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In effetti c'era un sottomarino russo quando la statunitense Kitty Hawk raggiunse il punto di ammaraggio, e all'orizzonte era visibile la nave da crociera brasiliana, che si avvicinava. La Kitty Hawk si appostò a un chilometro dalla nave aliena, il cui scafo ancora balenava dei colori dell'arcobaleno. Il sottomarino russo era leggermente più lontano, dalla parte opposta.

La nave aliena sembrava essere sommersa dall'acqua per circa due terzi, ma dondolava abbastanza da rendere visibile a intermittenza gran parte della parte superiore della superficie. Frank, Clete e un giovane pilota della Marina salirono a bordo di uno degli elicotteri Seahawk SH-60F della Kitty Hawk e decollarono dalla portaerei per un volo sopra alla nave.

«Di sicuro è aerodinamica» strillò Clete sul rumore del motore dell'elicottero.

Frank annuì. «Deve essere solo un veicolo da atterraggio» gridò a sua volta. Dal momento in cui la nave era stata localizzata per la prima volta al suo ingresso nell'atmosfera terrestre, il NORAD aveva esplorato il cielo in cerca di un qualsiasi segno di maternità. Nel frattempo a Cape Canaveral stavano preparando Atlantis al volo. Al momento non c'era nessuno Shuttle in orbita, né russo né americano; Atlantis era il prossimo a dover volare, ma non era previsto che lo facesse per altri diciotto giorni.

Lo scafo della nave aliena sembrava un corpo continuo. Non aveva né le piastre di metallo chiodate che formavano l'esterno della Kitty Hawk né le piastre ceramiche che coprivano uno Space Shuttle. C'erano quattro superfici specchiate che avrebbero potuto essere finestre lungo l'estremità appuntita dello scafo, e c'era un qualcosa di grigio-verde che poteva essere una scritta che andava su e giù lungo un fianco dello scafo superiore, ma era difficile da decifrare, soprattutto con lo sfondo che cambiava colore costantemente.

«Scommettono che vedono a infrarossi» gridò Clete. «Probabilmente cambia colore anche quando sembra nero, prima che passi al rosso. Ma noi non possiamo vederlo.»

«Forse,» disse Frank «ma…»

«Guardate!» gridò il pilota dell'elicottero.

Un cilindro stretto stava spuntando dal centro dello scafo della nave. Al suo apice c'era una luce brillante gialla che lampeggiava. Lampo, pausa, lampo-lampo, pausa, lampo-lampo-lampo.

«Sta contando» disse Clete.

Ma la sequenza successiva fu di cinque lampi, non di quattro, e quella ancora successiva di sette. E poi la sequenza iniziò a ripetersi più volte: uno, due, tre, cinque, sette; uno, due, tre, cinque, sette.

«Numeri primi!» disse Frank. Gridò al pilota: «Questo elicottero ha un riflettore?»

L'uomo scosse la testa.

«Riportaci alla portaerei più velocemente possibile. Presto!»

Il pilota annuì e fece fare all'elicottero un'ampia virata.

Frank diede un'occhiata al sottomarino russo. Stava già replicando il segnale: i primi cinque numeri primi in sequenza che si susseguivano a ripetizione.

Il pilota indossava le cuffie della radio. Frank gli gridò: «Fai usare i riflettori della Kitty Hawk. Digli di lampeggiare una risposta alla nave. I primi cinque numeri primi, più volte.»

Il pilota trasmise il messaggio. Sembrò che ci volesse un'eternità — con Frank che si agitava per ogni secondo che passava — ma alla fine un grosso riflettore proprio sotto l'antenna radar della portaerei iniziò a lampeggiare la sequenza.

Il faro giallo che spuntava dalla capsula si spense.

«Forse abbiamo detto la cosa sbagliata?» chiese Clete.

Il Seahawk atterrò sul ponte di volo. Mentre il rotore rallentava i giri, Frank uscì, col vento delle eliche che gli sferzava i capelli. Clete lo seguì un momento dopo. Piegati, si allontanarono rapidamente dall'elicottero. Il capitano, un nero calvo sulla cinquantina, li stava aspettando appena dentro la base della torre di comando. «Anche i russi stanno ancora segnalando la stessa cosa» disse.

Frank aggrottò le ciglia, pensando. Perché gli alieni avevano taciuto? Avevano risposto esattamente come avevano fatto gli alieni, dimostrando che gli umani capivano i numeri primi, e…

No. Tutto quello che avevano dimostrato era che gli umani sapevano ripetere le cose a pappagallo. «Provate a continuare la sequenza» disse Frank.

