5

— La pagheranno — disse Ellud, che era venuto con i medici. La casa puzzava di bende, disinfettanti, gelatina e sangue. E del disagio di Thorn. Duun incrociò le braccia e fissò le pietre del camino. — Devono pagarla — disse Ellud. — Vero?

C’era una critica implicita. Duun fissò il vecchio amico ma Ellud eluse lo sguardo come aveva fatto sedici anni prima, impiegandoci però più tempo. Questa volta Ellud era arrabbiato: c’era la giustizia offesa. — Qualsiasi cosa — gli ricordò raucamente Duun. — Ma niente accuse.

— Non mi hai lasciato alternative. Ti hanno sparato.

— Davvero? Non ricordo.

— Hanno chiamato il magistrato. Hanno confessato. Sanno quello che hanno fatto.

— Bene. — Duun andò verso la porta chiusa. L’odore dei medicinali offendeva le sue narici. Aveva le orecchie appiattite. Zoppicava e gli facevano male tutti i muscoli. Ellud indossava abiti da città, immacolati, mentre Duun aveva indosso solo un piccolo kilt. Avrebbe potuto portare il mantello hatani. L’aveva invece lasciato appeso: che si vedessero le cicatrici! — Gli parlerò io, Ellud. Nessuna accusa.

— Non possono fare una cosa del genere e cavarsela…

— Perché sono sacrosanto? — Duun si girò verso di lui; le orecchie erano ancora appiattite. — Mi hai promesso qualsiasi cosa, Ellud. Adesso te la chiedo. Nessuna accusa. Restituiscigli Sheon.

— Hanno cercato di ucciderti!

— Quasi ci sono riusciti. Bravi. Niente male, per dei contadini. Devo ora sobbarcarmi anche questo?

Ellud rimase un momento in silenzio. Piegò la bocca in basso.

— Hai quello che dovrebbe farti felice — disse Duun. — Torno in città. Spero che mi troverai un posto.

Ci fu un silenzio ancora più lungo. — Era ora, Duun. Era ora. Manderò un elicottero. Vi porteremo via.

— Scenderà a piedi. — aggiunse Duun. — Dopodomani. Senz’altro starà bene.

— Passando vicino a loro? Dei, non ci sono stati abbastanza guai?

— Lui è hatani, Ellud. — Duun incontrò il buio negli occhi di Ellud, e lo sfidò. — Sia ben chiaro. Scenderà con le sue gambe.


Thorn si alzò dopo che i medici se ne furono andati. Duun immaginava che l’avrebbe fatto. — Siediti — disse Duun, sedendosi a sua volta su uno dei rialzi che correvano lungo le pareti. Il pavimento di sabbia era pieno d’impronte e c’erano diverse macchie scure: Thorn aveva perso molto sangue. Thorn era appoggiato alla soglia, con il braccio appeso al collo; la sua pelle aveva un brutto colore biancastro, escluso il braccio, dove la gelatina macchiata di sangue copriva un’incisione. Sarebbe rimasta la cicatrice. Una lunga cicatrice. Per poco il colpo non aveva leso uno dei nervi principali; così avevano detto i medici. L’osso era stato scheggiato ina non rotto. — Hai un sacco di plasma al posto del sangue, ragazzo. La maggior parte del tuo l’hai lasciato nella valle. Vieni a sederti.

Thorn andò verso Duun che era intento a pulirsi le armi. Thorn si lasciò cadere sul rialzo con le ginocchia, poi si sedette adagio, lasciando penzolare una gamba. Sulla sua fronte priva di peli c’era del sudore che gli aveva fatto appiccicare i capelli.

— Ce ne andiamo in città — disse Duun. — D’ora in poi vivremo lì.

— Via da qui…

Duun lo guardò. Sheon era persa, per la seconda volta. E Thorn lo fissò a sua volta con occhi alieni e opachi, in cui si inseguivano i pensieri e la paura. (Perché hanno sparato, Duun? È una vendetta? È contro di me? Ho sbagliato, Duun? Cosa ho fatto laggiù?)

— Non voglio andare, Duun.

— Verranno più tardi a prendere le cose che vorremo. Queste… — Duun lucidò la lama. — Queste le prendiamo noi.

— Non voglio andare.

— Lo so. — Duun lo guardò. Gli occhi di Thorn brillavano di lacrime. — I contadini si prenderanno la terra. Forse li ripagherà per quello che ho dovuto fare. Mi capisci Thorn? Haras? Mi senti?

