7

Erano cinque: Elanhen, un giovane con dei puntini neri sulla pelliccia grigia della schiena, le spalle larghe, gli occhi cauti rivolti verso il mondo e un sorriso pronto e diffidente; era il primo e il più affabile di maniere (il più saggio, pensò Thorn: le maniere sono tutto ciò che lui offre al mondo; tutto il resto lo tiene per sé.) C’era Cloen, un tipo piccolo, con delle chiazze sulla pancia. (“Non parlarne”, lo avvertì Duun, quando Thorn gli descrisse Cloen in quella maniera. “Ha ancora i segni da bambino.”) Cloen era quello meno espansivo e il più pronto ad aggrottare la fronte. (Ha una ferita, pensò Thorn. Sanguina nell’acqua. Cloen sarebbe un bersaglio facile, se gli fossi dietro.)

E Sphitti: esile e arruffato. Aveva il nome di un’erbaccia, come Thorn. Sphitti sedeva e pensava, pensava e parlava pochissimo.

Infine c’era Betan… una femmina; si muoveva con passo ancheggiante, aveva il sorriso sempre pronto e un’intelligenza più rapida di quella degli altri. Betan aveva un odore diverso; arricciava il naso verso di lui e sorrideva, guardandolo come nessuno l’aveva mai guardato; e questo lo spaventava. (Sicura di sé. Lei sa. Sa cose che io non so, sa di saperle e sa di potermi prendere.) Se Duun l’avesse guardato in quel modo e avesse riso dentro di sé come faceva Betan, Thorn si sarebbe gelato fino alle punte dei piedi. Non avrebbe mangiato e bevuto niente di ciò che poteva essere stato toccato da Duun e non avrebbe osato dormire nel suo letto. Che una persona estranea lo guardasse in quel modo, era di un fascino fatale. Rimase fermo a guardarla, la prima volta che s’incontrarono, facendo una faccia il più possibile immobile e inespressiva.

(Non conoscono le mosse, aveva detto Duun. Ma Duun aveva mentito altre volte.)

S’incontrarono, tutti e cinque, in una stanza, al piano sopra a quello in cui abitava con Duun. — Entra — disse Duun accompagnandolo alla porta d’ingresso piantonata da una guardia. Fece per lasciarlo, e questo riempì Thorn di panico. — Comportati bene. — Duun non disse: “ricordati di quello che ti ho detto”. Era quello che Duun non diceva che sempre gli pesava di più. Thorn doveva ricordarsi quelle cose senza che fosse necessario dirgliele. — Sì, Duun — aveva detto Thorn, e si affidò a se stesso, mentre la guardia apriva la porta e lo faceva entrare. Il tocco della mano di Duun sulla sua schiena era un congedo, non una spinta.

Quattro estranei si alzarono dalle loro sedie quando entrò: quattro estranei il cui odore mescolato era artificio e fiori insieme, in una stanza grande come la palestra, con il pavimento di sabbia bianca. C’erano cinque scrivanie, e le finestre, in quella bianca sterilità, mostravano boschi simili a quelli attorno a Sheon, un intrico per gli occhi e per la mente. Avrebbe odorato di paura per loro. Si fermò. — Salve — disse quello che avrebbe conosciuto poi come Elanhen. — Salve — rispose Thorn, assumendo l’espressione migliore che poteva, l’espressione che aveva visto sulla faccia di Duun quando incontrava i medici. — Sono Haras. — Per gli estranei era Haras, il suo nome hatani. Gli dissero i loro nomi, tanto per cominciare. — Siamo un gruppo di studio — aggiunse Elanhen. — Dicono che tu sei bravo.

Avrebbe potuto avere la pelliccia come loro, e quattro dita, e orecchie e occhi come i loro. (Sono diverso. Mi hanno sparato a Sheon. Non siete colpiti, almeno un po’?) Ma nessuno fece mostra di accorgersene.

(Duun, pensò Thorn, li conosce. Duun ha preparato tutto quanto.) Sentì le pareti di una trappola intorno a lui. Lasciò che lo facessero sedere sulla scrivania che sarebbe stata sua, e che gli mostrassero il computer. — Devi metterti alla pari con noi — disse Elanhen. — Siediti, Haras-hatani.