Clete annuì, afferrando al volo il suggerimento. «Loro ci hanno dato i primi cinque. Diamogli i numeri primi successivi.»

Il capitano annuì e prese un piccolo interfono dal muro, tirandolo a sé. «Sala di segnalazione, continuate la sequenza. Dategli i cinque successivi numeri primi.»

«Sissignore» disse una voce metallica «ma, signore, quali sono i cinque successivi?»

Il capitano guardò Frank, inarcando le sopracciglia. Frank fece una faccia disgustata. Clete spalancò gli occhi. «Undici, tredici, diciassette, diciannove e ventitré» disse Frank.

Il capitano ripeté i numeri nel microfono. «Sissignore» disse la voce del marinaio.

«Sarà meglio che andiamo là sopra» disse Clete.

Frank annuì. «Come si arriva dove ci sono i controlli dei riflettori?»

«Venite con me» disse il capitano. Li guidò lungo una scala circolare di metallo e li portò nella sala radio. Entrando, Frank vide il marinaio che azionava la luce. Era un giovane bianco, forse di diciannove anni, con i capelli biondi lunghi mezzo centimetro. «Gli alieni hanno iniziato di nuovo a mandare segnali luminosi» disse.

«Qual era la sequenza?»

«Hanno ripetuto tutti e dieci i numeri primi» disse il marinaio.

Un ampio sorriso si aprì sul viso di Frank. «Contatto.»

Il capitano stava guardando fuori. «Anche il sottomarino russo sta segnalando i dieci numeri.»

Frank indicò col dito. «Ed ecco che arriva quella dannata nave da crociera.»

Il fascio di luce gialla iniziò di nuovo a lampeggiare. Uno. Quattro. Nove. E poi così tanti lampi che Frank perse il conto.

«Devono essere quadrati» disse Clete. «Uno al quadrato, due al quadrato, tre al quadrato, quattro al quadrato.»

«Rispondete con cinque al quadrato» disse Frank, guardando il giovane. «Fa venticinque.»

Il marinaio cominciò a cliccare sulla levetta del riflettore contando a voce alta.

«Dio» disse Clete, indicando l'esterno. «Dio.»

La nave aliena si stava sollevando dall'oceano. Si alzò di circa venti metri sopra le onde, emettendo vapore. Lo scafo aveva smesso di cambiare colore; ora era di un verde scuro uniforme. Sotto sembrava ci fossero quattro getti di qualche tipo. Facevano spumeggiare la superficie dell'oceano. La nave iniziò a muoversi lentamente in orizzontale. Volò in direzione del sottomarino russo, ma si fermò subito prima, apparentemente per evitare che lo scarico del suo getto arrivasse sul sottomarino. Poi la capsula volò verso la nave da crociera che era lì vicino. Con il binocolo Frank riusciva a vedere delle persone sul ponte che facevano fotografie e riprese. Poi la nave spaziale cambiò direzione e si diresse verso la Kitty Hawk. Si fermò a circa cinque metri dalla curva del ponte di volo, e rimase sospesa lì.

«Che cosa sta facendo?» gridò Frank.

Clete alzò le spalle.

Fu il marinaio a parlare. «Signore, credo che stia aspettando l'autorizzazione all'atterraggio, signore.»

Frank guardò il giovane. Forse lo aveva giudicato troppo affrettatamente.

«Penso che il ragazzo abbia ragione, Frankie» disse Clete. «Sanno che questa è una portaerei. Hanno visto il nostro elicottero decollare e atterrarci, e probabilmente guardando gli aerei sul ponte di volo possono capire cosa sono… è evidente che sono progettati secondo i principi dell'aerodinamica.»

«Senz'altro possono atterrare» disse Frank. «Ma come facciamo a dirglielo?»

«Be' se la domanda è ovvia, deve esserlo anche la risposta» disse Clete.

«Diamogli di nuovo i numeri primi. Se la sequenza è giusta, significa 'sì'. Se è sbagliata, significa 'no'.»

Frank annuì. «Segnaliamo i primi cinque» disse.

Il marinaio guardò il capitano per avere conferma. Il capitano annuì, e il marinaio azionò la levetta della luce con il dito. Nell'oblò Frank vide la nave aliena che si muoveva verso il ponte di volo.

L'interfono fischiò. Il capitano prese il ricevitore. «Qui Raintree.»