— Sì, Duun-hatani.

— Fuggiamo via di qui. Voleremo in un posto dove il vento puzza e non capirai niente di quello che vedrai. Mi porrai le tue domande in privato. Ci sarà gente intorno a noi. Sempre. Non più cacce. Non più foreste. Solo acciaio. Solo migliaia e migliaia di persone. A un sacco di shonunin piace questa vita. Imparerai.

Thorn chinò la testa sul braccio che era appoggiato al ginocchio e Duun continuò a pulire delicatamente l’acciaio affilato della lama con un panno oliato. Acciaio e odore di olio. Acciaio e olio. La mano mutilata teneva il panno, l’altra il coltello. — Rinuncia, Thorn. Tu sei hatani. Gli hatani non possiedono nulla. Solo le armi e il mantello. Questa volta perdi solo un posto. Quando sarai quello che sarai, non possiederai nulla di nulla. Io ho solo usato questo posto. Tu ed io. Era una tappa, e adesso è terminata.

Thorn sollevò la testa. Si era sporcato la faccia, strofinandosela. Aveva le ciglia bagnate. — Mi dispiace, Duun.

Le mani di Duun si fermarono in un lungo silenzio. Poi ripresero a pulire. — Hai perso un anno forse. Un anno qui. Forse due. Poi ce ne saremmo andati lo stesso. Non sono molti due anni. Stai piangendo. Fallo domani e ti picchierò. Hai sentito?

— Sì — disse Thorn.


Partirono all’alba. Camminarono adagio lungo il sentiero serpeggiante senza che Duun manifestasse segni d’ira. — Joiit — disse ad un tratto Duun indicando un uccello che cantava. Thorn pensò

allora che nel posto pieno di gente descrittogli da Duun forse non ci sarebbero stati uccelli; e il canto che veniva dai boschi gli diede una fitta al cuore. E anche il vento fra le foglie. Camminando sentiva la polvere morbida come seta sotto i suoi piedi doloranti e il braccio gli faceva male. Avevano chiuso la casa ed erano usciti dal cortile. E prima che la costruzione sparisse definitivamente dalla loro vista, si erano voltati a guardarla. Aveva lo stesso aspetto di quando se ne andavano a caccia. La luce era la stessa sui muri di pietra bruna, con gli hiyi che vi crescevano tutt’intorno, verdi listati di lavanda; tutto quanto da quella distanza, aveva il colore della terra, come ogni mattina. La casa sembrava aspettarli. Avrebbe continuato ad aspettarli, giorno dopo giorno. Qualcuno sarebbe venuto, aveva detto Duun, per portare via ciò che era rimasto nelle stanze. Poi sarebbero arrivati i contadini a riprendersela. I bambini avrebbero esplorato le stanze, avrebbero giocato a nascondersi nel cortile…

… e cacciato nei boschi. Avrebbero scoperto il vecchio albero su cui era bello sdraiarsi al sole e la roccia cava che sovrastava lo stagno fra le colline. Avrebbero inoltre imparato i sentieri e le piste dove l’aveva condotto Duun.

Thorn non versò lacrime. Quando il cuore gli faceva troppo male, guardava il cielo, la strada, diceva qualcosa, non importa cosa, stringeva le dita attorno al braccio ferito, e il dolore lo distoglieva dai ricordi. Lo fece anche quando l’uccello cantò, quando il vento sollevò le foglie e quando si rese conto che sentiva l’odore delle cose, per quanto fosse insensibile agli odori: la polvere, le foglie, e il profumo aspro dei fiori di lugh, fortissimo se uno li schiacciava; come aveva fatto lui, più di una volta, da bambino, ritrovandosi la mano appiccicaticcia per la linfa: lo stesso aroma della luce del sole.

Una marea di impressioni gli si riversava addosso. Il paesaggio lo affliggeva con addii lungo tutta la strada. E Duun non diceva quasi nulla. (Duun era stato giovane anche lui, negli stessi luoghi. Conosceva il vecchio albero, la roccia… i sentieri: li ha mostrati a me. E io li ho presi da lui. Duun!)

Gli alberi si stendevano ai lati della strada in un mare di cime verde e porpora. Al di là di essi, più in basso, c’era la valle dove vivevano i contadini, e oltre ancora una pallida foschia di terra, piatta: e un cielo immenso, di un delirante viola e azzurro, e strisce di nuvole come ghiaccio in uno stagno, alte sopra la pianura, che si perdevano in un bianco latte.