Thorn si sedette. Si mise la tastiera sulle ginocchia e provò. Aveva delle difficoltà con i tasti, ma non con la matematica. Una volta sbagliò completamente, e si vergognò; guardò Sphitti, aspettandosi del disprezzo.

— Riprova — disse Sphitti, senza rancore. — Riprova dall’inizio.

Gli altri lo guardavano. Thorn si concentrò, ricordò le istruzioni di Sphitti e questa volta fece tutto giusto.

— Bene — disse Betan, e Thorn la osservò guardingo. Bene non era una parola così facile da vincere. Sospettò che facesse dell’ironia.

(Cosa hanno in mente, quando lo faranno? A che gioco stanno giocando?)

Cercò di non fare errori. Ascoltò quello che gli dicevano e se lo tenne a mente.


Duun non fece parola della scuola il giorno seguente, né il successivo. (Quando si muoverà?) Thorn dormiva con un occhio aperto, aveva paura del cibo e mangiava facendo grande attenzione ai sapori. (Non mi avvertirà la prossima volta. No. Si muoverà. Come? E quando?) Una sensazione di panico si era impossessata di lui e qualcosa gli scivolava fra le mani. Avvertiva la possibilità che Duun stesso potesse andarsene, adesso che c’erano altre persone a prendersi cura di lui.

(Di cosa hai bisogno, Haras-hatani?)

Avrebbe potuto svegliarsi, una mattina, e scoprire che Duun se n’era andato, solo perché Duun sapeva quanto disperatamente avesse bisogno di lui. E avere bisogno di lui era sbagliato.

Forse Duun aspettava qualcosa. (Che sia io ad attaccarlo, questa volta, a cominciare…) Ma Thorn avrebbe perso; gli eventi l’avevano provato. E coltivava un sospetto ancora più terribile: che se anche non fosse stato così, avrebbe perso ugualmente… Duun non tollerava la sconfitta. Duun se ne sarebbe andato. E lui sarebbe rimasto solo, alla fine, completamente solo fra i medici e gli estranei che gli avevano affibbiato. Perciò desiderava solo rimanere com’era, per sempre. E non dispiacere a Duun: due cose che si escludevano a vicenda. Seduto sul rialzo, suonò il dkin per Duun. (“Siamo in città”, aveva detto Duun, “e la gente in città usa il pavimento solo per camminarci sopra.” A Thorn sembrava una cosa irragionevole. Gli piaceva il calore della sabbia e la possibilità di modellarla come voleva lui. Ma Duun l’aveva detto; e lui faceva come Duun diceva.) Suonò le canzoni che conosceva e Duun gliene suonò altre. Thorn si sentì meglio nel vedere che in questo non c’erano cambiamenti, e Duun sorrise.

Un giorno ho percorso una strada

che non avevo mai conosciuto;

un giorno ho trovato un sentiero

che non avevo mai visto.

Ho camminato per le colline

ho attraversato la valle,

e ho incontrato un uomo furbo

che nessuna canzone può descrivere.

Non ho mai incontrato un uomo

come lui:

non riuscirò mai a dire

quant’era diverso e uguale a me.

Quest’uomo incontrai quel giorno.

Aveva la mia faccia, aveva i miei occhi,

aveva il mio modo di fare, davvero.

Che sciocco sei, mi disse,

e mi cantò la canzone

che vi ho appena cantato.

Thorn si mise a ridere quando Duun ebbe finito. Duun sorrise e regolò una corda. — Dallo a me — disse Thorn.

— Ah, non c’è rivincita. Il mio repertorio è infinito. — Il labbro con la cicatrice si contrasse: gli succedeva quando sorrideva così. — Maledizione. — La corda si era rotta. Thorn ebbe un sobbalzo. — Era vecchia — osservò Duun. — Domani me ne procurerò un’altra. — Gli diede il dkin per metterlo via; Thorn prese lo strumento e lo mise con cura nella sua custodia. — Vai a dormire — disse Duun.