«Signore,» disse una voce rauca «il sottomarino russo ci ha contattato via radio chiedendoci di mandare un elicottero per portare immediatamente qui tre osservatori, signore.»

Il capitano guardò Frank, che aggrottò le sopracciglia. «Cristo, non voglio…» interruppe Clete. «Frankie, hanno scelto le acque internazionali. Non puoi…»

«No, no, suppongo di no. Okay, capitano.»

«Se ne occupi lei, Mr. Coltrane» disse il capitano, e rimise a posto il ricevitore.

«Voglio che sul ponte sia installata un'attrezzatura video» disse Frank. «Voglio che tutto venga registrato.»

Il capitano parlò di nuovo nell'interfono.

«Andiamo» disse Clete.

Il capitano Raintree, Frank e Clete ridiscesero la scala circolare che avevano percorso prima e sbucarono dalla stessa porta alla base della torre di comando, uscendo sul ponte di volo. Non c'era molto vento, e il cielo era quasi completamente limpido. La capsula si stava ancora abbassando.

«Dannazione» disse il capitano.

«Che succede?» chiese Frank sopra il frastuono dello scarico della capsula.

«Sta scendendo al centro della pista. Non c'è modo di decollare se sta lì.»

Frank scrollò le spalle. «È l'area più grande disponibile.»

In lontananza un altro Seahawk della Marina si manteneva sulla torre di comando del sottomarino russo. Era stata calata una scala a corda, e un uomo stava salendo sull'elicottero.

Il capitano Raintree guardò Frank. «Abbiamo della musica registrata, signore. Potremmo suonare l'inno nazionale.»

«C'è un inno delle Nazioni Unite?» chiese Frank.

«Che io sappia no, signore» disse il capitano.

«C'è qualcuno che ha la sigla di Star Trek su un nastro?» disse Clete.

Il capitano lo guardò.

Clete alzò le spalle. «Era solo un'idea.»

«Potrei organizzare un picchetto d'onore.»

«Con i fucili?» disse Frank. «Neanche per idea.»

La capsula di atterraggio si fermò. Frank sentiva le vibrazioni delle lastre del ponte sotto i piedi.

«Andiamo a dare un'occhiata?»

«Signore,» disse il capitano «potrebbe essere radioattiva. Le consiglio di farla prima controllare dai miei uomini con un contatore Geiger.»

Frank annuì. Il capitano usò di nuovo l'interfono per dare l'ordine.

«Pensi che usciranno fuori?» chiese Clete.

Frank alzò le spalle. «Non lo so. Potrebbero essere impossibilitati a uscire — anche se hanno delle tute spaziali, la gravità potrebbe essere troppo alta per loro.»

«E allora perché sarebbero atterrati sulla Kitty Hawk

«Forse a forza di essere sballottati dall'oceano gli è venuto il mal di mare.»

In quel momento l'elicottero stava lasciando il sottomarino russo e si dirigeva verso la Kitty Hawk.

Clete indicò i segni grigio-verdi sullo scafo scuro della nave. Erano complessi, formati da una linea orizzontale da cui scendevano varie spirali e curve. Non c'era modo di stabilire se si trattasse di un unico carattere, di una parola, o solo di arte astratta.

Accanto al capitano comparve un marinaio con un contatore Geiger. Il capitano gli fece segno di procedere annuendo. L'uomo sembrava nervoso, ma attraversò il ponte di volo verso la navetta da sbarco.

«Capitano,» disse Frank «può portare questa nave a New York?»

«Vuoi portarli a vedere Cats?» disse Clete.

Frank aggrottò le ciglia. «Alle Nazioni Unite, naturalmente.»

Il capitano annuì. «Certo, possiamo andare ovunque.»

L'elicottero atterrò. Insieme al pilota sbarcarono due uomini e una donna russi. Si avvicinarono al capitano americano.

«Sergei Korolov» disse il russo, un uomo tarchiato sulla trentina. Fece il saluto militare. «Sono il primo ufficiale — come direste voi — sul Suvorov.» Fece un cenno col capo verso la donna. «Il nostro medico, Valentina Danilova, e l'ufficiale addetto ai sistemi radio, Piotr Pushkin. Nessuno dei due parla inglese.»

«Splendido» borbottò Frank. «Io sono Frank Nobilio, consulente scientifico del presidente degli Stati Uniti. Questi sono Cletus Calhoun, astronomo, e il capitano Raintree.»

