Rimasero immobili nel corridoio buio come se fossero paralizzati. Gwen era solo un’ombra leggermente azzurra ed aveva gli occhi come due pozzi bui. La bocca aveva dei guizzi ad un angolo e ricordava orribilmente a Dirk il tic di Bretan. «Ci hanno trovati», disse lei.
«Sì», disse Dirk. Stavano tutti e due parlando piano, impazziti di terrore, come se Bretan Braith li potesse sentire, come faceva prima la Voce di Sfida, se loro avessero parlato forte. Dirk si rendeva conto che doveva essere circondato da altoparlanti, e pure da orecchie, ed occhi forse… invisibili perché nascosti dai tappeti attaccati alle pareti.
«Ma come?», disse Gwen. «Non potevano. È una cosa impossibile».
«Ci sono riusciti. Vuol dire che è possibile. Ma adesso che facciamo? È meglio che vada da loro? Che cosa c’è giù al cinquantaduesimo sottolivello?».
Gwen si accigliò. «Non lo so. Sfida non era la mia città. Io so solo che i livelli che si trovano al di sotto del terreno non sono residenziali».
«Macchinari», suggerì Dirk. «Energia. Mezzi vitali».
«Computers», aggiunse Gwen in un debole sospiro senza tono.
Dirk posò le valige che stava portando. Pareva una cosa stupida rimanere aggrappato al vestiario ed ai loro beni a quel punto. «Hanno ammazzato la Voce», disse.
«Può darsi. Ammesso che sia una cosa che si possa ammazzare. Pensavo che si trattasse di una vasta rete di calcolatori, sparsi per tutta la torre. Non lo so. Forse si trattava di una sola installazione molto grande».
«Ad ogni modo sono arrivati al cervello centrale, il centro neurovegetativo, o quel che è. Non ci saranno più consigli amichevoli provenienti dalle pareti. E può darsi che Bretan riesca anche a vederci».
«No», disse Gwen.
«Perché no? La Voce ci vedeva».
«Sì, forse, anche se non credo che i dispositivi sensori della Voce comprendessero anche dei sensori visivi. Cioè, non mi pare che ne dovesse avere bisogno. Possedeva dei sensi diversi, cose che gli esseri umani non hanno. Ma non è questo il punto. La Voce era un supercomputer, fatto per manovrare miliardi di bit contemporaneamente. Bretan non potrebbe fare altrettanto. Nessun essere umano lo potrebbe. Tra l’altro gli input non sono stati fatti per avere un senso per lui, o per te e per me. Hanno senso solo per la Voce. Anche se Bretan si trovasse in un punto in cui potesse aver accesso a tutti i dati che otteneva la voce, per lui non sarebbero altro che delle cose senza senso, oppure il flusso di arrivo sarebbe tanto veloce da risultare in pratica intraducibile. Può darsi che un cibernetista pratico riuscirebbe a ricavarci qualcosa, benché ne dubito molto. Comunque non Bretan. No, a meno che lui conosca un qualche segreto che noi non sappiamo».
«Ha ben saputo come fare a trovarci», disse Dirk. «E sapeva anche dove si trovava il cervello di Sfida e sapeva come mandarlo in cortocircuito».
«Non so come abbia fatto a trovarci», rispose Gwen, «ma non ci voleva molto per arrivare alla Voce. Il sottolivello più basso, Dirk! Si è solo buttato ad indovinare, non poteva fare diversamente. I Kavalari costruiscono le loro granleghe in profondità nella roccia ed il livello più profondo è sempre il più sicuro, questo è certo. È lì che mettono le donne, loro. Ed è lì che sistemano tutti gli altri tesori della granlega».
Dirk rimase a pensare. «Aspetta un po’. Dici che lui non può sapere esattamente dove siamo? Altrimenti, perché vorrebbe farci andare di sotto, perché minacciare di darci la caccia?».
Gwen annuì.
«Comunque, se si trova in un centro di elaborazione», continuò Dirk, «dobbiamo stare attenti. Potrebbe essere anche in grado di trovarci».
«Alcuni calcolatori potrebbero ancora funzionare», disse Gwen, guardando il pallido globo azzurro distante pochi metri da loro. «La città è ancora viva, più o meno».
«Potrebbe chiedere alla Voce dove siamo? Ammesso che la rimetta in funzione?».
«Forse, ma glielo direbbe? Io penso di no. Noi siamo residenti legali, disarmati e lui è un intruso pericoloso che ha violato tutte le norme di di-Emerel».
«Lui? Vuoi dire loro. Chell è con lui. E forse ci sono anche degli altri».
«Be’, allora diciamo una banda di intrusi».
«Ma non potranno essere più di… quanti? Venti? Meno? Come possono sopraffare una città come questa?».
«Di-Emerel è un mondo singolarmente privo di violenza, Dirk. E questo è un mondo costruito per un festival. Dubito che Sfida sia fornita di sistemi di difesa. I controllori…».
Dirk si guardò attorno immediatamente. «Sì, i controllori. La Voce ne ha parlato. Ha detto che ne mandava uno per noi». Quasi si aspettava di vedere qualcosa di grande e minaccioso che spuntava da un incrocio di corridoi, come capita a teatro. Ma non c’era niente. Ombre, globi di cobalto ed azzurro silenzio.
«Non possiamo restarcene qui», disse Gwen. Aveva smesso di mormorare. Ed anche lui. Entrambi avevano capito che se Bretan Braith ed i suoi amici potevano sentire le loro parole, allora avrebbero potuto localizzarli in una dozzina di altre maniere. Se era così, il loro era un caso senza speranza. Parlar piano era un gesto inutile. «La macchina è solo a due livelli di distanza», disse lei.
«Anche i Braith possono essere a due livelli di distanza», rispose Dirk. «E anche se non ci sono, dobbiamo evitare di andare all’aerauto. Devono sapere che ne avevamo una e forse aspettano proprio che noi corriamo a prenderla. Forse è proprio per questo che Breton ha fatto il suo discorsetto, per farci volar via, dove risulteremmo una preda più facile. Probabilmente i suoi confratelli di granlega sono là fuori che aspettano di abbatterci con i laser». Fece una pausa, pensando. «Ma non possiamo restarcene qui, comunque».
«E nemmeno star vicini al nostro appartamento», disse lei. «La Voce sapeva dove eravamo e Bretan Braith potrebbe essere in grado di scoprirlo. Ma dobbiamo rimanere nella città; hai ragione».
«Nascondiamoci, allora», disse Dirk. «Dove?».
Gwen si strinse nelle spalle. «Qui, là, in qualsiasi posto. È una città grande, come ha anche detto Bretan Braith».
Gwen si chinò rapidamente e aprì la sua valigia, scartando tutti gli abiti ingombranti, ma conservando le sue provviste d’emergenza ed il pacco di sensori. Dirk indossò il pesante mantello che gli aveva dato Ruark ed abbandonò tutto il resto. Si avviarono verso la discesa esterna; Gwen era ansiosa di allontanarsi il più possibile dal loro appartamento e nessuno dei due voleva arrischiarsi ad usare gli ascensori.
Nel largo viale le luci erano ancora completamente accese ed i marciapiedi ronzavano leggermente; la strada a cavatappi doveva avere un rifornimento di energia indipendente. «Su o giù?», chiese Dirk.
Gwen non parve udirlo; stava ascoltando qualcos’altro. «Zitto», disse lei. La bocca ebbe un guizzo.
Al di sopra del ronzio costante dei marciapiedi, anche Dirk riuscì a sentire un altro rumore, debole, ma inconfondibile.
