Sedeva in una stanza dal pavimento in sabbia sintetica, fine e leggera sotto i suoi piedi nudi e rilucente di sfumature opalescenti. Dalle finestre non si vedevano case, ma un panorama in lenta rotazione della pianura di Khogghut. Un falso: il rumore del traffico filtrava all’interno.
Il suo nome era Duun. Per intero suonava Dana Duun Shtoni no Lughn. Ma Duun bastava per le occasioni di tutti i giorni. Lo chiamavano anche in altri modi: Sey, cioè “generale”, e Mingi, “signore.” O qualcosa di molto simile. Hatani: questo aveva un altro significato. Ma Duun era sufficiente. Ce n’era solo uno. Gli shonunin di tutto il mondo lo sapevano, e lo conoscevano; e quando il campanello suonò ed entrarono per portargli l’alieno, non lo guardarono negli occhi, e non solo a causa delle cicatrici ben visibili. Su metà della faccia, simili ai rami di un albero colpito dal fulmine, la pelliccia presentava delle linee più chiare che gli accartocciavano l’orecchio destro e conferivano alla sua bocca un’espressione di costante ironia, mentre un occhio fissava il vuoto.
Era Duun, di Shanoen. Allungò le mani, una delle quali era segnata da cicatrici quanto la faccia, e prese il contenitore chiuso che gli porgevano, osservando come le loro orecchie si piegavano all’indietro e come giravano la testa per non guardarlo. Non che gli suscitasse orrore: erano medici, e abituati alle deformità. Era per la forza presente in lui: una specie di vento impetuoso che come un’ondata di calore giungeva sulle loro facce.
Eppure, le sue mani furono gentili nel prendere il contenitore.
Se ne andarono, terrificati e dimenticando di salutare.
Con un gesto chiuse la porta alle loro spalle e appoggiò il contenitore sul tavolo. Lo aprì e ne prese la piccola cosa infagottata.
Gli shonunin nascevano senza pelo, ma ben presto si ricoprivano di una peluria argentea che poco dopo si screziava di grigio, e infine diventava una pelliccia nera sugli arti, gli orecchi e il petto. Duun prese l’esserino sulle ginocchia, e tolse la coperta che l’avvolgeva: aveva la pella rosea, priva di peluria come se fosse stato appena scudato, a parte un ciuffo di capelli dal colore indefinibile in cima al cranio. La creatura agitò le membra morbide in deboli contrazioni. Aveva gli occhi chiusi, la faccia piatta e non dissimile da quella di uno shonun; fra le gambe aveva un organo fuori misura, dalla forma curiosa e (dicevano) dalle varie funzioni. La sua bocca si muoveva senza posa storcendo la piccola faccia di qua e di là. Duun lo toccò con i polpastrelli sensibili delle quattro dita della mano sinistra, e delle due che gli rimanevano della destra, esplorando la pelle calda e sensibile della pancia, del torace e degli arti. Con la punta di un artiglio gli abbassò il labbro morbido, per osservargli la bocca: nient’altro che gengive senza denti, poiché era un mammifero. Sempre con l’artiglio sollevò la palpebra di un occhio, lo vide bianco e latteo, azzurro al centro, che si agitava inquieto, con movimenti naturali. Toccò le circonvoluzioni rigide dei piccoli orecchi ed esplorò l’organo che pendeva tra le gambe notando delle reazioni: dunque era sensibile. Questo era interessante. Esaminò i piedi grassocci, senza artigli, un unico cuscinetto fino alle dita. Con il tocco delicato di un solo artiglio aprì una mano che però si richiuse subito a pugno. Aveva cinque dita. La creatura agitò gli arti e un liquido schizzò dall’organo fuori misura bagnando i vestiti di Duun.
Qualsiasi shonun avrebbe avuto un moto di ribrezzo di fronte a una cosa del genere. Ma Duun prese il panno che avvolgeva l’infante e si asciugò con infinita pazienza. Anche gli infanti shonun compivano simili oscenità, seppure con maggiore discrezione. L’essere emise delle grida, deboli e prive di significato, come tutte le grida dei bambini molto piccoli. Duun notò che lottava con una forza minore di quella mostrata dai suoi figli anni prima.
