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L'interno della capsula da atterraggio di Hask era semplice ed elegante. Frank e Clete avevano sperato di vedere una tecnologia fantasticamente avanzata, ma chiaramente quasi tutte le operazioni erano automatizzate. C'era una sola consolle di controllo con qualche tastiera a croce simile a quella che era sul computer tascabile di Hask. C'erano anche dei congegni meccanici riconoscibili, compresi dei cilindri con un ugello che probabilmente erano degli estintori.

La cosa più intrigante erano le sedie Tosok, che somigliavano a delle alte selle girate di lato. Hask si sedette su una di queste. Appena lo fece le estremità laterali si sollevarono fino alle sue… be' forse 'ascelle' era la parola più giusta: le cavità nel punto in cui le sue lunghe gambe si congiungevano alle spalle. Sembrava che i lati funzionassero a scatto. Quando Hask abbassò il suo peso sulla sedia, i lati si compressero e poi scattarono a posto, proprio all'altezza giusta per sostenerlo.

In effetti c'erano otto sedie: due nella prima fila, e poi due file addizionali di tre sedie ognuna. Clete tentò di sedersi, ma trovò la sedia atroce. Hask andò fino alla parete, che era verde pallido e sembrava di cera. La toccò e si aprì uno sportello. Hask pescò lì dentro un apparecchio che somigliava un po' a un cacciavite, anche se non sembrava avere parti metalliche. Poi si abbassò sul pavimento — fu un movimento strano, fluido, le sue lunghe gambe si piegarono in tre punti, mentre il braccio anteriore contribuiva a sostenere il suo peso. Finì disteso sulla parte frontale e il braccio posteriore si sollevò tenendo lo strumenta nella mano a quattro dita. Armeggiò e sembrò che la parte frontale della sella si allentasse. Clete si fece avanti e afferrò quella parte della sedia prima che cadesse sul Tosok.

Poi Hask si alzò in piedi. «Va bene?» disse.

Clete si sedette di fianco, appoggiandosi all'altra sporgenza del sedile curvo. Sorrise a Frank. «Non sono un tipo sedentario, ma andrà bene.»

«Quando partirete?» disse Frank ad Hask.

«Quando Clete è pronto.»

«Posso portarmi la videocamera?» chiese Clete indicando l'attrezzatura in una borsa sul pavimento.

«Sì.»

«Bene» disse Clete. «Allora andiamo.»

Frank lasciò il veicolo spaziale, e il portello gli si chiuse dietro.


Erano le tre del pomeriggio. Il cielo era stato colpito da sferzate di scie di condensazione: decine di aerei dei media e del governo avevano volato sulla zona per vedere la nave aliena. Il mare era ragionevolmente calmo; le onde battevano dolcemente contro lo scafo della Kitty Hawk.

Era tutto organizzato. Hask e Clete sarebbero andati fino all'astronave madre, avrebbero preso gli altri Tosok, e sarebbero poi atterrati sulla piazza delle Nazioni Unite. Ci sarebbe stato un ritardo a bordo dell'astronave — Hask non aveva un vocabolario abbastanza ampio per spiegare esattamente perché — perciò non sarebbero stati di ritorno per circa venti ore.

Nel frattempo, un caccia avrebbe portato Frank direttamente dalla Kitty Hawk a Washington, dove lui avrebbe riferito al presidente, che era già irritato perché l'incontro si sarebbe svolto alle Nazioni Unite piuttosto che sul prato della Casa Bianca, come avevano predetto i film di fantascienza degli anni Cinquanta. Poi sarebbero partiti tutti e due per New York; anche altri leader mondiali si stavano dirigendo lì. Tutto sommato, Frank era soddisfatto: l'umanità stava affrontando il primo contatto molto meglio di quanto si aspettasse.

La capsula aliena era partita dal ponte di volo, con la sua sagoma verde scura contro il cielo azzurrino. Frank salutò con la mano mentre saliva sempre di più. Due F14 fecero da scorta — e diedero modo di osservare la nave aliena in volo.