Thorn provava un senso di terrore. Il cielo era troppo grande dietro le montagne. Volare, aveva detto Duun. C’erano macchine; Duun ne aveva parlato. Più di una volta, quando erano venuti i medici, ne aveva vista una lontana, prima che sparisse dietro le montagne. Altre volte c’erano delle strisce bianche nel cielo: aeroplani, aveva detto Duun. Della gente ci volava dentro. (Dove, Duun? Dove vanno? Perché ci vanno? Possono vederci? Thorn-bambino aveva agitato la mano verso quegli aeroplani, in piedi sulla roccia più alta a cui poteva arrivare: “Sono qui, qui, qui!”.)

(Guardatemi. Fatemi segno che mi avete visto. Io sono qui. Siete come me? Vedete altri bambini dove andate? Hanno la pelle come la mia? E occhi come i miei? E anche loro hanno cinque dita?)

(Migliaia e migliaia di shonunin nella città. Ce ne saranno come me?) La strada scendeva fra gli alberi e fuori da essi. Lontano, si sentiva un rumore che il vento non faceva mai, che diventava più forte: un fracasso di macchina, quel rumoreggiare sinistro che aveva sempre annunciato l’arrivo dei medici. — Stanno arrivando — disse Duun. Saranno là prima di noi. Ci aspetteranno.

Gli stranieri gli vennero incontro lungo la strada. Non erano medici. Si presentarono vestiti da capo a piedi in blu e grigio, e portavano armi. Thorn esitò quando li vide, ma Duun continuò a camminare; così Thorn capì che non c’era da temere. — Non c’era bisogno — disse Duun quando s’incontrarono. — Abbiamo degli ordini — disse uno di loro. Fu tutto. Durante l’incontro Thorn rimase fermo a una curva della strada. Gli stranieri lo guardarono, poi girarono lo sguardo altrove come se lui non contasse niente e fosse soltanto un’appendice di Duun. Un attimo dopo, la gente vestita di blu ripartì verso il basso, con uno di loro dietro e un altro a fianco di Duun. Di colpo la montagna cessò di essere loro. La possedevano degli stranieri che erano venuti a guastare i loro ultimi momenti in quei luoghi di sogno. Sapeva perché Duun non li voleva. Ma Duun non avrebbe detto loro di no, e camminò senza guardare gli alberi e le pietre, come aveva fatto prima che arrivassero. Duun era addolorato. Thorn lo sapeva. (Colpa mia. Sono stato io. Dovrebbero prendere me, e andarsene, e Duun avrebbe ancora la sua montagna.) Ma nessuno aveva offerto a Thorn questa alternativa. Forse non esisteva.

Sempre più giù. Dopo la curva non rimaneva che l’ultimo pezzo di strada prima della pianura.

Una macchina era ferma sul prato; aveva grandi eliche. Aveva appiattito un cerchio attorno a sé, nell’erba verde-lattea. Grandi strade polverose si incontravano in quel punto, e della gente era ferma all’incrocio, a una certa distanza.

— Li abbiamo tenuti lontano — disse un uomo che fino ad allora non aveva parlato. Non era un uomo come Duun, come Ellud, come i medici. Aveva fianchi più larghi, camminava in maniera differente e aveva una voce più bassa. Donna, pensò Thorn, sentendola, e il cuore accelerò i suoi battiti.

(“Le donne” aveva detto Duun, quando lui era piccolo, “sono come noi e diverse da noi.”)

(“Diverse come?” aveva chiesto Thorn.)

(“Dentro. Fuori, per certe cose. Hanno dentro un posto dove fanno i bambini. Gli uomini ce li mettono. Le donne li fanno.”)

(“Come?” aveva chiesto Thorn-bambino. “Questo li fa” aveva detto Duun, e gli aveva mostrato cos’era. “Io non ce l’ho”, aveva detto Thorn, guardandosi. “Duun, io non ce l’ho. Il mio è tutto fuori.”)

(“Tu sei diverso”, aveva detto Duun.)

(“Sono una donna?”)

(“No. Sei un bambino. Sarai un uomo.”)

(“Come fanno le donne a fare i bambini?”)

Duun non gli aveva risposto. Oppure se n’era dimenticato. Thorn aveva appreso la risposta più tardi. (“Vedi questi?” aveva detto Duun, mostrandogli un piccolo dentro un deiggen che Thorn aveva ucciso. “Sono bambini. Non devi uccidere la femmina. Vedi la punta delle orecchie? Non ucciderle.”)