— Sì — disse Thorn. E si girò con le ginocchia sul rialzo, perché Duun si era alzato e gli era venuto alle spalle, e Thorn era diffidente. Alzò gli occhi. Duun lo fissò a lungo, poi si voltò e si allontanò. Il silenzio lasciò una sensazione di freddo addosso a Thorn. Chiuse la custodia.

(Stava pensando qualcosa. Stava progettando qualcosa. Voleva farmelo capire. Dei, cosa?)

Duun si fermò sulla soglia. Si voltò a guardare e proseguì.

(Aspetta che io faccia… cosa?)

(Duun fa mai qualcosa senza ragione? Fa mai la più piccola mossa senza ragione?)

(Ho paura di questa gente. Lo sa?)


Una confusione di luce bianca e di sabbia bianca… La palestra roteò e la sabbia incontrò la schiena di Thorn; rotolò su se stesso e si rimise in piedi, con le luci che gli esplodevano negli occhi.

— Ancora — disse Duun.

Il ginocchio sinistro di Thorn cedette e la gamba si piegò. Cadde sulle ginocchia con una scossa, sentendo le escoriazioni. La scivolata si era fatta sentire anche sulle spalle. Il sudore gli bruciava, lì. Alzò una mano, facendo segno di aspettare fino a quando lo stordimento non fosse passato.

Duun gli si avvicinò e gli prese la faccia fra le mani, gli sollevò le palpebre e gli tastò il cranio.

— Ancora — disse Thorn. Duun gli lasciò andare la testa con una violenza che lo fece ondeggiare, gli diede una pacca sull’orecchio e indietreggiò.

Thorn si rimise in piedi e rimase a gambe larghe, vacillante.

— Non hai imparato ancora tutto, pesciolino. Avanti, più adagio. Un poco alla volta, di nuovo.

Thorn venne avanti, allungò la mano, nella lenta danza che Duun voleva, si girò e rigirò finendo nuovamente contro il braccio di Duun, che si era mosso altrettanto adagio.

— Così si fa. Fallo, pesciolino.

C’era una contromossa. Arrivò contro la cassa toracica di Thorn, al rallentatore, e lui ne evitò la forza simulata. Il sudore gli volò dai capelli e bagnò la sabbia, mentre ritraeva sinuosamente il suo corpo. Duun lo affrontò, con le mani sulle ginocchia. Duun non sudava. La lingua ogni tanto gli ciondolava dalla bocca che si apriva mostrando i denti aguzzi. E con un guizzo la lingua raccoglieva la saliva. Duun si chinò, invitandolo ad attaccare. — Adagio, Thorn. Ho ancora dei trucchi in serbo.

Thorn aveva creduto di conoscerli. La luce che vide negli occhi di Duun lo allarmò: non aveva mai visto Duun impegnarsi al massimo contro di lui. Se ne rendeva pienamente conto.

La mano di Duun si allungò di scatto e lo toccò sulla guancia, quando lui venne avanti. — Sei morto. Morto, Haras-hatani.

Thorn si asciugò la faccia. La sua concentrazione era sparita. La recuperò. (Non farti ingannare. Scaccia la paura. Scacciala, pesciolino.)

Duun lo afferrò e lo piegò indietro, senza farlo cadere. Lo lasciò andare e Thorn si salvò dalla vergogna rimettendosi in piedi con una capriola. Sulla sua pelle sudata c’era appiccicata la sabbia.

Duun gli voltò le spalle e si allontanò.

— Duun. Duun-hatani. — La faccia gli bruciava.

Duun si voltò. — Non hai bisogno di dire non posso. Sei questo. Il mondo non aspetta i tuoi umori, pesciolino.

Mettimi alla prova!

Duun tornò indietro e lo stese subito sulla sabbia. Poi rimase a guardarlo. — Bene, non è stato un non posso che ti ha steso, questa volta. Ti ho forse promesso un miracolo?

Thorn rotolò e cercò di fargli lo sgambetto.

Questa volta finì a pancia in giù, sputando la sabbia che gli si era attaccata alla faccia, alle mani e al corpo; aveva il ginocchio di Duun sulla schiena, e il braccio ritorto dolorosamente. Duun lo lasciò andare e si sedette sulla sabbia.