Un ululato.
«Veniva dal corridoio dietro di loro, Dirk ne era assolutamente sicuro. Usciva come un gelido fiato dalla calda quiete azzurra e pareva rimaner sospeso nell’aria più a lungo di quel che avrebbe dovuto. Deboli grida in lontananza, seguite da vicino dal rumore di tacchi.
Ci fu un breve silenzio. Gwen e Dirk si guardarono e rimasero immobili ad ascoltare. L’ululato si sentì di nuovo, più distinto, ed echeggiò un po’, questa volta. Fu un urlo di terrore furioso, lungo e acuto.
«I cani dei Braith», disse Gwen, con una voce che era molto più ferma di quanto ci si sarebbe aspettati.
Dirk ricordò la bestia che aveva incontrato quando camminava per le strade di Larteyn… Il cane dalle dimensioni di un cavallo che aveva ringhiato quando lui si era avvicinato, la creatura con la faccia da topo, senza peli e gli occhietti rossi. Guardò lungo il corridoio dietro di sé con una certa apprensione, ma non si muoveva niente nelle ombre di cobalto.
I rumori si facevano più forti, più vicini.
«Giù», disse Gwen. «Ed in fretta».
Dirk non aveva nessun bisogno di essere persuaso. Si affrettarono verso la parte mediana della strada, dall’altra parte del viale silenzioso e salirono sul primo marciapiede discendente che era il più lento. Poi cominciarono a spostarsi, saltando da un nastro all’altro, fino a che si trovarono sul marciapiede più veloce. Gwen tirò fuori le sue provviste d’emergenza ed apri il pacchetto, rovistando, mentre Dirk stava in piedi accanto a lei, con una mano sulla spalla e controllava il numero dei livelli che passavano velocemente, nere sentinelle poste di fronte agli abissi crepuscolari che conducevano all’interno di Sfida. I numeri scintillavano ad intervalli regolari, facendosi sempre più piccoli.
Avevano appena superato il quattrocentonovantesimo, quando Gwen si alzò, con in mano una sbarra di metallo blu-nero lunga un palmo. «Togliti i vestiti», disse lei.
«Che?».
«Togliti i vestiti», ripeté. Dirk si limitò a guardarla, lei scosse il capo impaziente e batté con la punta della barretta il torace di lui. «Annulla-scia», gli disse. «Arkin ed io lo usiamo nella foresta. Spruzzati dappertutto prima di andare avanti. Il liquido annulla l’odore del corpo per circa quattro ore ed è sperabile che faccia perdere le tracce ai cani».
Dirk annuì e cominciò a spogliarsi. Quando fu nudo, Gwen gli disse di stare con le gambe aperte e le braccia sollevate sulla testa. Lei toccò un’estremità della barra metallica e dall’altra parte uscì una sottile nebbia grigia, che faceva leggermente prudere la pelle. Dirk si sentiva infreddolito e sciocco ed anche molto vulnerabile, mentre lei lo passava davanti e dietro e dalla testa ai piedi. Poi Gwen si inginocchiò e gli spruzzò anche i vestiti, dentro e fuori, tutto tranne il pesante mantello che gli aveva dato Arkin che lei mise attentamente da parte. Quando ebbe finito, Dirk si vesti di nuovo — gli abiti erano secchi e polverosi per via della polvere cinerea — intanto Gwen si spogliò a sua volta e si fece spruzzare.
«Perché hai messo via il mantello?», disse lui mentre lei si rimetteva i vestiti. Lei aveva spruzzato tutto quando: il pacco di sensori, le provviste d’emergenza, il suo braccialetto giada-e-argento… tutto tranne il mantello bruno di Arkin. Dirk lo toccò con la punta dello stivale.
Gwen lo raccolse e lo gettò dall’altra parte del guardrail, sul nastro veloce che si muoveva verso l’alto. Lo videro retrocedere e poi scomparire. «Tu non ne hai bisogno», disse Gwen quando il mantello fu scomparso. «Può darsi che riesca a condurre la muta dalla parte sbagliata. Si convinceranno di averci seguiti per tutta la lunghezza della strada».
Dirk pareva dubbioso. «Può darsi», disse, gettando uno sguardo alla parete più interna. Apparve il livello 472 e scomparve. «Penso che dovremmo filarcela», disse lui improvvisamente. «Andarcene dalla strada».
Gwen lo guardò, interrogativamente.
«L’hai detto anche tu», disse lui. «Quelli che ci stanno dietro arriveranno per lo meno fino alla fine della strada. Ma se hanno già cominciato a scendere, il mantello non potrà trarli in inganno a lungo. Lo vedranno passare accanto a loro e si metteranno a ridere».
Gwen sorrise. «Concesso. Ma valeva la pena di tentare».
«Immagina che adesso ci stiano seguendo…».
«Dobbiamo aver preso un buon vantaggio a questo punto», lo interruppe lei. «Non potrebbero condurre una muta di cani su dei marciapiedi, il che significa che sono certamente a piedi»; «E allora? La strada non è affatto sicura, Gwen. Senti, lassù non ci può essere Bretan, che infatti si trova nei sottolivelli. E probabilmente non c’è nemmeno Chell, ti pare?».
«No. Un Kavalar caccia sempre con il suo teyn. Non si separano mai».
«Lo pensavo anch’io. Così ne abbiamo un paio che fanno i giochini con l’elettricità sotto di noi ed un altro paio alle nostre spalle. Quanti altri saranno che ci corrono dietro? Sei in grado di rispondermi?».
«No».
«Direi che sono un bel po’, mi pare; e anche se non è così è meglio che ci prepariamo al peggio e ce ne andiamo di qui. Se ci fossero degli altri Braith sparpagliati per la città e se questi fossero in contatto con i cacciatori dietro di noi, quelli dietro potrebbero dire agli altri di sbarrare la strada».
Gwen strizzò gli occhi. «Forse no. Spesso i gruppi di cacciatori lavorano assieme. Ogni coppia vuole uccidere per ottenere i propri trofei. Maledizione, ma vorrei proprio avere un’arma!».
Dirk ignorò il suo commento finale. «Non possiamo correre dei rischi», disse lui. Non aveva finito di parlare che le luci che brillavano sulle loro teste cominciarono a vacillare, per poi sbiadire improvvisamente in un pallido grigiore incerto. Improvvisamente il marciapiede sotto di loro diede uno strappo e prese a rallentare. Gwen cadde per terra. Dirk la tirò su e la tenne per un braccio. La prima a fermarsi fu la cinghia più lenta, poi quella accanto alla loro ed alla fine il discensore su cui si trovavano.
Gwen tremò e lo guardò e Dirk la tenne ancora più stretta, cercando di trarre la sicurezza di cui aveva disperatamente bisogno dal calore e dalla vicinanza del suo corpo.
Sotto di loro — Dirk avrebbe giurato che il rumore veniva da sotto di loro, in direzione del marciapiede che li aveva portati fino lì risuonò brevemente uno strillo da fare accapponare la pelle e nemmeno era troppo lontano.
Gwen si liberò dalla sua stretta. Non parlarono. Si spostarono da un nastro all’altro, attraversarono le corsie vuote e buie e si avviarono verso il passaggio che conduceva lontano dalla pericolosa strada, verso i corridoi. Dirk guardò i numeri mentre passavano dalla debole luce grigia a quella azzurra: livello 468. Quando ebbero sotto i piedi i tappeti che attutivano i rumori dei passi, cominciarono a correre, si mossero rapidamente lungo il primo corridoio, poi voltarono e rivoltarono, a volte a destra a volte a sinistra, scegliendo a caso la direzione da prendere. Corsero finché entrambi furono senza fiato. A questo punto si fermarono e caddero sui tappeti sotto la luce di un crepuscolare globo azzurrino.
