gwen Delvano ed io volevo essere la migliore Gwen Delvano che fosse possibile, ma volevo restare me stessa. Osteggiai Jenny e tu cercavi di tenerla in vita e non hai mai capito. Ecco perché ti ho lasciato». Terminò con voce fredda e sicura, il suo viso era una maschera; poi guardò dall’altra parte.
Così alla fine lui capì. Per sette anni non aveva mai capito, ma ora, per un breve attimo, aveva afferrato. Allora era questo, pensò, per questo aveva mandato la gemma mormorante. Non per chiamarlo, non per questo. Ma per dirgli finalmente, perché l’aveva piantato. E tutto ciò aveva un senso. La sua rabbia era improvvisamente scolorita in stanca malinconia. La sabbia gli scorreva fredda tra le dita e lui la ignorava.
Lei vide la sua espressione e la sua voce si fece più dolce. «Mi dispiace, Dirk», disse lei. «Ma tu mi hai di nuovo chiamata Jenny ed ho dovuto dirti la verità. Non ho mai dimenticato e non sapevo se tu te ne ricordassi. Sono anni che ci penso. Si stava veramente bene, quando andava bene, pensavo. Come ha fatto ad andare male? La cosa mi spaventava, Dirk. Mi spaventava davvero. Pensavo, se Dirk ed io abbiamo potuto sbagliare, allora non c’è niente di sicuro, niente su cui si possa contare. Per due anni rimasi paralizzata dalla paura. Ma poi, con Jaan, ho capito. Ed ora ti ho dato la risposta che ho trovato. Mi dispiace, è una risposta dolorosa per te, ma dovevi conoscerla».
«Avevo sperato…».
«No», lo ammonì lei. «Non cominciare Dirk. Non fare di nuovo così. Non ci provare nemmeno. Per noi è finita. Riconoscilo. Ci ammazzeremmo da soli se ci provassimo».
Dirk gemette, bloccato su tutto il fronte. Per tutta la lunga conversazione, lui non l’aveva nemmeno toccata. Gli parve d’essere disperato. «Suppongo che Jaan non ti chiami Jenny?», chiese finalmente con un sorriso amaro.
Gwen rise. «No, Come Kavalar ho anch’io un nome segreto e lui mi chiama con quello. Però io ho assunto quel nome, per cui non ci sono problemi. È il mio nome».
Dirk si limitò a fare spallucce. «Allora sei felice?».
Gwen si alzò in piedi e si tolse con una mano la sabbia dalle gambe. «Jaan ed io… be’, ci sono un mucchio di cose che non sono tanto facili da spiegare. Tu una volta eri un amico, Dirk, e forse eri il mio migliore amico. Ma sei stato via per tanto tempo. Non essere troppo insistente. Adesso ho bisogno di un amico. Di solito parlo con Arkin, lui mi ascolta e ci prova, ma non riesce ad essermi di molto aiuto. Lui è troppo interessato, accecato dall’odio per i Kavalar e per la loro cultura. Jaan, Garse ed io abbiamo dei problemi, sì, se è questo che vuoi sapere. Ma non è facile parlarne. Dammi tempo. Aspetta, se ti va, e saremo di nuovo amici».
Il lago era calmissimo nell’eterno tramonto grigio e rosso. Dirk guardò le acque, spesse delle incrostazioni di funghi e si ricordò dei canali di Braque. Allora lei aveva bisogno di lui, pensò. Forse non era come lui aveva sperato, ma c’era pur qualcosa che le poteva dare. Si aggrappò a quel pensiero; lui voleva dare, lui aveva delle cose da dare. «Qualsiasi cosa», disse alzandosi. «C’è qualcosa che non capisco, Gwen. Troppe cose. Continuo a pensare che metà della conversazione dell’altro giorno è ormai passata sul mio cervello, eppure non so ancora quale sia la domanda giusta da farsi. Ma ci posso provare. Ho bisogno di te, immagino. Ho bisogno di te, in un modo o nell’altro».
«Aspetterai?».
Starò ad ascoltare, quando verrà il tempo».
«Allora sono contenta che tu sia venuto», disse lei. «Avevo bisogno che venisse qualcuno, qualcuno da fuori. Sei arrivato proprio in tempo. Una bella fortuna».
Che strano, pensò lui, una bella fortuna dopo che lei mi ha fatto chiamare. Ma non disse niente. «E adesso?».
«Adesso, se ti va, possiamo visitare la foresta. Del resto siamo venuti qui proprio per questo».
Raccolsero i loro scooter e si allontanarono dal lago silenzioso, avviandosi verso la spessa foresta in attesa. Non si potevano seguire dei sentieri, ma il sottobosco era rado e si camminava facilmente, come se ci fossero parecchie piste. Dirk era calmo, studiava i boschi che lo circondavano, con le spalle curve e le mani sprofondate nelle tasche. Gwen fu l’unica a parlare, per quelle poche cose che c’erano da dire. Parlava con voce bassa e riverente, come il sussurro di un bambino in una grande chiesa. Ma per lo più si limitava ad indicare le cose perché lui le osservasse.