(Un invito?) Ma Duun alzò la mano. — No — disse. — Non sarebbe saggio.

Thorn sapeva dove l’avrebbe portato l’attacco: nella stretta di Duun, se si fosse rifiutato di volare sopra la sua testa. E con i suoi denti alla gola. “Mai attaccarmi corpo a corpo”, gli aveva detto e ripetuto Duun. “La natura ti ha fatto più piccolo.” E Duun quel giorno aveva sorriso, per sottolineare l’affermazione.

Thorn si sedette, abbracciandosi le ginocchia. Il sudore gli scendeva negli occhi. Si passò una mano sporca di sabbia sulla fronte, piegò le dita e le mostrò.

— Stai tirando fuori gli artigli, Duun-hatani. — Il dolore gli si gonfiava dentro, riempiendogli il petto: e non era solo il dolore di varie cadute sul pavimento. — Avresti potuto farmi a pezzi. Avresti potuto squarciarmi la gola. Qualunque persona normale… l’avrebbe fatto.

— Gli occhi — gli ricordò Duun, toccandosi l’occhio sul quale il sopracciglio sporgente gettava ombra. — È l’errore peggiore. Hai lasciato che ti arrivassi alla faccia. Non farlo mai.

— Mi dispiace, Duun.

— Non saresti dispiaciuto. Saresti cieco. Certo che li tiro fuori. Fallo ancora e ti lascerò la cicatrice. Capito?

Thorn si chinò in una specie di inchino. Sentì male. Le ossa gli dolevano come se fossero state tutte spostate.

— Sì, Duun.

— Riguardo agli artigli… potrebbero ferirti se ti toccassero. Se tu facessi lo sciocco. Io sono molto bravo, Thorn. Questo non ti dice qualcosa?

Thorn non rispose subito. Il dolore gli era arrivato alla gola, e rimaneva lì, fastidioso. — Che potrei anche farlo.

— Mi hai toccato?

— No, Duun-hatani.

— Ho sentito non posso questa volta?

— No, Duun-hatani.

— Hai in testa quegli estranei. Le loro mosse ti hanno infettato. Lasci che ti tocchino?

— Si toccano l’un l’altro. Non me.

— E invece, sì che ti toccano… qui. — Duun si appoggiò un dito sulla fronte. — Hai perso la concentrazione. La giovinezza, Thorn: rinuncia anche a quella.

Thorn tirò un altro doloroso sospiro. (Sono tuoi. Non è così? Un hatani decide le mosse che gli altri fanno… Duun-hatani.) — Cosa possono insegnarmi che tu non puoi?

— Ciò che è ordinario. Ciò che è il mondo.

(Il mondo è grande, pesciolino.)

— Duun… loro si comportano come se io non fossi niente di speciale.

Duun alzò le spalle.

— Mentono, vero?

— Cosa ti detta il tuo giudizio?

— Che mentono. Fingono. Tu li hai mandati. Tu controlli tutto.

— Tkkssss. Hai una mente sospettosa, Haras-hatani.

— Tu l’hai sempre avuta. Sto forse per batterti in questo? Nessuno è come me. Non c’è nessun altro. Io sono diverso. E loro si danno tanto da fare per non notarlo, che lo gridano. Perché, Duun?

— Fai castelli in aria.

Sulla roccia. Su ciò che vedo e non vedo. — I muscoli di Thorn cominciarono a tremare; strinse allora le braccia attorno alle ginocchia, ancora più forte, per non mostrare il tremito. Ma Duun avrebbe visto ugualmente: a lui non sfuggiva nulla. — Cosa non va in me? Come sono? Perché sono così?

— Senza dubbio sono stati gli dei.

L’irriverenza lo inorridì, anche perché veniva dalla bocca di Duun. Replicò con un’altra bestialità: — Gli dei hanno il senso dell’umorismo?

Duun tirò indietro le orecchie. — Ne parleremo più tardi.

— Non mi darai mai una risposta. Vero?

Ci fu un lungo silenzio. Sì e no oscillarono sul filo di una lama. Per la prima volta Thorn sentì che Duun era vicino a rispondergli: sarebbe bastato un filo d’aria per fare pendere la bilancia da una parte. Trattenne quel fiato; finché non sentì male ai fianchi.