«Che cosa è stato?», disse alla fine Dirk, quando riuscì a trovare un po’ di fiato.
Gwen stava ancora sbuffando e soffiando per la fatica della corsa. Avevano fatto un percorso lunghissimo. Lei cercava di riprendere fiato. «Tu che cosa pensi che fosse?», disse alla fine lei, con un tono acuto nella voce. «Era un falsuomo che strillava».
Dirk aprì la bocca e sentì che sapeva di sale. Si toccò le guance e se le sentì umide e si chiese da quanto tempo stesse piangendo. «Ci sono altri Braith, allora», disse lui.
«Sotto di noi», disse lei. «Ed hanno trovato una vittima. Maledetti, maledetti, maledetti! Siamo stati noi a portarli qui, è colpa nostra. Come abbiamo fatto a essere così stupidi? La paura di Jaan era che loro cominciassero a cacciare nelle città».
«Hanno cominciato ieri», disse Dirk, «con i bambini di gelatina Nerovini. Era solo questione di tempo, poi sarebbero venuti qui comunque. È inutile prendersi tutta…».
Lei volse il viso verso di lui, la faccia era tesa nella rabbia, le guance striate di lacrime. «Che cosa?», lo fulminò lei. «Tu pensi che noi non siamo responsabili? E chi altro, allora? Bretan Braith ha seguito te, Dirk. Perché siamo venuti qui? Avremmo potuto andare a Dodicesimo Sogno, a Musquel, e Esvoch. Città vuote. Non avremmo danneggiato nessuno. Invece abbiamo danneggiato questi Emereli… Quanti residenti ha detto la Voce che c’erano?».
«Non mi ricordo. Quattrocento, più o meno. Una cosa del genere». Cercò di metterle una mano sulle spalle e di trarla a sé, ma lei si divincolò e lo fissò.
«È colpa nostra», disse. «Dobbiamo fare qualcosa».
«L’unica cosa che possiamo fare è cercare di rimanere vivi», le disse lui. «Ci stanno inseguendo, ti ricordi? Non abbiamo tempo per pensare agli altri».
Gwen lo fissava e sul suo viso c’era… che cosa?… forse disprezzo, pensò Dirk. Quello sguardo lo scosse.
«Non credo a ciò che dici», disse lei. «Non sei capace di pensare a quelli che ti stanno vicino? Accidenti, Dirk, noi per lo meno ci siamo portati l’annulla-scia, per lo meno quello. Gli Emereli non hanno proprio niente. Nessuna arma, nessun sistema di difesa. Sono falsuomini, giocattoli, ecco tutto. Dobbiamo fare qualcosa!».
«Che cosa? Fare un bel suicidio? È questo che vuoi? Tu non volevi che questa mattina io affrontassi Bretan in duello, ma adesso tu…».
«Sì! Adesso dobbiamo. Non avresti parlato così quando eravamo su Avalon», disse lei e la sua voce si alzò fin quasi a diventare un grido. «Allora tu eri diverso. Jaan non avrebbe…».
Si fermò, improvvisamente conscia di ciò che aveva detto e si voltò dall’altra parte. Poi cominciò a singhiozzare. Dirk era assolutamente immobile.
«Allora è così», disse dopo un po’ lui. La sua voce era calma. «Jaan non penserebbe a se stesso, giusto? Jaan farebbe la parte dell’eroe».
Gwen lo guardò di nuovo. «Lui sì e tu lo sai».
Dirk annuì. «Lo farebbe. Forse lo avrei fatto anch’io, una volta. Forse hai ragione. Può darsi che io sia cambiato. Non so più niente». Si sentiva male, stanco e fallito. Ma soprattutto era la vergogna. I suoi pensieri andavano avanti e indietro e giravano e giravano. Avevano ragione tutti e due, pensava lui. Erano loro che avevano condotto i Braith a Sfida, verso centinaia di vittime innocenti. Erano loro i colpevoli; Gwen aveva ragione. Eppure, anche lui aveva ragione, e adesso non avrebbero potuto farci niente, niente. Se questo pensiero era egoistico non era per altro meno vero.
Gwen stava piangendo forte. Cercò di allungare una mano verso di lei e questa volta lei lo lasciò fare in modo che la confortasse con le sue mani. Eppure, mentre lui le pettinava i lunghi capelli neri e combatteva per ricacciare in gola le sue stesse lacrime, sapeva che non andava bene, che niente era cambiato. I Braith cacciavano ed ammazzavano… ma lui non li poteva fermare. Forse non sarebbe nemmeno riuscito a salvare se stesso. In fondo non era affatto l’antico Dirk, il Dirk di Avalon, no. E la donna che stringeva nelle braccia non era Jenny. Ma tutti e due erano delle prede.
Poi gli venne un’idea improvvisa. «Sì», disse ad alta voce.
Gwen lo guardò e Dirk si sollevò in piedi barcollando e poi tirò su anche lei.
«Dirk?», disse lei.
«Possiamo fare qualcosa», disse lui e la condusse verso la porta dell’appartamento più vicino. Si aprì facilmente. Dirk andò allo schermo che era sistemato vicino al letto. Le luci della camera erano tutte spente; l’unica illuminazione era costituita dal debole rettangolo azzurro di luce lasciato sul pavimento dalla porta aperta. Gwen era rimasta in piedi al centro della porta, incerta, e proiettava la sua ombra scura e lugubre.
Dirk accese lo schermo, sperando (non poteva fare molto di più), e lo schermo si accese sotto il suo tocco. Si sentì più tranquillo. Guardò Gwen.
«Che cosa hai intenzione di fare?», gli chiese lei.
«Dimmi il numero di casa tua», disse lui.
Lei comprese. Annuì lentamente e gli disse il numero. Dirk premette i pulsanti, uno dopo l’altro ed attese. Il segnale pulsante di chiamata illuminò la stanza. Quando si dissolse, gli schemi luminosi si rimisero assieme per formare l’immagine della mascella volitiva di Jaan Vikary.
Nessuno parlò. Gwen si fece avanti e si mise accanto a Dirk, con una mano sulla sua spalla. Vikary li osservò in silenzio e Dirk temette per un lungo momento che l’altro avrebbe cancellato lo schermo e li avrebbe abbandonati al loro fato.
Ma non lo fece. Disse a Dirk: «Tu eri un confratello di granlega. Avevo fiducia in te». Poi i suoi occhi si spostarono verso Gwen. «E tu, io ti amavo».
«Jaan», disse lei, in fretta e piano, con la voce che era appena sussurrata, tanto che Dirk dubitò che Vikary la potesse sentire. Poi lei non resistette oltre, si voltò e si allontanò velocemente dalla stanza.
Eppure Vikary non chiuse ancora il contatto. «Vi trovate a Sfida, vedo. Perché mi hai chiamato, t’Larien? Tu sai che cosa dobbiamo fare, il mio teyn ed io?».
«Lo so», disse Dirk. «Correrò il rischio. Ma dovevo parlarti. I Braith ci hanno seguiti. In qualche maniera, non so come; noi non avremmo mai pensato di essere rintracciati. Ma loro sono qui. Bretan Braith Lantry ha messo fuori combattimento il calcolatore centrale della città e pare possedere il controllo della maggior parte delle altre fonti energetiche. Gli altri… hanno delle mute di cani quaggiù. Cacciano nei corridoi».