Sapeva come sarebbe stato, una volta cresciuto. Conosceva la sua faccia. Conosceva ogni particolare di quel corpo. Se lo strinse al petto, nella rosa coperta puzzolente, si alzò e andò vicino al rialzo presso il letto, dove c’era il pacco che gli avevano portato quella mattina. Mentre la creatura gli piangeva sommessamente nell’incavo del braccio sinistro, con la mano destra, che usava più disinvoltamente malgrado avesse due sole dita, aprì la scatola e scaldò il latte… non latte di shonun; l’avevano prodotto i medici, sinteticamente.
C’erano dei dati, giunti giorni prima. Duun li aveva imparati a memoria: la creatura piangeva espandendo e contraendo i polmoni come gli infanti shonunin; respirava inoltre l’aria che respiravano gli shonunin e forse un giorno il suo stomaco avrebbe accettato il cibo che mangiavano gli shonunin. I denti sarebbero cresciuti in parte appuntiti come i denti principali di uno shonun, in parte no. Queste le ipotesi formulate dai medici.
— Zitto, zitto — disse, cullandolo fra le braccia. Estrasse dalla scatola la bottiglia calda e infilò il ciuccio nella bocca morbida. La creatura succhiò rumorosamente e si quietò, Duun attraversò la stanza fino al rialzo che aveva lasciato e si sedette a gambe incrociate cullandolo e sussurandogli dolci parole. — Buono, buono.
I piccoli occhi si chiusero soddisfatti e l’esserino si addormentò di nuovo, sazio e fra le braccia di Duun. Non era possibile, come con uno shonun, dare per scontato che dormisse. Lo sollevò con delicatezza, appoggiandolo nel cavo del letto e gli si sedette vicino. Restò immobile a osservare i movimenti e il sollevarsi regolare del pancino rotondo. Quando la vista delle finestre cambiò trasformandosi in un mare notturno, osservava ancora.
Non avrebbe più smesso di guardare. Non si lavò. Era schizzinoso, ma ispirò tutto l’odore del bambino, del panno sporco e del cibo. Senza fastidio: si era abituato a reprimere il disgusto.
I medici rimasero costernati quando entrarono, per esaminare l’infante e riportarlo nella stanza in fondo al corridoio dove ne avrebbero controllato il peso e le condizioni. Duun li seguì offendendo le loro narici con la sua puzza.
Mai una volta, mentre facevano gli esami, osarono guardarlo negli occhi, preferendo persino la faccia dell’alieno al rischio d’incontrare lo sguardo gelido che egli rivolgeva a loro e alle loro azioni.
Pesarono il bambino, gli ascoltarono il respiro, chiesero a bassa voce (senza mai guardarlo direttamente) se c’erano state delle difficoltà.
— Duun-hatani, potete riposarvi — disse il capo dei medici il secondo giorno in cui vennero a prendere il bambino. — È un lavoro di routine. Non c’è bisogno. Potreste anche…
— No — disse Duun.
— C’è…
— No.
Seguì un silenzio imbarazzante.
Per giorni Duun li guardò nel corso delle analisi senza mai rispondere alle loro domande. Ma quando il capo dell’equipe gli lanciò un’occhiata preoccupata e interrogativa, e subito dopo trovò qualcos’altro di cui occuparsi, per la prima volta Duun sorrise: era un sorriso che si accordava con lo sguardo.
— Li spaventi, Duun — disse il capo divisione.
Duun si allontanò dalla scrivania dove sedeva Ellud, guardò le false finestre che mostravano un paesaggio nevoso. Del ghiaccio si era formato sui rami di un albero protesi sopra una sorgente calda. Il sole scintillava sui rami ingioiellati e il vapore si sollevava a spire. Duun si voltò a guardare tenendo il pollice della mano mutilata intrecciato dietro la schiena con quello della mano sana e scoprì un altro shonun; sembrava che stesse studiando qualcosa, che si trovava appena dietro le sue spalle.
Ma forse era solo un effetto della luce solare, o di qualcosa del genere.
— È in ottima salute — disse Duun.
— Duun, i medici…
— I medici fanno il loro lavoro. — Neppure una volta gli occhi di Ellud si erano fissati veramente su di lui. Duun tirò un profondo respiro. — Voglio Sheon.
— Duun…
— Sheon appartiene a Duun, non è vero? Ti dico che è così.