— No — disse Duun. — Non ancora.


— È intelligente — ammise Ellud. Duun si afferrò le caviglie incrociate, e gli restituì un’occhiata impassibile. — Ho mai detto di no? — chiese. — Cos’altro dicono i tuoi agenti?

Ellud appiattì le orecchie. — Ma se li ho messi a tua disposizione!

— Avanti, Ellud. Da quante parti guardi contemporaneamente?

Ellud si mosse impacciato dietro la sua scrivania. — Sto schivando pietre, Duun; lo sai.

— Questo lo so. Voglio sapere con chi parli.

— Con il concilio. Il concilio vuole parlargli.

— No.

— Tu dici di no. Loro ricevono un no da te, e vengono alla mia porta. Mi stanno tagliando i rifornimenti: ritardi nelle consegne, pratiche smarrite…

— Non possono essere coincidenze?

— Non a questo ritmo — disse Ellud. Duun ispirò profondamente e raddrizzò la schiena. Ellud alzò una mano. — Ci penserò io, Duun. Sarei venuto da te se non avessi potuto.

— Cosa dice Tshon di me?

Ellud spalancò la bocca. — Duun…

— Non sono offeso. Cosa dice di me?

— Ho detto al concilio che sei del tutto equilibrato. Il suo rapporto è stato un grande vantaggio: per entrambi noi.

Duun sorrise. Con tutto l’orrore che quell’espressione aveva per chi lo guardava; e quando stava con Ellud, era sempre consapevole di questo. — Ho mandato una lettera al concilio. Se vogliono una sanzione hatani da intendersi individualmente, che si scordino il contratto. Il governo l’ha stipulato. E loro se lo devono tenere fino al giorno della mia morte.

— O della sua.

— Mi stai dicendo qualcosa, Ellud?

— Non ricordo di averti detto niente. Giurerei che non ti ho detto niente.

Alcune cose disturbavano la concentrazione di Duun: questa era una. Ellud sedeva immobile, con le mani abbandonate in grembo e gli occhi nei suoi occhi.

— Se ci fosse un incidente — disse Duun.

— Non so come potrebbe capitare. È hatani, hai detto. Non sarebbe facile. Duun… devi capire, non è solo il concilio; ci sono pressioni dell’opinione pubblica. La faccenda di Sheon… è risaputa.

Duun rimase in silenzio. Ellud alzò una mano in un gesto vago e proseguì il discorso. — Hanno chiamato i magistrati, che a loro volta hanno chiamato il capo della provincia nel timore di avere dei guai con la Corporazione e di ritrovarsi invischiati in una questione di hatani… e così la cosa si è gonfiata: certi uffici l’hanno saputa, e alcuni ricchi possidenti, a qualche festa… Sai come succede? Insomma la faccenda ha finito con l’attirare l’interesse di certi uomini politici. E il successore di Rothen…

— Shbit.

— Shbit. Esatto… vuole giocare al politico: con la scusa che la faccenda è degenerata. — Ellud fece un gesto d’impotenza. — Duun, per quanto sia difficile pensare che qualcuno sia tanto ottuso da…

— Non lo trovo affatto difficile. Comprendo molto bene la venalità. È la stupidità. Il domani non arriva, e una pietra scagliata in alto non torna giù. Per essere uno che ha rinunciato, sono un uomo molto pratico, Ellud. Ricordalo.

— Sì che me lo ricordo. Duun, per l’amore degli dei… stanno cercando di mettersi fra te e le Corporazioni. Lo sai come faranno. Stanno cercando di rallentare il lavoro del mio ufficio con intralci burocratici. Vogliono le prove di una prevaricazione: per questo faccio tutto in duplice copia. Fortunatamente per me li ho colti con le mani nel sacco, e se dovesse accadere qualcosa potrei portarli davanti alla Corporazione, senza problemi.

— Saggio.

— La gente ha paura, Duun.

— Continua a sorvegliare l’ingresso posteriore. A quello davanti ci penso io.

— Per amore degli dei…

Duun gli rivolse un’occhiata fredda. — Chiamare Shbit risolverebbe la faccenda.