Dentro la capsula, Clete stava registrando tutto su una videocassetta. Purtroppo non era possibile trasmettere in diretta — il mezzo era schermato dalle onde radio, il che impediva a Clete di trasmettere, e non c'era modo di utilizzare l'attrezzatura disponibile per interfacciare la sua videocamera con il sistema di comunicazione utilizzato dai Tosok.

Anche se i quattro rettangoli a specchio lungo la curva appuntita del veicolo si rivelarono essere degli oblò, Clete scoprì che vedeva molto meglio sul display a parete all'interno della nave. La capsula salì su, sempre più in alto; l'oceano Atlantico si allontanava sotto di loro, e il cielo passò rapidamente dal blu, al porpora, al nero. Ben presto Clete riuscì a vedere la costa orientale dell'America Centrale, e poi anche la costa occidentale dell'Africa. Stava letteralmente tremando dall'eccitazione — per tutta la vita aveva desiderato andare nello spazio, e ora stava accadendo! L'adrenalina gli correva per tutto il corpo, e quando vide se stesso riflesso sul monitor a parete, vide che sul suo volto si apriva un enorme sorriso.

Il mezzo continuava a salire, e ben presto passò il terminatore, entrando nella parte notturna della Terra. Sopra, le vere stelle erano immobili come la pietra; sotto, le costellazioni di luci di città brillavano a intermittenza.

Presto la nave fu in orbita, e la mano invisibile smise di premere contro il fianco di Clete — dopo tutto era seduto di traverso. Si sentiva senza peso, e il cuore gli batteva ancora più forte per l'eccitazione.

E poi, eccola lì — che fluttuava maestosa davanti a loro.

L'astronave madre.

Era veramente gigantesca. Quasi tutte le sue parti erano nero opaco, rendendola difficile da vedere sullo sfondo dello spazio. Sembrava a forma di bastone, con un modulo tondeggiante a un'estremità, e quello che pareva essere un motore all'altra. Il fatto che il motore e gli alloggiamenti abitabili fossero così lontani fece pensare a Clete che la fonte d'energia fosse nucleare. Avrebbe dovuto far rivedere ai suoi colleghi le lastre stellari che avevano fatto nell'ultimo anno, o giù di lì; con tutta probabilità, la nave aliena era venuta verso la Terra di coda. Molte delle idee sul volo stellare che Clete aveva visto prevedevano un'accelerazione continua fino al punto mediano del viaggio, facendo girare la nave, e poi decelerando continuamente fino al raggiungimento della destinazione. Gli astronomi potevano aver registrato involontariamente lo scarico di fusione dell'astronave in frenata — e dai suoi spettri si poteva racimolare qualcosa della tecnologia Tosok.

Hask diceva che il mondo dei Tosok aveva una gravità maggiore della Terra, ma naturalmente l'astronave madre in quel momento era in microgravità, anche se durante il volo stellare la sua accelerazione costante avrebbe provocato una sensazione di peso normale.

Clete aveva ancora problemi a non perdere la sua compostezza. Volare nello spazio era già di per sé abbastanza come esperienza più eccitante della sua vita, ma questo unito al fatto di essere in compagnia di una forma di vita extraterrestre era quasi troppo per lui. Aveva sorriso così tanto che le guance gli facevano male, e si sentiva completamente stordito.

E l'assenza di peso! Dio, era proprio come Armstrong e gli altri astronauti gli avevano detto! Una volta, per il suo programma per la PBS, Clete era stato a bordo del Vomit Comet, il jet KC-135 che la NASA utilizzava per addestrare gli astronauti. Era stato divertente, ma questo — questo era spettacolare!

Viaggiare nello spazio.

Vita aliena.

Navi spaziali.

Ne aveva fatta di strada, dalle sue umili origini sulle colline del Tennessee. Era famoso, una celebrità, ricco, ospite regolare del Tonight Show. Ma aveva sempre detto che avrebbe dato tutto per andare nello spazio, per avere la certezza che la vita esistesse anche altrove.