— La sicurezza a Sheon…
— Puzzo. Te ne sei accorto, Ellud?
Una lunga pausa. — La tenuta…
— Mi hai offerto qualunque cosa. Non è questo che hai detto? Qualsiasi cooperazione? C’è forse al mondo uno shonun capace d’impedirmi qualcosa? Se volessi una donna, se volessi un uomo, se volessi denaro, o un tuo parente prossimo, Ellud… se volessi che il presidente se ne andasse nudo, e il tesoro per me…
— Sei hatani. Non lo faresti mai.
Duun guardò nuovamente la falsa sorgente che ribolliva nei suoi vapori invernali. — Dei! Ma tu hai fiducia in me!
— Sei hatani.
Duun lo guardò con occhi per la prima volta limpidi, da anni. Ma neppure questo riuscì a trattenere lo sguardo di Ellud.
— Ti prego, Ellud. Ho bisogno di pregarti? Dammi Sheon.
— Ci si sono stabiliti dei coloni. Hanno acquisito il diritto di proprietà, ormai.
— Falli spostare. Voglio la casa. Le colline. La mia “privacy”. Avanti, Ellud… vuoi che mi accampi nel tuo ufficio?
Ellud non voleva. Erano stati amici. Un tempo. Adesso Duun vide rabbassarsi guardingo delle orecchie. Come per vergogna. Come uno che corre un rischio che desidera correre. A qualsiasi costo.
— L’avrai — disse Ellud senza guardarlo. Gli artigli di Ellud si allungarono un po’, scostando dei fogli, mentre guardava distrattamente la scrivania. — Ci penserò io.
— Grazie.
Questo spinse Ellud ad alzare lo sguardo. Un’occhiata ferita. Era spaventato come gli altri. L’agonia di un’amicizia.
Di lealtà ferita.
— Lascia perdere — aggiunse Ellud, contro il suo interesse, contro ogni interesse. La lealtà ebbe un sussultò per quanto tardi.
— No. — Per un momento, si guardarono negli occhi, senza tirarsi indietro, né da una parte né dall’altra. Duun ricordò Ellud sotto il fuoco. Un uomo calmo, freddo. Ma alla fine gli occhi si spostarono, e qualcosa si ruppe.
L’ultima cosa.
Duun uscì, più libero, perché non rimaneva nulla. Neppure Ellud.
Solo il dolore. E si avvolse attorno quella solitudine, trovandola appropriata.
Arrivò alle colline di Sheon al mattino. Un vero mattino con il sole che si alzava rosa e oro dal crinale mentre il vento soffiava su di lui, in quella radura erbosa. Era il vento della sua infanzia, che ora gli sferzava il mantello, il mantello grigio di hatani, in cui erano avvolti lui e il bambino. L’attendente di Ellud mostrava segni di disagio, lì sulla strada polverosa che conduceva alle colline, mentre l’elicottero che li aveva condotti lì, se ne stava immobile e silenzioso in mezzo al campo. Le orecchie dell’attendente erano appiattite per il vento, che scompigliava la sua cresta ben tagliata e le pieghe ordinate del kilt. Il vento era freddo per un abitante della città, per un manomolle come lui. — È tutto a posto — disse Duun. — Te l’ho detto. Non c’è altra strada per salire che questa. Non devi aspettare qui.
L’attendente girò la testa verso i contadini che si erano radunati appena fuori portata di voce, in gruppi e in famiglie, incuranti del freddo. L’attendente avanzò verso la folla, agitando le braccia.
— Andatevene, andateyene, il mingi non ha bisogno di voi. Sciocchi — aggiunse voltandosi, perché si erano allontanati solo di pochi passi. Si chinò, raccolse dal bordo della strada il poco bagaglio e si mise la sacca sulle spalle. — Hatani, vi accompagnerò io.
Fu una sorpresa. Gli occhi dell’attendente e di Duun s’incontrarono con franchezza. Ellud sceglieva giovani come quello, riconoscendo i migliori e i più onesti. Per un momento a Duun parve che il sole splendesse su di lui in pieno, o forse era il profumo del vento vero, con l’odore dell’erba e di pulito. Di colpo sentì un moto del cuore verso quel giovane.