«Voglio puntualizzare» disse Korolov «che il mezzo è atterrato sulla vostra nave solo perché era impossibile atterrare sul nostro sottomarino. Ma secondo le leggi internazionali di salvataggio, è chiaramente nostro — lo abbiamo preso per primi.»

Frank sospirò. «Non è nostra intenzione rubare la navetta da sbarco, Mr. Korolov. Infatti intendo portarlo alle Nazioni Unite, a New York.»

«Dovrò interpellare il mio capitano, e lei dovrà interpellare Mosca» disse Korolov. «Non è…»

L'uomo con il contatore Geiger tornò. «È pulito, signore. Solo normali radiazioni di fondo.»

«Molto bene» disse il capitano Raintree. «Volete andare a dare un'occhiata più da vicino, dottor Nobilio?»

«Assolutamente. Andiamo… mio Dio.»

Una sezione della parete curva della capsula si stava aprendo. Il portello era completamente invisibile da chiuso, ma l'apertura era evidente. Dentro c'era un vano con le pareti grigie — con tutta probabilità una camera di equilibrio. E nel mezzo si trovava una figura.

Una figura che non era umana.

«Dannazione» disse il capitano sottovoce. «Signore, se quella cosa porta germi alieni, dovremo, ehm, sterilizzare la nave.»

Frank rispose fermamente. «Prenderò io questa decisione, capitano.»

«Ma…»

«Capitano, stia zitto.» Frank si avvicinò alla capsula. Il cuore gli martellava negli orecchi.

Un alieno.

Un vero, genuino alieno.

Non aveva la testa grossa, gli occhi enormi, il corpo minuscolo o qualsiasi altra delle caratteristiche associate agli avvistamenti degli UFO, naturalmente. Frank aveva sempre dato per scontato che quelle descrizioni prive di fantasia degli esseri alieni fossero una prova del fatto che gli UFO non avevano niente a che fare con la vita extraterrestre, nonostante le ridicole asserzioni di Packwood Smathers. No, questo era chiaramente qualcosa che si era evoluto altrove.

La creatura non era un umanoide.

Era alta circa un metro e sessantacinque e, tirando a indovinare, probabilmente pesava settanta chili. Aveva quattro arti, ma sembravano tutti attaccati alle spalle. Il destro e il sinistro erano lunghi, e toccavano terra. L'anteriore e il posteriore erano più corti, e pendevano a mezz'aria. La testa non era che una semplice cupola che si alzava dalle spalle, e in cima c'era un ciuffo o una ciocca di filamenti bianchi che sembravano ondeggiare indipendentemente dalla leggera brezza. Vicino alla parte frontale della cupola erano posizionati due cerchi convessi a specchio che avrebbero potuto essere occhi. Sotto di essi c'era un orifizio che poteva essere una bocca. La pelle dell'essere era grigio-blu. Indossava qualcosa di simile a un vestito grigiastro, con parecchie tasche.

Clete era andato vicino a Frank. «Niente tuta spaziale» disse. «Respira la nostra aria e sta in piedi alla nostra gravità.»

L'alieno cominciò a camminare in avanti. Gli arti destro e sinistro erano uniti in tre punti, e il suo passo era di quasi due metri. Anche se non sembrava che si stesse affrettando, coprì metà della distanza tra lui e Frank in pochi secondi — poi si fermò, inerte, a una distanza di circa quindici metri.

Il significato sembrava abbastanza chiaro: un invito ad avvicinarsi. L'alieno non intendeva invadere il territorio di Frank, ed era evidente che non voleva prenderlo e portarlo sulla capsula. Frank avanzò; Clete gli andò dietro. Anche i russi cominciarono a muoversi. Frank si voltò indietro. «Solo uno di voi» disse. «Non vogliamo che pensi che ci siamo uniti contro di lui.»

Korolov annuì e rivolse poche parole a Pushkin e Danilova. Entrambi apparvero contrariati, ma obbedirono agli ordini e tornarono indietro vicino al capitano Raintree.

I tre umani coprirono la distanza che rimaneva. Quando arrivarono a due metri o poco più dall'alieno, Clete alzò una mano. «Sarà meglio fermarci qui, Frankie» disse. «Non sappiamo quale sia la sua concezione del suo spazio personale.»

Frank annuì. Avvicinandosi, vedeva che la pelle della creatura era un reticolato di piccole linee, che la dividevano in squame o placche a rombi, e… Frank non riuscì a trattenere un sorriso. C'era una piccola striscia adesiva, forse lunga otto centimetri e larga due, attaccata sul lato della testa a cupola dell'alieno — sembrava una benda, come se l'alieno avesse battuto la testa. In qualche modo quel piccolo segno di fallibilità lo faceva apparire come qualcosa di molto più accessibile, di molto meno spaventoso.