«Capisco», disse Vikary. Un’emozione — illeggibile, strana — baluginò sul suo viso. «I residenti?».
Dirk annuì. «Puoi venire?».
Vikary sorrise appena appena, ed era un sorriso privo di gioia. «Allora chiedi il mio aiuto, Dirk t’Larien?». Scosse il capo. «No, è inutile prenderti in giro, non sei tu che me lo chiedi, non lo chiedi per te. Capisco benissimo. Per gli altri, per gli Emereli, sì. Garse ed io verremo. Porteremo i nostri stemmi, così potremo fare korariel di Ferrogiada tutti quelli che troveremo prima dei Braith. Comunque ci vorrà del tempo, forse troppo tempo. Moriranno in molti. Ieri alla Città nella Palude Senzastelle, una creatura chiamata Madre ha fatto una morte violenta. I bambini di gelatina… Tu hai mai visto i bambini di gelatina Nerovini, t’Larien?».
«Ne ho sentito parlare».
«Si sono riversati fuori dalla loro Madre per trovarne un’altra, ma non ne hanno trovate. Erano vissuti per decenni nel ventre del loro ospite gigantesco. Altri del loro mondo avevano catturato la creatura e l’avevano portata su Worlorn dal Mondo dell’Oceano Nerovino ed infine l’avevano abbandonata. Non c’è molto amore tra i bambini di gelatina e gli altri Nerovini che non sono soggetti al culto. Così si buttarono fuori, un centinaio, più o meno, e presero a scorrazzare per la città, che improvvisamente si riempì di gente, così da un momento all’altro, e non sapevano nemmeno dove fossero e perché. Parecchi erano vecchi, molto vecchi. Cominciarono a risvegliare la loro città morta, presi dal panico, per cui Roseph alto-Braith li ha trovati. Ho fatto ciò che ho potuto per proteggerne qualcuno. Ma i Braith ne hanno scovati molti altri, perché io avevo bisogno di tempo. Sarà la stessa cosa anche a Sfida. Quelli che scapperanno nei corridoi e cercheranno di scappare, saranno sicuramente cacciati ed uccisi, molto tempo prima che il mio teyn ed io possiamo farci qualcosa. Mi capisci?».
Dirk annui.
«Non è sufficiente telefonarmi», disse Vikary. «Devi fare qualcosa anche tu. Bretan Braith Lantry ti vuole trovare a tutti i costi. Vuole te e nessun altro. Potrebbe anche permetterti di duellare con lui. Gli altri invece vogliono solo darti la caccia, perché secondo loro sei un falsuomo, ma ti considerano anche loro la preda più ambita. Esci allo scoperto, t’Larien, e loro ti inseguiranno. Per gli Emereli che ti stanno vicini, nascosti, è importante riuscire a guadagnare un po’ di tempo».
«Capisco», disse Dirk. «Tu vuoi Gwen e me…».
Vikary sobbalzò, visibilmente. «No, non Gwen».
«Me, allora. Vuoi che attiri la loro attenzione su di me? Senza nemmeno un’arma a disposizione?».
«Tu hai un’arma», disse Vikary. «L’hai rubata tu stesso, con grave insulto per Ferrogiada. Devi decidere tu se usarla o no. Non voglio influenzare per niente la tua decisione. Ho già cercato di farlo una volta. Adesso mi limito a dirtelo. Un’altra cosa, t’Larien. Che tu lo faccia o no, non cambierà niente tra te e me. Tu sai che cosa dobbiamo fare».
«L’hai detto», rispose Dirk.
«Te lo dico di nuovo. Voglio che te lo ricordi bene». Vikary aggrottò la fronte. «E adesso devo andare. Il volo è lungo fino a Sfida, lungo e freddo».
Lo schermo diventò buio prima che Dirk potesse dare una risposta.
Gwen aspettava appena fuori dalla porta, appoggiata contro la parete ricoperta di tappeti, con il viso tra le mani. Quando uscì Dirk, lei si tirò su. «Vengono?», chiese lei.
«Sì».
«Mi dispiace di… essermene andata. Non ce la facevo a guardarlo in faccia».
«Fa lo stesso».
«Non fa lo stesso».
«Non è vero», disse lui deciso. Aveva mal di stomaco. Si immaginava grida lontane. «È una cosa senza importanza. Hai già spiegato tutto prima… i tuoi sentimenti».
«Davvero?». Lei rise. «Se tu conosci i miei sentimenti, allora ne sai più di me, Dirk».
«Gwen, io non… No, senti, non importa. Hai ragione. Dobbiamo… Jaan ha detto che noi abbiamo un’arma».
Lei aggrottò la fronte. «Ha detto così? Forse pensa che io abbia portato il fucile a dardi. Se no che cosa?».
«No, non penso che volesse dire quello. Ha solo detto che avevamo un’arma, che l’abbiamo rubata noi ed abbiamo insultato Ferrogiada».
Gwen chiuse gli occhi. «Eh?», disse. «Ma si capisce». Aprì di nuovo gli occhi. «La macchina. È armata con cannoni a laser. Forse intendeva questo. Ma non sono caricati. Pensavo che non fossero nemmeno collegati. Si tratta della macchina che ho sempre usato io, e Garse…».
«Capisco. Ma credi che i laser possano essere sistemati? Che possano essere messi in funzione?».
«Può darsi. Non lo so. Ma a cos’altro si poteva riferire Jaan?».
«Naturalmente i Braith potrebbero aver trovato la macchina», disse Dirk. La sua voce era fredda e sicura. «Dobbiamo correre il rischio. Nasconderci… non possiamo nasconderci, loro ci troveranno. Bretan potrebbe già essere sulle nostre tracce, in questo momento, se la mia telefonata è stata registrata da qualche parte là sotto. No, dobbiamo andare verso l’aerauto. È una cosa che loro non si aspettano, se sanno che ci siamo avviati per la strada verso il basso».
«La macchina si trova cinquantadue livelli sopra di noi», sottolineò Gwen. «Come facciamo ad arrivarci? Se Bretan controlla le fonti energetiche, come noi pensiamo, ha sicuramente tolto energia agli ascensori. Ha fatto fermare i marciapiedi».
«Lui sapeva che noi stavamo usando i marciapiedi», disse Dirk. «O per lo meno, che noi eravamo sulla strada. Quelli che ci inseguivano glielo hanno detto. Sono in contatto tra di loro, Gwen. I Braith. Deve essere così, i nastri si sono fermati proprio al momento giusto. Ma questo ci può tornare utile».
«Utile? Come?».
«Per, attirare l’attenzione su di noi», disse lui. «Per fare in modo che loro ci inseguano in modo da salvare quei maledetti Emereli. È quello che Jaan mi ha chiesto di fare. Non era quello che volevi fare anche tu?». La sua voce era tagliente.
Gwen impallidì leggermente. «Be’», disse. «Sì».
«Allora hai vinto tu. Adesso lo facciamo».
Lei lo guardò pensierosa. «Allora gli ascensori? Ammesso che funzionino ancora».
«Non possiamo fidarci degli ascensori», disse Dirk. «Anche se funzionano ancora. Bretan potrebbe farli fermare mentre noi siamo dentro».
«Non credo che esistano delle scale», disse lei. «E non le troveremmo di sicuro senza l’aiuto della Voce, anche se esistessero. Potremmo andare a piedi su per la strada, ma…».