— Non riusciresti a raggiungerlo.

— Davvero? — Duun strinse le labbra e respirò quell’aria che puzzava di politica. — Staremo a vedere — disse, sentendo il suo cuore battere più in fretta.

— Dei. No. No. Ho solo bisogno di tempo. Ascolta, Duun: lascia che me ne occupi io, per un po’. Cosa mi succederebbe se la faccenda scoppiasse? Tu hai la Corporazione. Io non ho alcuna protezione. Credi che non possa cavarmela? Me la sono cavata per sedici anni, mentre tu te ne stavi ad ammuffire fra le colline. Per amore degli dei, lascia a me la politica, e dammi quello che mi serve. Hai già abbastanza cose per le mani. Credimi su questo.

Duun aggrottò la fronte. — Ossia?

— Lasciami raccogliere dati. Per un po’.

— La Corporazione sarebbe un’altra risposta. Potrebbe farcela.

— Dei. Non parlerai sul serio.

— Siamo di idee molto larghe.

Le orecchie di Ellud si afflosciarono, in segno di sbigottimento.

— Ci sto lavorando — disse Duun. — Questo te lo posso dire. Ma non è ancora pronto.

— Sai cosa provocherebbe una cosa del genere?

— E sono pronto a prevenirlo.

Ci fu un lungo silenzio. Poi: — I nastri, Duun. Per l’amor del cielo, puoi cominciare? Puoi farlo?

Duun lo fissò, pensandoci. — Sì.


Erano seduti insieme, Elanhen, Betan, Sphitti e Cloen. — Le cose stanno così — disse Elanhen. — Ci hanno sorteggiato insieme. Tutti. Tu sei stato unito al gruppo. Se non impari, il fallimento è di tutti.

— Perdiamo i nostri lavori — disse Betan.

Qual è il vostro lavoro? - chiese Thorn, perché tutto ciò che dicevano lo stupiva.

Le loro facce si avvicinarono alla sua, allora, per dei segreti che non volevano divulgare.


— Hai un problema — disse Betan, chinandosi sulla sua spalla, mentre lui batteva sulla tastiera che teneva in grembo e guardava una finestra, dall’altra parte della stanza, sulla quale delle linee di luce s’intersecavano accendendosi e spegnendosi. — Se questa è la traiettoria, con questa accelerazione dove la intercetterai?

Qualche volta i problemi avevano un senso vago. E qualche volta no.

(Cosa c’è al mondo che si presenta in gruppi di duecentoventiquattro?)

(Stelle, Alberi, Erbe. Le vie di un Fiume. L’ostinazione di un bambino.)

(Posso calcolare la velocità del vento, nominare le stelle, le città del mondo…)

— … in ordine, le particelle…

Betan gli sfiorò il braccio chinandosi su di lui. Lei aveva un odore diverso e nessuna reticenza con lui; non badava affatto a come si chinava. La sua gola era senza difesa, e il corpo, coperto da una pelliccia liscia, le odorava di muschio…

— Esatto — disse Sphitti, mentre si raccoglievano attorno alla sua scrivania, sedendosi sui bordi. — Adesso ecco un’applicazione. Se fossi sospeso in aria, senza attrito né gravità…

(Stanno cercando di incastrarmi.) — Non è possibile.

— Supponiamo di sì.

Betan agitò un orecchio verso di lui. Forse era uno scherzo a sue spese.

— Scrivi — disse Cloen.

— Non ne ho bisogno.

— Lasciamolo fare come preferisce — disse Sphitti. A questo punto doveva fare assolutamente tutto giusto.

— Esatto — disse Elanhen dopo aver ascoltato la risposta.

— Maledetta arroganza hatani — commentò Cloen, senza essere proprio fuori portata di voce, seduto alla propria scrivania in compagnia di Elanhen.

Gli fece male. Thorn non era immune a queste cose.

(Duun, cosa devo fare quando la gente mi insulta? Quando mi odia? Come rispondo, Duun?)

Ma non lo chiese mai ad alta voce. Si vergognava troppo. E pensava di dover trovare una risposta da solo.