Ma fece un sorriso, da vecchio soldato qual era, e guardò la strada che portava in alto; questa volta era stato lui a distogliere gli occhi dall’innocenza e dall’adorazione del giovane. — Dammi la sacca — disse, e presala all’istante dalle mani del giovane, se la mise alla spalla destra. Il bambino lo teneva col braccio sinistro; era caldo e si muoveva sotto il mantello, strofinandosi fra le fasce come un vermetto.
— Ma hatani…
— Tu non vieni. Non ho bisogno di te.
S’incamminò.
— Hatani…
Non si voltò. Non guardò la gente delle montagne, che si era raccolta sulla strada, vicino all’elicottero. Alcuni di loro erano stati scacciati, ne era certo. Altri avevano ottenuto quelle terre quando lui aveva rinunciato, e adesso ne venivano bruscamente allontanati. Sentiva i loro occhi su di sé, i loro mormorii, nulla di definito.
— Hatani — sentì. E: — Alieno. — Non avevano bisogno di mormorare. Sentiva i loro occhi che cercavano di penetrare nel mantello. Erano tutti meravigliati per il suo aspetto fisico, e altrettanto per la creatura che portava con sé. “Hatani.” C’era rispetto in quella parola. — Cosa gli è successo alla faccia? — chiese un bambino.
— Taci — disse un adulto. E ci fu un silenzio improvviso, imbarazzato. Era un bambino. Non aveva ancora imparato cos’erano le cicatrici. Era solo franchezza.
Duun non li guardò. Non gli importava. Era hatani, colui che aveva rinunciato. Teneva le armi a portata di mano sotto il mantello e chiedeva una sola cosa al mondo: quelle colline, quel posto.
Un po’ di pace.
Che un hatani li scacciasse… I contadini di Sheon avevano senza dubbio creduto che il possesso di quei fondi ormai fosse fuori discussione. La terra era incolta, la casa vuota, e dopo dieci anni dalla rinuncia dovevano appartenere a loro, per legge.
Ma era come aveva detto a Ellud: non c’era nulla che non potesse chiedere e ottenere, nulla al mondo.
Sentiva i loro occhi. Forse si aspettavano che lui parlasse. Forse si aspettavano che mostrasse comprensione, che dicesse qualcosa per rassicurarli.
Ma lui tirò dritto passando al loro fianco, lungo la strada, la strada polverosa che conduceva verso l’alto, alla casa fabbricata con pietre del luogo e nascosta in mezzo alle colline.
Sentì l’elicottero alzarsi in volo. Si allontanò con piccoli colpi, come battiti di cuore, che echeggiavano dai fianchi delle montagne. Era andato e venuto spesso, la sera prima e nei tre giorni precedenti, insieme ad altri, portando provviste, equipaggiamenti speciali, e tutte quelle cose che rendevano soddisfatto Ellud e quelli della sua razza.
Stupidaggini.
Si preparò interiormente. Sapeva che Sheon doveva essere cambiata. Fece appello alla sua risolutezza, in questa come in altre cose. Aveva bisogno di virtù. La creò nell’abnegazione. La creò nell’indifferenza, quando arrivò, a mezzogiorno preciso, in cima alle colline e scoprì quello che i contadini avevano fatto a Sheon, e che si era immaginato: una distesa di nuovi edifici in pietra che distruggevano la bellezza di un tempo, quando Sheon appariva indistinguibile dalla roccia vivente della montagna che la fiancheggiava. Adesso la casa si stendeva senza arte, utilitaristica, con il cortile intorno sgombro e polveroso. Non ne fu sgomentato.
Solo quando entrò e scoprì che cosa avevano fatto Ellud e i suoi uomini… questo, questo davvero lo afflisse. Non c’era traccia del disordine che si aspettava di trovare (diverso rispetto al tempo della sua infanzia, di cui ricordava le pietre accuratamente lucidate, le sale ampie e i giardini di sabbia dove il vento tracciava disegni), tutto era in perfetto ordine: il governo aveva imposto la sterilità, aveva dipinto le pareti di pietra, coperto di sabbia bianca, non rossa, i pavimenti, installato una nuova cucina, nuovi mobili, con spese non indifferenti; e dovunque regnava un odore pungente di fissativi, pittura e sabbia cotta da poco.
Rimase lì fermo, in quel luogo pulito e sterile, stivato di provviste e arredato di mobili nuovi giunti dalla città.