Clete aveva indovinato: la capsula era completamente automatica; Hask non toccò i comandi neanche una volta. Ma mentre il mezzo effettuava una manovra lungo la nave a bastone, qualcosa attirò lo sguardo di Clete. Anche se era difficile dire quale dovesse essere l'aspetto della tecnologia Tosok, una parte della nave sembrava danneggiata. Clete la indicò.

«Sì» disse Hask. «Un impatto, mentre entravamo nel vostro sistema solare. Con nostra grande sorpresa, c'erano molti detriti intorno.»

«A che distanza?»

«Forse cinquanta volte il raggio orbitale della Terra.»

Clete annuì tra sé. La cinta di Kuiper — la fonte delle comete con fasi orbitali fino a venti anni. «Il danno è grave?»

«Deve essere riparato» disse Hask. «Vostro aiuto necessario.»

Clete sentì le sue sopracciglia inarcarsi. «Naturalmente. Sono sicuro che saremo contenti di farlo.»

La navetta da sbarco continuò ad avvicinarsi all'astronave madre, che secondo le stime di Clete era lunga trecento metri. Se lo scafo fosse stato più riflettente, sarebbe stata facilmente visibile da terra.

Alla fine il mezzo si collegò allo scafo dell'astronave madre, fissandosi proprio dietro al modulo a bulbo; Clete sentiva il fragore dei morsetti di attracco che si agganciavano alla nave. Niente ponti di hangar con la porta a valva di mollusco come sulla nave spaziale Enterprise. Clete l'aveva sempre trovata poco credibile — per la quantità di aria che sarebbe stato necessario pompare fuori e dentro. Altri tre mezzi di atterraggio — due uguali a quello in cui si trovava e un altro molto più lungo e stretto — erano già agganciati allo scafo. C'era anche un altro punto di attracco aggiuntivo, non utilizzato.

«L'altro attracco è in più o manca una nave?» chiese Clete.

«Manca nave» disse Hask. «Una è stata sbattuta via durante l'impatto; non siamo riusciti a recuperarla.»

Hask si mosse in avanti, e sia la porta esterna che quella interna della camera di equilibrio si aprirono lateralmente, rivelando l'interno dell'astronave madre. L'illuminazione era giallo-bianca, e piuttosto fioca. Se il colore era quello della luce solare nel mondo Tosok, dovevano venire da una stella di classe G. Nella zona stellare locale, oltre al Sole, solamente Alfa Centauri e Tau Ceti erano di classe G.

Dentro la nave faceva freddo — forse dieci gradi. L'assenza di peso era completamente inebriante. Clete si divertì con qualche avvitamento orizzontale mentre Hask lo guardava e il ciuffo sulla sua testa si muoveva in un modo che poteva indicare divertimento. Ben presto però Hask si mosse fluttuando lungo un corridoio e Clete lo seguì, tentando di destreggiarsi mentre teneva d'occhio il piccolo schermo a cristalli liquidi della videocamera. Dato che i Tosok avevano viaggiato per duecentoundici anni, Clete si aspettava che l'interno della nave fosse spazioso, ma in quanto a spazi aperti non sembrava ci fosse molto, e non avevano ancora visto un altro Tosok.

«Dove sono gli altri?» chiese Clete.

«Di qua» disse Hask. Ogni pochi metri dava una leggera spinta sulla parete con la mano posteriore per portarsi avanti. Quando i motori erano accesi era chiaro quale parte del corridoio fosse il pavimento e quale il soffitto: questo era attrezzato con delle luci circolari giallo-bianche fissate a intervalli regolari. In mezzo c'erano delle minuscole lampade arancioni, molto più fioche, che Clete interpretò come illuminazione di emergenza.

I pavimenti erano coperti da — be', all'inizio Clete pensò che si trattasse di un tappeto, ma quando ci premette contro la mano per spingersi avanti si rese conto che era una specie di pianta, con le foglie viola. Non era erba; piuttosto, sembrava una soffice trapunta. A Clete vennero in mente diverse possibilità: che il rivestimento di piante succhiasse il biossido di carbonio, o qualche altro gas di scarico, e lo reintegrasse con l'ossigeno; che fosse una risorsa alimentare per i Tosok; oppure che semplicemente a loro piacesse la sensazione di camminarci sopra a piedi nudi. Anche se non riteneva di capire ancora molto della psicologia dei Tosok, qualunque cosa li avesse aiutati in un viaggio plurisecolare era sicuramente utile.