— Solo i suoni — disse Betan. — Non importa cosa vuol dire. È un test di memoria. Ascolta il nastro e memorizza i suoni.

— Non sono neanche parole!

— Fai finta che lo siano. Prova. Registra. Ripeti finché non senti alcuna differenza.

Thorn guardò Betan e Sphitti. Due paia di occhi grigi. Si sentì indignato, come se l’avessero architettato loro. Ma non avevano mai scherzato con lui, non durante le lezioni.

S’infilò l’auricolare e ascoltò. Cercò di rifare quel balbettio. (Rideranno. Sembra acqua che scorre.) Li guardò, ma stavano facendo altre cose, con il computer. Tornò al suo lavoro, si mise le mani sugli occhi, e chiuse fuori il mondo.

(Ricordando i giorni sulla veranda di Sheon, i fiori di hiyi…)

Ripeté i rumori del nastro; lo rallentò, lo accelerò e ne memorizzò le sequenze. Era più difficile della fisica di Sphitti. L’auricolare gli faceva dolere le orecchie.

— Ne ho abbastanza — disse, dopo aver registrato i suoni una prima volta, e dopo che loro si furono raccolti attorno per ascoltare. Non avrebbe mai detto una cosa del genere a Duun, ma loro l’accettavano.

— È l’unica cosa che devi fare di mattina — disse Elanhen. — Insisti.

Thorn rimase seduto alla scrivania. Pensava di poterli battere tutti (anche Betan, perché Duun gli aveva fatto credere di essere bravo.)

— Al lavoro — disse Cloen.

— Torno a casa — disse Thorn.

— Non puoi. La porta è chiusa. La guardia non ti lascerebbe passare.

— Zitto, Cloen — disse Betan. — Thorn, fai quello che devi fare. Te lo chiedo per favore.

Thorn guardò cupamente Cloen, e anche Betan. (Ma era piacevole sentirsi dire “per favore”. Nessuno lo faceva. Gli venne in mente che dovevano pensarci a cosa fare se fosse diventato recalcitrante; e che dovevano avere paura di lui (anche Betan) come lui doveva averne di Duun. E questo era un pensiero piacevole.)

Fermò il registratore e ritornò al punto dov’era rimasto. Gli altri si sedettero ai loro posti e lui fece quello che Betan gli aveva chiesto finché l’orecchio e la testa non gli fecero male.

Ma mentre se ne stavano andando, fece in maniera che Cloen lo sfiorasse.

Buttò Cloen contro la parete dell’anticamera con un movimento del braccio. I suoi compagni e la guardia fuori dalla porta rimasero immobili ed esterrefatti, come in un quadro.

— Sono hatani. Toccami ancora una volta e ti romperò il braccio.

Cloen aveva le orecchie abbassate e la bocca spalancata. Si mosse dalla parete e guardò Elanhen. — Non l’ho neppure sfiorato!

Thorn uscì. Una scorta lo accompagnava sempre a casa. Un’idea di Duun. Ordine di Duun. Thorn fece un gesto all’uomo che lo attendeva e si avviò imperterrito senza voltarsi.


— Vai in palestra — disse Duun uscendo dal suo studio; non era nelle consuetudini, ma Thorn andò lo stesso. Poi, tutto a un tratto, si fermò, e Duun lo spinse.

— Mi pare che tu mi abbia colpito — disse Duun, con un’ombra scura negli occhi; e una paura improvvisa inondò Thorn, come acqua ghiacciata. Indietreggiò. No, non aveva colpito Duun. E immediatamente gli venne in mente una cosa: che qualcuno avesse preso il telefono e avesse informato Duun dell’accaduto. — Cosa dovrei fare? — chiese Duun. — Bene, Haras-hatani.

— Mi dispiace, Duun. — Thorn sudava. (Avanti. Vienimi addosso!) La sua concentrazione andò a pezzi. Non osava tirarsi indietro, adesso. Non aveva mai affrontato Duun arrabbiato; non l’aveva mai visto così. (O dei, Duun, non uccidermi!)

— Il coltello, pesciolino. Posalo. Hai sentito. Ti dico di metterlo giù.

Thorn si sentì sbilanciato e ritrovò l’equilibrio sollevando la testa. Rimase lì, con le braccia penzoloni e le ginocchia che gli tremavano.