Per il bambino. Naturalmente, per il bambino. I medici temevano per la sua salute e volevano igiene.
E distruggevano, distruggevano.
Rimase lì per lungo tempo, nel dolore. Il bambino si agitò e cominciò a piangere. Sebbene in collera, Duun fu molto delicato con lui, delicato come sempre. Frugò negli armadi alla ricerca di panni puliti; trovò la culla e la preparò…
Il bambino si sporcò. Duun lo sentì piangere e avvertì nell’aria una puzza più forte dell’odore di pittura e di quello secco della sabbia.
Lo appoggiò sulla sabbia; si tolse il mantello e appoggiò le armi su un rialzo vicino al focolare. Lo ascoltò gridare. Era cresciuto. La voce era più forte e più roca, la faccia contorta dalla rabbia.
Prese dei panni, li bagnò, s’inginocchiò e pulì gli escrementi con la più assoluta pazienza; fece scaldare il latte sintetico e glielo diede, finché il bimbo non si addormentò. Poi si aggirò senza scopo nelle sale, odorando la puzza che il bambino aveva lasciato su di lui, e la puzza del nuovo intonaco, della nuova pittura e dei nuovi mobili.
Aveva corso a piedi nudi in quelle sale, aveva riso, aveva giocato con una decina di fratelli, sorelle e cugini, e si era rotolato sul pavimento di sabbia. Ogni volta fino all’arrivo di qualche adulto esasperato che li buttava fuori, in un cortile ombreggiato da diversi alberi.
Ora gli alberi non c’erano più. La nuova ala era sorta proprio dove un tempo c’era l’albero più vecchio. Davvero un bel ritorno a casa.
Accese il fuoco. Quello almeno non era stato toccato; così come le vecchie pietre del camino presso cui sedeva da piccolo. C’erano resti di costruzioni in legno e di recinzioni, in un mucchio vicino alle rocce: li usò per il fuoco, bruciando ricordi di casa altrui.
Portò fuori il bambino, coperto bene per via del freddo; lo portò in giro con sé per casa, in cucina, infine davanti al fuoco; si sedette sulla sabbia pulita e profonda, davanti al focolare, e tenne il bambino in grembo.
Si era abituato a lui. La faccia piatta e rotonda non lo disturbava più e l’odore del bimbo era indistinguibile dal suo, formato com’era dalla mescolanza dei loro due sudori. Occhi di demone lo guardarono. La faccia fece alcune smorfie prive di significato per entrambi nella luce ondeggiante del fuoco, delle fiamme che balzavano.
Gli prese delicatamente la testa fra le mani, con quella sana e con quella mutilata, come se il cranio fosse fatto di guscio d’uovo, anziché di materia ossea. Duun sorrise mostrando i denti e fissò gli occhi che forse lo vedevano, forse no.
— Wei-na-ya — cantò — wei-na-mei — con una voce rauca e maschile, non adatta alle ninnenanne: uccellino, pesciolino… la casa aveva già sentito quella canzone. — Hei sa si-lan-nei… — Non andartene. Il vento è freddo, l’acqua cupa, ma qui è caldo. - Wei-na-ya, wei-na-mei.
Cantò anche “Sha-khe’a”, una canzone hatani, ma a bassa voce, come se fosse una ninnananna.
Era un canto di morte. Lo cantò come una ninnananna. Sorrise al bambino.
— Tu sei Haras — disse alla spaventosa faccia di demone i cui occhi sembravano due fessure con al centro una nuvola temporalesca. Duun gli parlava in sadoth, la lingua dei suoi antenati abitatori delle colline. — Tu sei Haras. Thorn è il tuo nome.
Il bambino lo guardò con aria solenne.
Senza timore.
Poi agitò le mani. Haras. Thorn. Il vento ululava attorno alla casa e sibilava nel camino dove faceva ondeggiare le fiamme.
Duun sorrise, cullò il bambino e fece una cosa che ai contadini, ai medici e a Ellud nel suo bell’appartamento di città avrebbe senz’altro fatto gelare il sangue nelle vene.
Lo tenne come se fosse un bambino shonun e gli lavò gli occhi con la lingua (sapevano di sale e di muffa). Non si risparmiò nulla, non c’era alcuna ripugnanza che non superasse. Tale era la sua sopportazione.