«Sappiamo che ci sono almeno due gruppi di Braith che vanno in giro per quella strada. Probabilmente sono anche di più. No».
«E allora?».
«Che cosa rimane?». Si accigliò. «Il mozzo centrale».
Dirk si sporse oltre la ringhiera di ferro lavorato, guardò in su e in giù e venne colto da vertigini. Il mozzo centrale pareva proseguire all’infinito in entrambe le direzioni. C’erano solo due chilometri dal fondo alla cima, lui lo sapeva, ma tutto gli dava la sensazione che la distanza fosse infinita. Le calde correnti ascendenti che davano la galleggiabilità di una piuma alla gente che vi si avventurava, riempivano il torsolo echeggiante di nebbie grigio-bianche e le balconate che si affacciavano ad ogni livello del mozzo circolare — un livello dietro l’altro — erano tutte uguali e davano la sensazione di una ripetizione infinita.
Gwen aveva tirato fuori qualcosa dal suo pacco di sensori, uno strumento metallico, argenteo, grande un palmo. Lei era subito dietro Dirk, vicino alla ringhiera e gettò lo strumento all’interno del baratro. Lo guardarono tutti e due mentre si muoveva, girando ripetutamente, buttando loro in faccia riflessi luminosi. Navigò fino a metà del grande cilindro e poi cominciò a cadere… piano, gentilmente, in parte sostenuto dall’aria che saliva, un granellino di polvere metallica che danzava nella luce solare. Lo osservarono per un eone prima di accorgersi che era svanito nell’abisso grigio sotto di loro. «Bene», disse Gwen dopo averlo perso di vista. «La griglia gravitazionale è ancora in funzione».
«Sì. Bretan non conosce la città. Non abbastanza». Dirk guardò ancora in alto. «Credo che dovremo darci la spinta. Chi va per primo?».
«Dopo di te», disse lei.
Dirk aprì il cancello della balconata e si ritrasse fin contro la parete. Si tolse un ciuffo di capelli dagli occhi con impazienza, si strinse nelle spalle e corse in avanti, saltando il più alto possibile quando i suoi piedi toccarono il bordo.
Il salto lo portò avanti ed in alto, in alto. Per un unico spaventoso momento gli parve di cadere e lo stomaco di Dirk si strinse, ma poi guardò e si rese conto e non era affatto come cadere, ma come volare, come veleggiare nel cielo. Rise forte, improvvisamente inebriato. Portò le braccia davanti a sé e le mosse in potenti bracciate, nuotando ancora più in alto e più veloce. Le file di balconate vuote gli passavano accanto: uno, due, cinque livelli. Prima o poi avrebbe cominciato a ricadere, una leggera curva discendente verso il velo grigio e distante, ma non avrebbe potuto cadere per molti metri. L’altro lato del mozzo centrale era appena ad una trentina di metri da lui e ci voleva poco a fare un salto che vincesse i debolissimi vincoli della residua gravità del mozzo.
Alla fine la parete ricurva si fece più vicina e lui rimbalzò contro una ringhiera di ferro nero, roteando e cadendo verso l’alto, in modo assurdo, prima di riuscire ad afferrare una sporgenza della balconata, subito sopra quella contro cui aveva urtato. Fu facile spingersi su. Era salito su per il centro del mozzo per undici livelli. Si sedette un momento, sorridendo e stranamente eccitato, cercando di recuperare le forze per un altro salto ed osservando Gwen che stava venendo su dietro di lui. Lei volava come un uccello grazioso ed impossibile, mentre i lunghi capelli neri vibravano dietro di lei durante il volo. Lei superò il punto in cui lui era arrivato di due livelli.
Nel frattempo lui aveva raggiunto il 520° livello ed era ammaccato in cinque o sei punti, dove aveva sbattuto contro la ringhiera di ferro, ma si sentiva abbastanza bene. Al termine del sesto vertiginoso salto in mezzo al mozzo per i tuffi, quasi non aveva voglia di tirarsi su in mezzo alla balconata di arrivo, ritornando così alla normale gravità. Ma poi lo fece. Gwen era già là che lo aspettava, con il pacco dei sensori e le scatolette d’emergenza appese alle spalle in mezzo alla schiena. Lei gli diede una mano e lo aiutò a scavalcare la ringhiera.
Uscirono nell’ampio corridoio che girava attorno al pozzo centrale, nelle ormai familiari ombre azzurre. I globi brillavano appena agli incroci e ad entrambi i lati, dove lunghi passaggi diritti conducevano via dal centro della città, come raggi di una ruota gigantesca. Ne scelsero uno a caso e cominciarono a camminare velocemente verso la zona perimetrale. La camminata fu più lunga di quanto Dirk si sarebbe aspettato. Superarono parecchi altri incroci (l’ultimo che avevano conteggiato era il quarantesimo), ognuno uguale al precedente; superarono diverse porte nere, diverse solo per il numero che c’era scritto sopra. Né lui né Gwen parlarono. La piacevole sensazione che lo aveva invaso per breve tempo, la gioia del volo senza ali, lo lasciò improvvisamente come era arrivata mentre camminava nel buio crepuscolare. Fu sostituita da una punta di paura. Le sue orecchie continuavano a costruire fantasmi che lo preoccupavano, ululati lontani ed il debole battere di tacchi dei loro inseguitori; i suoi occhi trasformavano i globi di luce più lontani in qualcosa di strano e di terribile e scoprivano forme negli angoli di cobalto, dove invece c’era solo buio; era soltanto il suo cervello che gli giocava brutti scherzi.
Eppure i Braith erano stati anche qui. Vicino al perimetro di Sfida, dove i corridoi trasversali si univano alla strada esterna, trovarono uno dei veicoli con i penumatici a pallone che la Voce usava per portare i suoi ospiti avanti ed indietro. Era vuoto e capovolto, sdraiato in parte sui tappeti ed in parte sulla plastica liscia che faceva da pavimento alla strada vera e propria. Quando lo raggiunsero, si fermarono e gli occhi di Gwen incontrarono quelli di Dirk, in uno scambio muto. Gli venne in mente, per un momento, che i veicoli con le ruote a pallone non avevano comandi utilizzabili dai passeggeri; la Voce li guidava direttamente. E qui ce n’era uno, piegato su di un fianco, disattivato e immobile. Notò anche qualcos’altro. Presso una delle ruote posteriori il tappeto azzurro era umido e puzzolente.
«Vieni», mormorò Gwen ed attraversarono la strada silenziosa, sperando che i Braith che erano stati qui se ne fossero ormai andati e non li potessero sentire. La terrazza d’atterraggio con la loro macchina era ormai vicina; sarebbe stata una crudele ironia se loro non l’avessero potuta raggiungere. Ma a Dirk pareva che i loro passi echeggiassero terribilmente forte sulla superficie priva di tappeti del viale; gli pareva che li potessero sentire in qualsiasi punto dell’edificio, perfino Bretan Braith nei profondi scantinati distanti chilometri. Quando raggiunsero il marciapiede pedonale che superava la striscia mediana di marciapiedi immobili, cominciarono tutti e due a correre. Dirk non era sicuro se fosse stato lui o Gwen a cominciare. Un momento prima camminavano uno accanto all’altro, cercando di muoversi il più velocemente possibile e cercando di fare il meno rumore possibile; poi all’improvviso si erano messi a correre.
Al di là della strada… un corridoio senza tappeti, due svolte, un’ampia porta che pareva riluttante ad aprirsi. Alla fine Dirk si lanciò con la spalla ammaccata contro la porta e lui gemette e la porta gemette protestando, ma si aprì e si ritrovarono sulla terrazza del 520° livello di Sfida.