Arrivarono finalmente alla stanza verso cui Hask era diretto. La porta si aprì, e uno sbuffo di condensa li investì, insieme a uno spostamento d'aria così freddo che fece venire a Clete la pelle d'oca. Si augurò di non aver appannato le lenti della sua videocamera.

Dentro la minuscola stanza c'erano altri sei Tosok, agganciati a dei piani speciali e quasi completamente coperti da teli di plastica rossa. C'erano due piani vuoti, senza teli; probabilmente uno era di Hask e l'altro doveva appartenere all'ottavo membro dell'equipaggio, che, secondo quanto Hask aveva detto, era morto. Clete vide che c'erano delle scanalature per le braccia lungo i piani. Clete non capiva se gli altri Tosok fossero sdraiati supini o meno; finora le uniche differenze che aveva notato tra la parte anteriore di Hask e quella posteriore erano l'interno della bocca, il colore degli occhi e la robustezza del braccio anteriore. Ma questi Tosok avevano occhi e bocca chiusi e il braccio che avevano in alto era coperto dai teli.

«Che cosa stanno facendo?» chiese Clete.

«Dormono» disse Hask.

Tutti nello stesso momento? Sicuramente l'equipaggio non faceva turni, e — in quel momento capì — non stavano dormendo da qualche ora. Dormivano da anni — da secoli. Ecco come i Tosok erano riusciti a viaggiare così a lungo: ibernati.

Clete inclinò la videocamera per guardare la stanza. Dei pannelli illuminati erano posizionati su dei piedistalli vicino a ogni piano. Ciascuna aveva sopra diverse tabelle animate, a barre e grafici x-y. Clete pensò che si trattasse di cartelle mediche, per monitorare le condizioni dell'equipaggio ibernato. Uno studio attento avrebbe rivelato molto della fisiologia dei Tosok. Alcuni pannelli avevano inserite delle parti aggiuntive; altri avevano delle prese a tre fori senza nessuna aggiunta. «Accenderò il riscaldamento» disse Hask «e si sveglieranno. Quello — indicò un Tosok molto più scuro di lui — è Kelkad, il capitano di questa nave.»

Non era criogenia — il tipo di congelamento per la sospensione dell'animazione che gli umani avevano a lungo sognato. Sì, faceva freddo — molto sotto lo zero — ma non aveva niente a che fare con lo zero assoluto. Sembrava che i Tosok avessero una capacità naturale di ibernarsi, proprio come facevano molti animali sulla Terra.

Clete indossava dei jeans e una giacca di cotone, e nessuno dei due lo isolava sufficientemente dal freddo. Guardò in giro per la stanza, gustandosi ancora l'assenza di peso. Trovava affascinante ogni dettaglio dell'ingegneria dei Tosok. Gli unici punti in cui vedeva delle serrature era dove chiaramente dovevano essere aperte per la manutenzione, come le cinture che fissavano i supporti dei sedili nella capsula di atterraggio. Tutto il resto sembrava fosse stato modellato in un unico pezzo, soprattutto di ceramica, anche se in qualche punto era visibile del metallo.

«Possono ibernarsi per secoli senza l'aiuto di attrezzatura o di farmaci?» chiese Clete.

«Sì.»

Clete scosse la testa. «Sai, prima che gli umani andassero nello spazio non eravamo neanche sicuri di poter sopravvivere lì. Dopo tutto, avevamo sempre vissuto sotto la forza di gravità della Terra — sembrava ragionevole che la natura potesse aver usato l'alimentazione a gravità nei nostri sistemi circolatori, in quelli digestivi, o altrove. Ma non era così. Possiamo vivere benissimo a gravità zero. L'unica parte di noi che si basa sulla gravità — il senso dell'equilibrio, che è controllato da fluidi all'interno dei nostri orecchi — semplicemente si interrompe a gravità zero. Per i sognatori come me, questo significava che la nostra razza fosse fatta per andare nello spazio.»