— Bravo. — Duun gli diede una pacca sulla guancia. — Bravo.

(O dei, Duun, no!)

La punta di un artiglio si mosse delicatamente lungo una guancia, fino alla mandibola. — Voglio parlarti. — La mano afferrò Thorn per un braccio e lo scaraventò barcollante fino al centro della stanza.

— Duun-hatani, mi dispiace!

— Siediti.

Si sedette sulla sabbia appena rastrellata. Duun si accoccolò di fronte a lui.

— Perché ti dispiace? — chiese Duun. — Per Cloen o per me?

— Per te, Duun-hatani. Non avrei dovuto farlo. Mi dispiace. Lui…

— Cos’ha fatto?

— Mi odia. Mi odia, ecco tutto. Ed è astuto, non lo fa vedere.

— Più astuto di te? Haras-hatani, se è così, sono senza parole.

Thorn avvampò in faccia. Guardò la sabbia. — Cloen si sforza di essere astuto. E qualsiasi cosa io faccia, è sprecata con lui.

— Tu sei diverso; proprio come Cloen, con le sue macchie da bambino. E sospetti che tutti se ne accorgano. E vuoi garantirti che tutti ti rispettino. Ho ragione?

— Sì, Duun-hatani.

— Hai bisogno di una cosa, Haras. Lo sai? Sapresti dirmela?

— Non essere diverso.

— A voce più alta.

— Non essere diverso, Duun.

— È stata una cosa ragionevole quella che hai fatto?

— Non mi disprezzerà più!

— E questo è così importante? Cosa possiedi? Cosa possiede un hatani?

— Niente. Niente, Duun.

— Eppure abitiamo in un bel posto. Abbiamo abbastanza da mangiare. Non dobbiamo cacciare…

— Preferirei cacciare.

— Anch’io. Ma perché siamo qui? Siamo qui a causa di quello che tu sei. Non possiedi nulla. Non hai alcun interesse personale. Se questo Cloen ti chiedesse di toglierlo da una difficoltà, tu lo faresti. Non avrebbe alcun diritto di dirti come, dove e quando… ma Cloen è sotto la tua responsabilità. Il mondo è sotto la tua responsabilità. Lo sai. Puoi camminare per le strade, e andare di casa in casa: nessuno ti rifiuterà da bere e da mangiare, e un posto per dormire. E se uno viene da te, per qualche ragione, e dice: aiutami… sai di cosa devi avvertirlo? Lo sai, Haras-hatani? Sai che cosa gli dice un hatani?

— No, Duun-hatani.

— Gli devi dire: “Io sono hatani; ciò che hai perso, non puoi riaverlo; ciò che hai chiesto non puoi riceverlo; ciò che mi accingo a fare è la mia soluzione”. C’era una volta un uomo malvagio che mandò a chiamare un hatani. “Uccidi il mio vicino” disse. “Non è affare di hatani” fu la risposta. L’uomo malvagio trovò un altro hatani. “La mia vita è rovinata. Odio il mio vicino e voglio vederlo morto.” “Questo è un affare di hatani. Lo rimetti nelle mie mani?” “Sì” disse l’uomo malvagio. E l’hatani lo colpì a morte. Capisci la soluzione?

Thorn alzò gli occhi inorridito.

— Capisci? — chiese Duun. — In questo modo, il problema venne risolto, e il mondo fu alleggerito di un peso. Ecco ciò che sei: una soluzione. Un aiuto per il mondo. Vuoi la soluzione per il tuo problema?

Il cuore di Thorn batteva molto in fretta. — Cosa devo fare, Duun-hatani?

— Di’ a Cloen di colpirti una volta. Digli di usare giudizio nel farlo.

Thorn guardò Duun a lungo. Lo stomaco gli faceva male. — Sì — disse.

— Ricorda la lezione. Fai come ti è stato detto. Un giorno sarai saggio abbastanza da risolvere i problemi. Fino ad allora, non crearne. Capito? — Duun allungò il braccio e strinse la spalla di Thorn. — Hai capito?

— Ho capito.

Duun lo lasciò andare.

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