La notte era fredda e scura. Sentivano gli eterni venti di Worlorn che gemevano contro la torre Emereli. Si vedeva un’unica stella luminosa che bruciava nel lungo e stretto rettangolo che contraddistingueva il cielo del mondo esterno. All’interno, la terrazza era completamente nera.
Quando loro entrarono le luci non si accesero.
Ma la macchina era ancora là, accucciata nel buio come una cosa viva, come la banscea a cui voleva assomigliare e non c’era nessun Braith di guardia.
Si avvicinarono. Gwen si tolse il pacco di sensori e le provviste d’emergenza e li mise sul sedile posteriore, dove erano ancora appoggiati gli aeroscooter. Dirk era in piedi e l’osservava, tremando un po’; il mantello di Ruark non c’era più e quella notte l’aria era fredda.
Gwen toccò un dispositivo sui cruscotto ed al centro della carrozzeria della manta si aprì una fessura scura. Pannelli di metallo si mossero in su e in giù e spalancarono le viscere della macchina Kavalar. Gwen passò davanti ed accese una luce posta all’interno di uno dei pannelli della carrozzeria. L’altro pannello, vide Dirk, aveva una serie di utensili di metallo appesi.
Gwen era immobile in una piccola zona illuminata e studiava la complessa macchina. Dirk le venne vicino.
Alla fine lei scosse il capo. «No», disse con voce stanca. «Non funziona».
«Potremmo ricavare l’energia dalla griglia gravitazionale», suggerì Dirk. «Gli strumenti ci sono». Sottolineò.
«Non ne so abbastanza», disse lei. «Qualcosa, sì. Speravo di essere capace di immaginare… capisci. Ma non so. Non si tratta solo di energia. I laser sulle ali non sono nemmeno collegati. Per quello che ci riguarda dobbiamo considerarli dei semplici ornamenti». Guardò Dirk. «Immagino che tu non…?».
«No», disse lui.
Lei annuì. «Allora non abbiamo nessuna arma».
Dirk si alzò e guardò dall’altra parte della manta, verso il cielo vuoto di Worlorn. «Potremmo andarcene da quella parte».
Gwen allungò le braccia ed afferrò i due pannelli, uno per mano, li abbassò e li fece coincidere nuovamente e la banscea scura ebbe di nuovo un aspetto integro e feroce. La voce di Gwen era priva di toni. «No. Ricorda cosa hai detto. Fuori ci saranno i Braith. Le loro macchine saranno armate. Non avremmo nessuna possibilità. No». Lei girò attorno a Dirk e salì sull’aerauto.
Dopo un po’ lui la seguì. Rimase seduto contorto nel suo sedile, con davanti a sé quella stella solitaria nel freddo cielo notturno. Si rese conto di essere stanchissimo e sapeva bene che era ben più di una stanchezza fisica. Da quando era venuto a Sfida, le sue emozioni si erano rovesciate su di lui come onde su una spiaggia, una dopo l’altra, ma improvvisamente gli sembrava che l’intero oceano fosse scomparso. Non c’erano più onde, di nessun genere.
«Immagino che tu avessi ragione prima, nel corridoio», disse lui pensieroso, con voce introspettiva. Non guardava verso Gwen.
«Ragione?», disse lei.
«Sul fatto dell’egoismo. Sul fatto… capisci… sul fatto che non sono un cavaliere bianco».
«Un cavaliere bianco?».
«Come Jaan. Non sono mai stato un cavaliere bianco, forse, ma quando ero su Avalon mi piaceva pensare di esserlo. Io credevo nelle cose. Adesso non riesco quasi più a ricordare che cosa siano queste cose in cui credere. Tranne te, Jenny. Di te me ne ricordo. Questo perché… be’, tu mi capisci. Negli ultimi sette anni, ho fatto qualcosa, niente di terribile, sai, comunque delle cose che su Avalon non avrei mai fatto. Mi sono comportato cinicamente, egoisticamente. Ma fino adesso non ho mai ammazzato nessuno».
«Non flagellarti da solo, Dirk», disse lei. Anche la sua voce era stanca. «Non è una cosa attraente».
«Io voglio fare qualcosa,», disse Dirk. «Devo farlo. Non posso soltanto… tu lo sai. Avevi ragione».
«Noi non possiamo far niente, tranne che scappare e morire e questa non è una cosa molto interessante. Non abbiamo armi».
Dirk scoppiò in una risata amara. «Allora stiamo ad aspettare che Jaan e Garse vengano a salvarci e poi… il nostro nuovo incontro ha avuto vita terribilmente corta, non ti pare?».
Lei si piegò in avanti senza rispondere ed appoggiò il capo sul braccio posto sopra il cruscotto. Dirk la guardò e poi guardò ancora fuori. Aveva sempre freddo con quegli abiti leggeri, ma per qualche ragione la cosa non gli sembrava importante.
Rimasero seduti immobili nella manta.
Alla fine Dirk si voltò e mise una mano sulla spalla di Gwen. «L’arma», disse con voce stranamente eccitata. «Jaan ha detto che avevamo un’arma».
«I laser sull’aerauto», disse Gwen. «Ma…».
«No», disse Dirk, ridendo improvvisamente. «No, no, no!».
«E cos’altro avrebbe potuto voler dire?».
Per tutta risposta Dirk allungò una mano ed accese il sollevatore della macchina e la banscea di metallo grigio ritornò in vita e si sollevò lentamente dalle lastre di metallo. «La macchina», disse lui. «La macchina e basta».
«Fuori i Braith hanno anche loro delle macchine», disse lei. «Delle macchine armate».
«Sì», disse Dirk. «Ma Jaan ed io non parlavamo dei Braith che erano fuori. Parlavamo delle bande di cacciatori che erano dentro, quelli che andavano in giro per la strada ad ammazzare la gente!».
Improvvisamente lei capì ed il viso le si illuminò. Rise. «Sì», disse lei selvaggiamente ed allungò la mano verso il cruscotto della manta che ruggì e fece uscire scintillanti colonne di luce bianca dalla carrozzeria che cercavano di scacciare l’oscurità che era davanti a loro.
Gwen rimase sollevata per mezzo metro dal suolo e Dirk saltò al di là delle ali, andò verso la porta che aveva forzato ed usando la spalla ferita cercò di abbattere un secondo pannello, per creare un’apertura abbastanza grande da far uscire la macchina. Poi Gwen fece muovere la manta verso di lui e Dirk salì di nuovo sopra.
Poco dopo si trovavano sulla strada, galleggiando sopra il viale, vicino al punto dove giaceva il veicolo apalloni rovesciato. I raggi luminosi dei fari sciabolavano sui marciapiedi mobili ormai fermi ed i negozi vuoti da tempo e puntavano in avanti, lungo il percorso che sempre girando attorno all’alta torre di Sfida, li avrebbe portati fino a terra.
«Ti rendi conto», disse Gwen prima di partire, «che siamo nella corsia di salita. Il traffico in discesa dovrebbe essere dall’altra parte della linea mediana». Lei la indicò con un dito.
«Indubbiamente una cosa del genere è proibita dalle norme di di-Emerel». Dirk sorrise. «Ma non penso che la Voce ci faccia caso».