Presumibilmente l'alieno stava studiando gli umani, ma nelle lenti a specchio non erano visibili le pupille — non c'era modo di capire dove stesse guardando.

Come procedere? Per un momento Frank pensò di fare con la mano il segnale di Incontri ravvicinati — e quel pensiero gli fece venire un'idea migliore. Alzò un dito, poi due — era consapevole di fare un cenno di pace — poi tre e poi cinque. Poi sollevò l'altra mano e aggiunse due dita, per un totale di sette.

L'alieno sollevò il suo arto frontale e alzò la mano, che finiva con quattro dita con la punta piatta, equidistanti dall'estremità circolare del braccio. Le dita sembravano identiche — erano tutte della stessa lunghezza, senza alcun pollice riconoscibile. Il primo e il terzo dito erano opposti l'uno all'altro, e così pure il secondo e il quarto.

L'alieno alzò un dito, poi due, poi tre. Poi fece girare la sua seconda mano da dietro il corpo, e alzò due dita — per un totale di cinque — e poi le altre due, arrivando a sette.

Fino a lì, tutto bene. Ma poi Frank pensò che forse aveva fatto un errore. Forse ora l'alieno credeva che gli umani comunicassero attraverso un linguaggio gestuale, invece che parlato. Si toccò il petto con la mano e disse «Frank.»

«Frank.» L'alieno era un imitatore di grande talento — la voce era identica a quella di Frank.

No, no, non era così — aveva registrato la sua voce e l'aveva immediatamente riprodotta. Ci doveva essere qualche attrezzatura di registrazione nella tunica che aveva addosso.

Frank puntò il dito verso l'alieno. Non c'era motivo di pensare che il gesto avrebbe significato qualcosa per la creatura. Ma quasi contemporaneamente la bocca dell'alieno si mosse. Era una struttura complessa, con un'apertura esterna orizzontale e uno strato interno di tessuto che aveva invece un'apertura verticale, formando una serie di fori rettangolari. «Hask» disse l'alieno. La sua voce era armoniosa e profonda — Frank non aveva visto niente sull'essere che potesse somigliare ai genitali, ma il suono era di una voce maschile. La voce partì piano, ma alla fine della parola il volume si fece più alto.

A quel punto Frank realizzò che non aveva stabilito un bel niente. Hask era il nome dell'essere? O il nome della sua razza? Oppure la parola significava qualcos'altro? Magari 'Ciao'? Frank indicò Clete. «Clete» disse. L'alieno ripeté la parola, e questa volta Frank fu certo che il suono non proveniva dalla bocca, ma dal torace dell'alieno. Una delle tasche del suo vestito conteneva un piccolo oggetto rettangolare; la sua forma appariva evidente dal modo in cui la stoffa era deformata, e la parte superiore dell'oggetto spuntava fuori dal bordo della tasca. Il suono sembrava provenire da lì.

L'alieno indicò Frank e disse il suo nome — questa volta il suono veniva dalla bocca. Poi indicò Clete e disse il suo nome. In entrambi i casi la parola iniziò piano ma il volume aumentò alla fine della sillaba. L'alieno indicò il russo. Frank lo guardò, ma non si ricordava il nome neanche lontanamente.

«Sergei» disse il russo.

«Sergei» ripeté l'apparecchio nella tasca dell'alieno, e poi, un momento dopo, lui stesso disse: «Sergei.»

Allora Frank indicò se stesso, Clete e Sergei. «Umani» disse.

«Aspettate» disse Sergei. «Mi oppongo a che il contatto sia in inglese.»

Frank guardò l'uomo. «Non è questo il momento…»

«Certo che è il momento. Voi…»

Clete intervenne. «Non stia a seccarci. Qui è al comando il dottor Nobilio, e…»

«Niet.»

«Per l'amor del cielo» disse Frank «Stiamo registrando tutto su video. Non discutiamo.»

Sergei sembrò alterato ma non aggiunse altro. Frank si voltò di nuovo verso l'alieno, indicò di nuovo ognuno di loro e ripeté: «Umani.»

L'alieno si toccò il torace, proprio come aveva fatto Frank prima. «Tosok.»

«Tosok» disse Frank. «Hask.»

«Umani» disse Hask. «Frank, Clete, Sergei.»

«Ora sì che ci siamo» disse Clete.

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