Gli alberi che circondavano il lago erano tutti vecchi amici che Dirk aveva già visto migliaia di volte. Perché questa era la cosiddetta foresta di casa, i boschi che gli uomini si erano portati dietro da sole a sole e che avevano piantato su tutti i mondi in cui avessero posato piede. Quegli alberi avevano radici su Vecchia Terra, la foresta nostrana, ma non era tutta terrestre. Su tutti i pianeti nuovi l’umanità trovava dei nuovi favoriti, piante ed alberi che subito diventavano parte della linfa di quelli portati da casa all’inizio. E quando le navi stellari, se ne andavano da quel mondo, le piante di quel posto se ne andavano con i due volte estirpati nipoti della Terra e così cresceva la foresta di casa.
Dirk e Gwen passarono lentamente attraverso la foresta, come altri avevano camminato per la stessa foresta su una decina di altri mondi. E loro conoscevano gli alberi. Acero da zucchero, là ed aceri del fuoco, querce e falsequerce, boscargenti e pini tossici, asteni. Gli abitanti dei mondi esterni li avevano portati qui, proprio come i loro antenati li avevano portati sul Margine, per aggiungere una nota che ricordasse la loro casa, a prescindere da dove si trovasse la loro casa.
Ma qui, questi boschi parevano diversi.
Era per via della luce, capì Dirk dopo un po’. La luce piovigginosa che scendeva così scarna dal cielo, la debole luminosità rossa che era il giorno di Worlorn. Era una foresta crepuscolare. Chiusa in un tempo più lento del solito — in un autunno più vasto di qualsiasi altro — la foresta stava morendo.
Allora Dirk guardò più attentamente e vide che gli aceri da zucchero erano completamente nudi; alla base dei tronchi c’erano le foglie cadute. Non sarebbero mai più rinverdite. Anche le querce erano spoglie. Dirk si fermò e tirò una foglia da un acero del fuoco e vide che la sottile venatura rossa era diventata nera. Ed i boscargenti erano tutti rosso ruggine.
Tra poco sarebbe venuta la marcescenza.
In certe parti della foresta c’erano già degli alberi marci. In una radura abbandonata dove l’humus era più spesso e più nero che in altri punti, Dirk notò uno strano odore. Guardò interrogativamente Gwen. Lei si chinò e prese una manciata di roba nera e gliela mise vicino al naso. Dirk si girò dall’altra parte.
«È un letto di muschio», gli disse con tono di scusa. «Lo hanno portato qui da Eshellin. Un anno fa era tutto verde e rosso, con mille fiori vivaci. In breve è diventato tutto nero».
Si spinsero ancora più dentro la foresta, lontano dal lago e dalla montagna. I soli erano al massimo della loro orbita, Grasso Satana era pallido e gonfio come una luna inzuppata di sangue, circondato in maniera irregolare da quattro piccole stelle-soli. Worlorn era ormai troppo lontano ed era andato dalla parte sbagliata; l’effetto della Ruota non si sentiva più.
Avevano camminato per più di un’ora ed il carattere della foresta che li circondava aveva cominciato a mutare. Lentamente, sottilmente, era cambiata, in maniera quasi troppo graduale per poter essere notato da Dirk. Ma Gwen glielo fece notare. Il familiare insieme che costituiva le foreste di casa si stava rarefacendo e si stava formando qualcosa di strano, qualcosa di unico, qualcosa di selvaggio. Smilzi alberi neri con foglie grigie, alti muri di radica a puntini rossi, cadenti velette di un azzurro fosforescente, grandi forme bulbose infestate di scure macchie fioccose; Gwen indicò tutti questi alberi e li chiamò per nome. Un tipo divenne sempre più comune: un vegetale torreggiante e giallastro che allungava rami tortuosi dal tronco cereo ed escrescenze più piccole da quei rami ed altre ancora più piccole da quelle, in modo da costruirsi attorno una specie di labirinto ligneo. «Soffocatori», li chiamò Gwen e subito Dirk capì perché. Uno dei soffocatori era cresciuto qui, in mezzo al bosco, vicino ad un regale boscargento, gettando gialli e :ontorti rami cerosi che si mescolavano coi maestosi rami grigi, infilando le radici al di sotto ed attorno quelle dell’altro albero, costringendo il rivale ad un ruolo subordinato sempre più costrittivo. Ormai il boscargento si vedeva appena: un lungo bastone morto perduto nel soffocatore che si gonfiava.
«I soffocatori sono originari di Tober», disse Gwen. «Ormai stanno impadronendosi della foresta qui, come è già successo là. Avremmo potuto dir loro che poteva capitare, ma non ci avrebbero fatto caso. Comunque le foreste erano già tutte condannate, prima ancora che fossero piantate. Anche i soffocatori moriranno, però saranno gli ultimi ad andarsene».