Gwen gli ritornò un leggero sorriso, toccò gli strumenti e la manta scattò in avanti, prese velocità. Poi per un bel po’ seguirono la strada facendo un gran vento mentre volavano nella luce grigia, sempre più veloci. Gwen, pallida e con le labbra serrate, era ai comandi, Dirk, accanto a lei osservava oziosamente il numero dei livelli mentre i vari corridoi baluginavano per un istante.
Udirono i Braith parecchio tempo prima di vederli… ancora l’ululato, un selvaggio abbaiare diverso da quello dei cani che Dirk aveva fino ad allora sentito. Il rumore pareva anche più selvaggio per gli echi che andavano su e giù per la strada nella loro scia. Quando Dirk udì per la prima volta la muta, allungò una mano e spense le luci della macchina.
Gwen lo guardò interrogativamente.
«Non facciamo molto rumore», disse lui. «Non riusciranno mai a sentirci con tutti quegli ululati e quegli urli, però potrebbero vedere le luci che arrivano dietro a loro. Giusto?».
«Giusto», disse lei. Nient’altro. Gwen era intenta alla guida. Dirk la osservò nella pallida luce grigia che era rimasta. I suoi occhi erano di nuovo di giada, duri e levigati, irati come dovevano essere a volte quelli di Garse Janacek. Alla fine lei aveva trovato il suo fucile ed i cacciatori Kavalari erano da qualche parte proprio davanti a loro.
Vicino al livello 497 superarono una zona piena di pezzi di abiti stracciati che si sollevarono e si mossero al vento provocato dal loro passaggio. Un pezzo, più grande degli altri, rimase quasi immobile nel punto in cui si trovava in mezzo al viale. I resti di un mantello bruno, strappato in tante strisce.
Davanti gli ululati si facevano sempre più forti.
Un sorriso passò per un momento sulle labbra di Gwen. Dirk lo vide, se ne meravigliò e si ricordò della sua gentile Jenny di Avalon.
Poi videro le figure, piccole ombre nere sulla strada oscurata, ombre che si ingrandirono rapidamente e si trasformarono in uomini e cani, mentre la manta scivolava in avanti verso di loro. Cinque dei grandi cani saltellavano liberamente lungo il viale, alle calcagna di un sesto, più grande di tutti loro, che tendeva due pesanti catene nere. Al fondo di ogni catena c’erano due uomini, che incespicavano dietro la muta mentre il gigantesco cane guida li tirava avanti.
Crebbero. Quanto velocemente crebbero!
I cani sentirono per primi la macchina. Quello che era davanti cercò di voltarsi e una delle catene si liberò dalla stretta di un cacciatore e sferzò l’aria. Tre dei cani liberi si girarono, ruggendo, ed un quarto si lanciò sulla strada verso la macchina che scendeva velocemente. Gli uomini parvero confusi per un momento. Uno era aggrovigliato nella catena che teneva quando il cane guida aveva cambiato direzione. L’altro, con le mani vuote, aveva cominciato ad abbassare la mano verso il fianco.
Gwen accese le luci. Dopo la semioscurità, gli occhi della manta apparvero accecanti.
La macchina piombò su di loro.
Le sensazioni si abbatterono su Dirk una dopo l’altra. Un lungo ululato si trasformò improvvisamente in un urlo di dolore; l’impatto fece sobbalzare la manta. Selvaggi occhi rossi brillarono orribili vicinissimi, una faccia da ratto e denti gialli umidi di saliva, poi un altro impatto ed un altro sobbalzo, un colpo. Altri impatti, impressionanti rumori di carne maciullata, uno, due, tre. Un grido, un grido molto umano, poi comparve un uomo illuminato dai fari della macchina. Ci volle un’ora per raggiungerlo, o almeno così sembrò. Era un uomo grosso e squadrato, uno che Dirk non aveva mai visto, vestito con pantaloni spessi di tessuto camaleontino che parvero cambiare colore quando loro furono più vicini. Aveva le mani alzate davanti al viso, in una c’era un’inutile pistola a laser del tipo da duello. Dirk riuscì a distinguere il metallo brillare spuntando fuori dalla manica dell’uomo. Capelli bianchi gli cadevano sulle spalle.
Poi, improvvisamente, dopo un’eternità di movimento congelato, l’uomo scomparve. La manta sobbalzò ancora una volta. Sobbalzò con la macchina anche Dirk.
Davanti c’era un grigio vuoto, il lungo viale curvo.
Dietro — Dirk si voltò a guardare — c’era un cane che li stava inseguendo, trascinandosi dietro due catene rumorosissime. Ma diventava sempre più piccolo mentre Dirk lo osservava. Figure scure ingombravano il pavimento di plastica della fredda strada. Non appena Dirk aveva cominciato a contarle, le forme scomparvero. Una pulsazione luminosa si accese per un istante in alto, proveniente dal nulla che li circondava.
Dopo poco lui e Gwen erano di nuovo soli e non si sentiva nessun rumore tranne il mormorio ronzante della loro macchina. La faccia di Gwen era calmissima. Le sue mani erano ferme. Le mani di Dirk non lo erano. «Penso che lo abbiamo ucciso», disse lui.
«Si», rispose lei. «Lo abbiamo ucciso. Anche qualche cane». Lei rimase tranquilla per un po’. Poi disse: «Si chiamava, se mi ricordo bene, Teraan Braith, o qualcosa di simile».
Tutti e due erano calmi. Gwen spense di nuovo i fari.
«Che fai?», chiese Dirk.
«Ce ne sono degli altri davanti a noi», disse lei. «Ricordati che abbiamo sentito un grido».
«Sì». Ci pensò per un po’. «La macchina potrà sopportare delle altre collisioni?».
Gwen ebbe un debole sorriso. «Ah», disse lei. «Il codice duellesco dei Kavalari ha diverse modalità aeree. Le aerauto sono spesso scelte come armi. Sono di costruzione robusta. Questa macchina è costruita per poter resistere al fuoco del laser il più a lungo possibile. L’armatura… debbo andare avanti?».
«No». Lui fece una pausa. «Gwen».
«Sì?».
«Non ucciderne degli altri».
Lei lo guardò. «Loro stanno dando la caccia agli Emereli», disse lei, «e a qualsiasi altro che sia tanto sfortunato da trovarsi all’interno di Sfida. Sarebbero ben felici di dare la caccia anche a noi».
«Calma», disse lui. «Dobbiamo portarli fuori strada, riuscire a guadagnare tempo per gli altri. Jaan arriverà presto. Non c’è bisogno di uccidere nessuno».
Lei sospirò e le mani si mossero per far rallentare la macchina. «Dirk», aveva cominciato a dire lei. Poi vide qualcosa e quasi arrestò l’aerauto, che mantenne librata in aria ed in movimento lentissimo. «Ehi», disse, «guarda». Lei allungò un dito.
La luce era talmente bassa che era difficile distinguere chiaramente le cose, finché non furono più vicini e poi… c’era la carcassa di qualcosa, o almeno i suoi resti. Al centro della strada, ferma e sanguinante. Pezzi di carne sparsa tutt’attorno. Sangue scuro secco sulla plastica.
«Questa deve essere stata la vittima che abbiamo sentito gridare prima», spiegò Gwen in tono da conversazione. «I cacciatori di falsuomini non mangiano le prede che uccidono, lo sai. In una parola, loro affermano che le creature non sono umane e sono solo una specie di animali semi-senzienti e ci credono pure. Comunque la puzza di cannibalismo è troppo forte anche per loro, per cui non osano mangiarli. Anche negli antichi tempi, su Alto Kavalaan durante i secoli bui, i cacciatori della granlega non mangiavano mai la carne dei falsuomini che abbattevano. Dicevano che la lasciavano per gli dei, per le falene mangiatrici di carogne, per gli scarafaggi della sabbia. Naturalmente dopo averne dato un boccone ai loro cani, come premio. Comunque i cacciatori prendono dei trofei. La testa. Guarda, qui c’è il torace. Vedi forse la testa?».