Thorn se ne ricordava. Aveva preso un piccolo di deiggen dal ventre, e l’aveva appoggiato su una roccia piatta, per guardarlo. Non era il fatto che fosse morto che ricordava di più, o il sangue, ma che non aveva peli: aveva la pelle nuda, come la sua.

(Sono nato male. Mi hanno tirato fuori troppo presto.)

Aveva guardato dei foenin accoppiarsi. (È così che si fa? Era rimasto inorridito e contemporaneamente interessato dai corpi neri l’uno sul dorso dell’altro, e dagli strani spasimi che li scuotevano, come se uno di loro fosse ammalato.)

(“Gli shonunin lo fanno di fronte, di solito”, aveva detto Duun. Thorn era rimasto doppiamente inorridito. Era già abbastanza strano farlo da dietro. Ma avere una che ti guardava in faccia…)

Questa… donna… ondeggiava, camminando, e teneva una pistola alla cintola. Aveva una cresta bianco candido, ma se l’era rasata quasi tutta come facevano gli abitanti della città; non era come quella di Duun, lunga e nera, e che oscillava quando lui camminava.

Thorn pensò al foenin e strinse la mano per scacciare quel pensiero. Aveva già creato abbastanza problemi a Duun. Non era primavera. Non era il momento adatto. C’era qualcosa che riguardava l’odore, ma Duun non aveva voluto parlarne.

Camminarono sullo spiazzo verso la macchina, e il ricordo del foenin si dissolse nell’odore dell’olio e del metallo caldo. L’elicottero. Si sarebbero alzati nell’aria con quello. Sembrava troppo pesante. Thorn si dimenticò delle donne. Il suo cuore cominciò a battere per il terrore. (Sciocco, si disse. Dunn l’aveva avvisato. Quella cosa era arrivata lì e se ne sarebbe andata con loro dentro. Non avrebbe mostrato paura di fronte a degli estranei. Non avrebbe emanato odore di paura dove altri potevano sentirlo. Non avrebbe fatto vergognare Duun. Ti picchierò, aveva detto Duun, per richiamare la sua attenzione; Thorn se ne ricordò, e seppe perché Duun l’aveva minacciato. Per non essere svergognato da lui. Non avrebbe dunque esitato al momento di entrare.)


Duun guardava i contadini, gli spettatori che le guardie tenevano a distanza, sull’altra strada. Teneva le orecchie di traverso, escludendo quelle parole che il vento poteva portargli. Ne sentiva l’odore anche da quella distanza. Nella sua mente affiorò l’odio, e poi la paura. Era uno sciocco a chiudersi le orecchie; uno di loro poteva essersi portato un fucile.

Ma avevano chiamato il magistrato e avevano confessato. Per paura, pensò amaramente, di una più generale punizione. Per un tardivo senso di responsabilità. Da sedici anni aspettavano, nella speranza di ottenere la terra di Sheon.

(Adesso è vostra. Godetevela. E andate al diavolo.)

Si vergognò del pensiero. Era venuto lì in cerca di virtù, e ne tornava…

… ne tornava con quell’ombra al suo fianco. E gli sguardi freddi di coloro che avevano visto un hatani venire meno ai suoi voti. Un hatani che aveva vissuto per sedici anni nella paura di ciò che alla fine era successo.

Bene, bene. Non era un errore, forse. Duun guardò l’elicottero, scambiò convenevoli con il capitano delle guardie, spinse Thorn con un leggero colpo di artiglio sul braccio. — Vieni — disse Duun, guardando il capitano. (Facciamola finita. Non tirarla in lungo. Portaci via da qui.)

Mentre camminava accanto a lui, Thorn alzò la testa per guardare le pale… Duun lo colpì alla schiena. — Sciocco, tieni la testa abbassata sotto l’elica! — Thorn si chinò e proseguì; eppure il rotore girava ancora adagio, senza fare nemmeno vento.

Alla fine della scaletta li accolse un mondo di metallo con sedili in plastica. Tutto l’abitacolo odorava di olio e carburante. Duun lo fece sedere.

— Queste sono le cinture di sicurezza. Spingi, così. Questo serve a sganciarle. Questo per stringere. Tienile addosso. — Guardò Thorn negli occhi, nessun altro lo fece, e ci scorse il terrore. Duun aggrottò la fronte, andò al suo posto e si allacciò le cinture.