Proseguirono ed i soffocatori si fecero sempre più abbondanti e dopo un po’ dominavano la foresta. Qui i boschi erano più densi, più cupi; era più difficile passare. Si inciampava in radici semisepolte, mentre i rami tortuosi su di loro si intrecciavano come braccia distese di lottatori giganti. Nel punto dove due o tre o più soffocatori crescevano vicino, parevano mescolarsi in un unico nodo contorto e Gwen e Dirk erano costretti a cambiare strada. Le altre piante quasi non esistevano. C’erano solo letti di funghi bianchi e viola che crescevano ai piedi degli alberi gialli, assieme a cordoni di telaschiuma parassita.
Ma c’erano degli animali.
Dirk li vide muovere tra i bui intrecci dei soffocatori e ne udì gli alti gridi trillanti. Alla fine ne vide uno. Era seduto proprio sulle loro teste su di un gonfio ramo giallo e li guardava; grande come un pugno, immobile ed in qualche modo… trasparente. Toccò una spalla di Gwen e fece cenno verso l’alto.
Ma lei sorrise e poi rise leggermente. Quindi allungò un braccio verso il punto in cui era appollaiata la piccola creatura e la frantumò tra le mani. Quando Gwen aprì il pugno, c’era solo più polvere e tessuto morto.
«Ci deve essere un nido di spettri-d’albero qui attorno», spiegò lei. «Cambiano la pelle quattro o cinque volte prima della loro maturità e lasciano gli involucri di guardia per spaventare gli altri predatori». Allungò un dito. «Eccone uno vivo, se ti interessa».
Dirk guardò e riuscì appena a scorgere una cosina gialla che scappava con denti acuminati ed enormi occhi marroni. «Volano pure», gli disse Gwen. «Hanno una membrana che va dalle braccia alle gambe e permette loro di volare da un albero all’altro. Sono predatori, sai. Cacciano a branchi e possono abbattere creature cento volte più grandi di loro. Ma di solito non attaccano gli uomini, a meno che non si inciampi in un loro nido».
Lo spettro d’albero se ne era andato, invisibile in mezzo a quel labirinto di rami di soffocatori, ma Dirk credette di vederne un altro, per un breve istante, con la coda dell’occhio. Studiò i boschi che lo circondavano. Gli involucri di pelle trasparente erano dappertutto e lo osservavano ferocemente nella luce crepuscolare dalle loro grucce come piccoli spettri tenebrosi. «Sono queste le cose che sconvolgono così tanto gli Janacek, non è vero?», chiese lui.
Gwen annuì. «Gli spettri sono una peste su Kimdiss, ma qui si trovano nel loro elemento naturale. Si adattano perfettamente ai soffocatori e riescono a muoversi tra i labirinti di rami più velocemente di qualsiasi altra cosa che io abbia visto. Li abbiamo studiati in maniera piuttosto completa. Stanno ripulendo le foreste. Poco per volta uccideranno tutto ciò che è vìvo e moriranno anche loro di fame. Però non ne avranno il tempo. Lo scudo si guasterà ben prima e verrà il freddo». Mosse le spalle in un gesto di indifferenza e posò il braccio su di un ramo leggermente in pendenza. Le loro tute erano ormai diventate dello stesso color giallo sporco dei boschi che li circondavano, ma la manica di Gwen si spostò su e giù mentre lei accarezzava il ramo e Dirk vide il cupo luccichio di giada-e-argento riflettersi sui soffocatori.
«È rimasta molta vita animale?».
«Abbastanza», disse lei. La pallida luce rossa faceva apparire strano l’argento. «Non quanta ce n’era prima, si capisce. La maggior parte degli animali selvatici ha abbandonato la foresta. Questi alberi stanno morendo e gli animali lo sanno. Ma gli alberi dei mondi esterni sono più robusti, più o meno. Dove hanno piantato le foreste del Margine, si trova ancora vita, ancora forte, ancora attiva. I soffocatori, gli alberi fantasma, i vedovi azzurri… saranno fiorenti fino alla fine. Ognuno di loro ha i suoi abitanti, vecchi e nuovi, finché verrà il freddo».
Gwen mosse un braccio pigramente, da una parte e dall’altra ed il braccialetto baluginò, pareva gridasse. Vincoli, ricordi e negazioni, tutto assieme, un giuramento d’amore di giada-e-argento. E lui aveva solo una piccola gemma mormorante fatta a forma di lacrima e piena di ricordi che svanivano.
Dirk alzò gli occhi, guardando al di là di zigzaganti rami di gialli soffocatori, dove troneggiava l’Occhiodaverno in una tenebrosa fetta di cielo ed appariva più stanco che infernale, più spiaciuto che satanico. Ed egli rabbrividì. «Torniamo indietro», disse a Gwen. «Questo posto mi deprime».
Non disse niente altro. Trovarono uno spiazzo lontano dai soffocatori che li premevano da tutte le parti, un posto in cui potevano stendere l’argenteo tessuto metallico dei loro scooter. Poi salirono insieme per il lungo volo che li avrebbe riportati a Larteyn.