Il traduttore di Hask aveva suonato qualche volta per le parole sconosciute nei commenti di Clete, ma l'alieno aveva chiaramente capito il nocciolo di ciò che l'umano aveva detto. «Pensiero interessante» rispose.

«Ma voi ragazzi» disse Clete «che siete in grado di fermarvi per secoli, che avete questa capacità innata. Sapete alterare la gravità nello spazio, naturalmente, attraverso la forza centrifuga o l'accelerazione costante. Ma non potete fare niente per il tempo che ci vuole per un viaggio interstellare. Con una capacità naturale di sospendere l'animazione, di sicuro ci battete. Forse noi siamo stati programmati per andare nell'orbita planetaria, ma la vostra razza sembra programmata per navigare tra le stelle.»

«Molti dei nostri filosofi sarebbero d'accordo con questa affermazione» disse Hask. Fece una pausa. «Ma non tutti, naturalmente.» Per qualche momento tra i due ci fu silenzio. «Ho fame» disse il Tosok. La cosa non sorprese affatto Clete; per quanto ne sapeva, Hask non aveva mangiato niente dall'ammaraggio della sua capsula. «Ci vorranno diverse ore perché gli altri rinvengano. Hai bisogno di cibo?»

«Ho portato qualcosa con me» disse Clete. «Razioni della Marina. Non è alta cucina, ma serviranno allo scopo.»

«Vieni con me.»

Clete e Hask trascorsero il tempo mangiando e parlando. Clete trovò l'approccio dei Tosok al cibo assolutamente affascinante — per non dire disgustoso — e registrò tutto su videocassetta. Alla fine gli altri Tosok si ripresero abbastanza da lasciare la camera di ibernazione, e per la prima volta — quando si parlarono tra loro — Clete sentì la lingua dei Tosok. Aveva molti suoni simili all'inglese, ma c'era anche uno scoppiettio, un suono secco, e qualcosa che somigliava a due bastoncini di legno battuti l'uno sull'altro. Clete dubitava che un umano potesse parlare quella lingua senza un ausilio meccanico.

Il colore della pelle dei Tosok variava molto. La pelle di Hask era grigio-blu. Uno degli altri era di un colore tra il grigio e il marrone, un altro grigio neutro. Due avevano la pelle azzurra. Uno era blu marino. Kelkad era di un blu un po' più chiaro. Il colore degli occhi sembrava variare moltissimo; solo uno degli altri Tosok aveva tutti e quattro gli occhi dello stesso colore. Chiacchieravano incessantemente, e uno degli alieni era molto interessato a Clete, gli metteva il dito nelle costole, toccava la pelle e i capelli e lo guardava dritto in faccia con due occhi tondi a soli due millimetri di distanza.

Sembrava che Hask stesse facendo un resoconto agli altri. Da quello che Clete vedeva, i gesti non sembravano avere un ruolo significativo nella comunicazione tra Tosok — ma i ciuffi che avevano sulla testa facevano dei movimenti complessi che sembravano aggiungere delle sfumature al linguaggio parlato. Nel monologo di Hask sembrava ripetersi spesso una parola che suonava come kash-bum! Clete si chiese se fosse onomatopeica, magari riferita all'esplosione che doveva aver accompagnato la collisione nella cinta di Kuiper; a quanto sembrava, soltanto Hask e il Tosok che era morto erano rinvenuti in quel momento.

Era difficile dirlo, ma il capitano Kelkad sembrava seccato nei confronti di Hask — il volume della sua voce aumentava più del normale mentre pronunciava le frasi, e il suo ciuffo si muoveva con grande agitazione. Forse, pensò Clete, il capitano alieno pensava che Hask non avesse rispettato la sua autorità stabilendo il primo contatto prima di far rinvenire gli altri, o forse era arrabbiato perché un membro del suo equipaggio era morto.

Finalmente Kelkad si girò per guardare Clete. Disse qualche parola e Hask tradusse. «Kelkad dice che incontrerà i vostri leader ora. Siamo pronti a tornare giù.»

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