L’equipaggio prese posto e le guardie salirono a bordo, dietro, facendo ondeggiare l’elicottero. Il pilota diede gas al motore… whup, whup, whup! Thorn guardò dal finestrino, in avanti, e infine verso Duun che allungò la mano sul bracciolo e gli strinse il braccio, con gli artigli tutti fuori. (Comportati bene!)

Thorn si quietò. Il whup-whup-whup si fece più forte e l’elicottero s’inclinò, alzandosi; s’inclinò e girò la coda, mentre i contadini correvano nella polvere sollevata dalle pale.

Wh-wh-wh…! Cielo da una parte, terra dall’altra. Duun gettò un’occhiata a Thorn, e notò che aveva i muscoli del suo collo tesi mentre si aggrappava ai braccioli. Un’altra stretta con gli artigli. Thorn si rilassò visibilmente e si voltò a guardare Duun, con studiata serenità.

Duun fece scivolare le dita lungo il braccio di Thorn, fino al polso, dove le vene erano superficiali. Dal battito, pareva che il cuore gli scoppiasse da un momento all’altro.

— Tieni gli occhi sull’orizzonte — disse Duun all’orecchio di Thorn. — Ti aiuta a non stare male.

— Non sono spaventato — gli gridò Thorn. Ma in quel momento l’elicottero virò bruscamente verso ovest, e le dita di Thorn si strinsero spasmodicamente sul bracciolo.

Erano sopra la vasta pianura, oltre le colline: un’ora e più di alberi, strade e mandrie che correvano sotto di loro in una bruna marea. D’improvviso la grande distesa di una baia si aprì oltre un bordo marrone di alberi, con l’acqua che scintillava argentea nel sole, e si stendeva all’infinito verso sud. Thorn dimenticò la sua paura. — Cos’è — chiese indicandola col dito.

— La baia di Djohin — gridò Duun in risposta. — È il mare quello, pesciolino! Il grande, immenso mare!

Della terra apparve a est, al di là della superficie scintillante: le propaggini della città, una macchia contro il cielo. — Quello cos’è? — urlò Thorn, nel frastuono del rotore.

— E Pekenan — disse Duun. — Quello è il porto. La città è dopo. Ecco: là c’è il porto delle navette. Vedi quella striscia grigia?

— Cos’è un porto? — chiese Thorn. — Cos’è una navetta? — La sua pelle era bianca nella luce del sole che entrava dai finestrini laterali dell’elicottero. Sudava. Novità e stranezze si moltiplicavano. Quel viaggio era uno shock troppo grande per lui. (Non svenirmi adesso, pesciolino. Non qui. C’è dell’altro.) — Qui. — Duun frugò nella borsa ai suoi piedi e ne prese un inalatore che si era portato con il resto delle loro cose. — Mettitelo in bocca… Respira profondamente. — Schiacciò il cappuccio dello spray, Thorn tossì, si appoggiò allo schienale con un’espressione sorpresa e offesa, e perse il pallore e le sue pupille si dilatarono. — Ne vuoi ancora?

— No, Duun — disse Thorn, e si mise a guardare fuori dal finestrino.

Duun non aveva molta voglia di guardare. Sapeva quello che avrebbe visto. La capitale. Dsonan. Le case alte, dove gli shonunin vivevano uno sopra l’altro.

— Guarda là! — gridò d’improvviso Thorn, indicando il centro della città.

— Li ho visti, pesciolino. — Gli edifici alti non lo interessavano. — Atterreremo sopra uno di quelli. E ci vivremo dentro. — Per spiegare altre cose avrebbe dovuto gridare troppo. Il rumore dei rotori lo deprimeva. Ricordò la prospettiva dei canyon di cemento, gli edifici che passavano sotto di loro. Prese il polso di Thorn e appoggiò le dita sulla vena. Thorn lo guardò, sapendo quello che Duun faceva, con l’aria di vergognarsi enormemente per un cuore che non riusciva a controllare. — Guarda giù — disse Duun mentre cominciavano a volare sulla città. — Abituati.

Thorn non si ritrasse. Il battito accelerò, mentre il panorama della città scivolava sotto di loro. (- Cos’è quello? — chiese Thorn quando un treno sfrecciò sotto di loro.) Cos’è? Duun non voleva domande, per il momento. C’era tutto il tempo per farle, in seguito. Il polso batteva con insopportabile rapidità. — Scendiamo?

— Non sbagliano mai — disse Duun. — Guarda il tetto, pesciolino. Vedi quel cerchio? È li che atteniamo.

Загрузка...