Dirk si senti male.
«Anche la pelle», continuò Gwen. «Hanpo dei coltelli da scuoiatore. O per lo meno li avevano. Nota che la caccia ai falsuomini è stata vietata su Alto Kavalaan, ormai da molte generazioni. Anche il consiglio degli altolegati di Braith si è pronunciato a sfavore. Le uccisioni che fanno questi cacciatori sono clandestine. Sono costretti a nascondere i loro trofei, tranne forse quando sono tra di loro. Comunque qui, be’, secondo Jaàn, i Braith cercheranno di restare su Worlorn il più a lungo possibile. Lui mi ha detto che secondo una voce, vogliono rinunciare a Braith, portarsi le loro betheyn dalle granleghe del pianeta di origine e formare una coalizione qui, una società che ricorderà le vecchie maniere, tutte le brutture della morte e delle uccisioni. Per un po’, un anno, due o dieci, finché lo stratoscudo dei Toberiani potrà trattenere il calore. Lorimaar alto-Larteyn ed i suoi amici, senza nessuno che li possa fermare».
«Ma sarebbe pazzesco!».
«Forse. Ma questo non li fermerà. Se Jaantony e Garse dovessero partire domani, lo farebbero di sicuro. La presenza di Ferrogiada serve da deterrente. Loro hanno paura che se gli altri Braith tradizionalisti muovessero quaggiù in forze, la fazione progressista dei Ferrogiada potrebbe anche mandare i suoi uomini in forze. Allora non ci sarebbe niente da cacciare e i loro figli si troverebbero di fronte ad una vita breve e dura su di un mondo morente, senza nemmeno il piacere a cui più bramano, la gioia dell’alta caccia. No». Si strinse nella spalle. «Comunque ci sono sale piene di trofei a Larteyn, anche adesso. Lorimaar da solo vanta cinque teste e si dice che abbia due giubbe fatte di pelle di "falsuomo". Non le indossa mai. Jaan lo ucciderebbe».
Gwen lanciò di nuovo a tutta velocità la macchina e la velocità riprese ad aumentare. «Adesso», disse lei, «vuoi ancora che io li schivi la prossima volta che li incontriamo? Adesso che sai che cosa sono loro?».
Lui non rispose.
Pochissimo tempo dopo i rumori ripresero sotto di loro, gli ululati e le grida, echeggiando lungo la strada altrimenti deserta. Superarono un altro veicolo capovolto, con i pneumatici di gomma morbida gonfi e strappati e Gwen dovette girargli attorno per superarlo. Un po’ dopo c’era uno scafo vuoto fatto di metallo nero che bloccava la discesa, un robot gigantesco con quattro braccia tese in posizione grottesca sopra la testa. La parte superiore del torace era un cilindro scuro in cui erano stati incastonati degli occhi di vetro; la parte inferiore era una base delle dimensioni dell’aerauto, montata su ruote. «Un controllore», disse Gwen mentre passavano accanto al silenzioso cadavere meccanico e Dirk vide che le mani erano state tagliate via dalle braccia una per una e che il corpo era pieno di buchi provocati dal laser.
«Avrà combattuto con loro?», chiese lui.
«Probabilmente», rispose lei. «Il che significa che la Voce è ancora viva e controlla ancora alcune funzioni. Forse è per questo che non abbiamo più sentito niente da Bretan Braith. Può darsi che abbiano dei guai laggiù. La Voce, naturalmente, ammasserà i suoi controllori per proteggere le funzioni vitali della città». Si strinse nelle spalle. «Ma non importa. Gli Emereli non sanno come comportarsi per difendersi dalle violenze. I controllori sono strumenti di prevenzione. Sparano dardi narcotici e credo che possano emettere dei gas lacrimogeni dalle griglie che hanno alla base. I Braith vinceranno. Sempre».
Dietro di loro il robot era già scomparso e la strada era di nuovo vuota. I rumori davanti si fecero più forti.
Questa volta Dirk non disse niente quando Gwen si chinò in avanti e riaccese le luci e le grida e gli impatti si susseguirono uno dopo l’altro. Gwen colpi entrambi i cacciatori Braith, anche se dopo disse che non era sicura di aver ucciso il secondo. Era stato colpito di striscio e buttato da una parte, finendo contro uno dei cani.
E Dirk era rimasto senza voce, perché mentre l’uomo cadeva e roteava contro la loro ala destra, aveva perduto la presa e si era schiantato contro la vetrina di un negozio lasciando una traccia sanguinante sul vetro mentre scivolava dentro. La cosa che aveva in mano, fino a quel momento, lui la stava tenendo per i capelli, notò Dirk.
La strada a cavatappi continuava a girare attorno alla torre che era stata Sfida, affondando lentamente, ma continuamente. Ci volle più tempo di quanto immaginasse Dirk per sprofondare dal livello 388 — dove avevano sorpreso la seconda banda di Braith — fino al livello uno. Un lungo volo nel silenzio grigio.
Non incontrarono nessun altro, né Kavalari, né Emereli.
Al livello 120 un controllore solitario bloccò loro la strada, facendo roteare i suoi occhi debolmente luminosi e comandando loro di fermarsi con la voce — sempre tranquilla e cordiale — della Voce di Sfida. Ma Gwen non rallentò e quando lei fu vicina, il controllore roteò via spostandosi, senza sparare dardi e senza emettere gas. I suoi ordini echeggianti li inseguirono lungo la strada.
Al livello cinquantasette le deboli luci sopra di loro oscillarono e si spensero e per un istante volarono nel buio assoluto. Poi Gwen accese i fari e rallentò appena un po’. Nessuno dei due parlava, ma Dirk pensava a Bretan Braith e si chiese per un momento se le luci si fossero rotte o fossero state spente. Forse era più probabile quest’ultima ipotesi; un sopravvissuto di sopra doveva certamente aver avvertito i confratelli di granlega di sotto.
Al livello uno la strada finiva in un grande viale e in una rotonda. Riuscivano a vedere pochissimo; solo dove i raggi dei fari battevano formavano ombre che spuntavano improvvisamente fuori dall’oceano di pace che li circondava. Il centro del viale pareva essere costituito da un unico albero. Dirk credette di distinguere un massiccio tronco rugoso, praticamente una parete di legno e riuscirono a sentire il fruscio delle foglie sopra di loro. La strada curvava attorno al grande albero e ritornava su se stessa. Gwen la percorse tutta seguendo l’ampio cerchio.
Dall’altra parte dell’albero c’era un cancello che si apriva verso la notte e Dirk percepì il tocco del vento sul viso e capì perché le foglie stormissero. Appena oltre il cancello, sempre restando sul cerchio, lui guardò fuori. Al di là della porta c’era una strada simile ad un nastro bianco che si allontanava da Sfida.
E c’era una macchina che si muoveva bassa sulla strada, ma veniva velocemente verso la città. Verso di loro. Dirk riuscì a distinguerla per un solo istante. Era scura — ma tutto era scuro nella debole luce delle stelle dei mondi esterni — e metallica. Una specie di bestia Kavalar deforme, che lui non poteva nemmeno tentare di identificare.
Non erano i Ferrogiada, di questo era sicuro.