12

Ellud camminò su e giù, e gettò in alto le braccia. — Non posso mettere a tacere la cosa!

— Non devi farlo. — Duun era seduto. — Lo porto questo pomeriggio. Voglio l’elicottero sul tetto e l’aereo a Trusa, senza dovere aspettare. Prendine uno fuori servizio. Lo piloterò io.

— Dei, il tuo brevetto è scaduto. Non posso permetterlo. Al giorno d’oggi gli aerei si pilotano con i computer. Ti procurerò un pilota. — Ellud ci provò, ma gli andò male.

— Va bene. Fra un’ora. Si muoveranno un minuto dopo che sarai decollato dal tetto; avrò i consiglieri alla porta.

— Sorveglia Shbit, basta questo. Te lo riporterò.

— La Corporazione non lo prenderà!

— Speri di sì o speri di no?

Ellud rimase fermo, con la bocca aperta, e Duun uscì.


Thorn camminava in fretta. In un fagotto, sottobraccio, aveva un cambio d’abiti, per sé e per Duun, e il mantello grigio di Duun avvolto attorno ad articoli da bagno e legato con una corda; indossava abiti invernali nuovi: una giacca imbottita, pantaloni larghi e stivali imbottiti; Duun, che camminava in direzione dell’ascensore al suo fianco, era vestito allo stesso modo.

— Dove stiamo andando, Duun? — Era per metà una protesta e per metà una domanda, e la faceva per la terza volta. (Ho infranto qualche regola, ho fatto arrabbiare Duun?) Ma non riusciva a leggere dentro a Duun in quel momento, a parte il fatto che c’erano dei segreti, e Duun aveva una gran fretta di portarlo fuori. (Fuori?) Non si era più messo pantaloni e giacca dai tempi dei rigidi inverni di Sheon. E non aveva mai indossato stivali. Era solo l’inizio dell’autunno.

(Sa quello che ho detto a Sagot. Ho fatto qualcosa di sbagliato! Stiamo scappando ancora, come da Sheon. Ci stanno dando la caccia, uomini con fucili… Ma è assurdo. Non lo farebbero. Non ho parlato con nessuno con cui non dovessi. Non ho fatto niente…)

(Davvero?)

La porta dell’ascensore si aprì. Duun entrò per secondo e inserì la tessera per farlo funzionare. L’ascensore sfrecciò verso l’alto, attraverso tutti i piani fra loro e il tetto.

Le porte si aprirono nella cupola. Dietro le finestre c’era il vero cielo, delle nuvole grìgie e un elicottero con le pale che giravano. C’erano delle guardie ad aspettarli; aprirono la porta, lasciando entrare un vento gelido. — Tieni giù la testa! — gli gridò Duun, e si mise a correre, abbassandosi quando fu vicino all’elicottero. Thorn lo seguì di corsa, con il vento delle eliche che gli sferzava la faccia. Stette basso finché non ebbe raggiunto l’elicottero, e salì a bordo come Duun, il più in fretta possibile; si buttò su una poltrona e cominciò ad allacciarsi le cinture. (Come col simulatore. Ma questo è un elicottero vero.)

Il motore salì di giri, e l’elicottero si alzò quasi con rabbia. Tutto roteò vertiginosamente: le cime dei grattacieli di Dsonan, i crepacci profondi delle linee ferroviarie e delle strade di manutenzione, e il porto lontano con la luce grigia che brillava sull’acqua, sotto una macchia di nuvole.

— Andiamo all’aeroporto — gli disse Duun, gridandogli nelle orecchie — C’è un aeroplano che ci aspetta.

Thorn lo guardò, con le domande dipinte sul volto. Implorante.

— Andiamo ad Avenen — gridò Duun. — Il quartiere generale della Corporazione. Sarà meglio che ti abitui all’idea durante il viaggio. Ci verranno tutti gli hatani che riusciranno a radunare, e tu dovrai farlo, questa volta o mai più. Non ci sarà una seconda occasione.

Per cosa?

— Per avere la protezione della Corporazione.


Corsero dall’elicottero fino a un edificio dove si tolsero i vestiti imbottiti e indossarono delle tute aderenti. Degli attendenti, impersonali quanto i medici, gli strinsero le allacciature, due alla volta, con fretta brutale; poi gli sistemarono le maschere, che penzolavano dal collo, e i caschi con dentro un microfono. — Corri — disse Duun, chinandosi a raccogliere i bagagli, e corsero fuori dalla porta che gli attendenti tenevano aperta per loro. Si ritrovarono in un hangar pieno di rumore, aperto alle due estremità, dov’era in attesa un aereo con le eliche che giravano al minimo: una macchina con il muso che si abbassava, e ali tozze, rivolte all’indietro. — Questo ha bisogno di una pista per decollare — gridò Duun. — Dovremo uscire da qui… gira dietro alle ali, c’è una scaletta.

C’era, appoggiata all’aereo. La calotta era alzata. Duun gettò il bagaglio a una guardia e si arrampicò sulla scaletta; e Thorn gli tenne dietro, ostacolato dalla tuta che gli impediva i movimenti. Ansimando e strisciando sul fianco dell’aereo, raggiunsero il piano alare. C’era un posto per il pilota, uno per il secondo pilota, e altri due posti dietro, in una cabina che sembrava grande appena per i due posti davanti. Duun passò sopra una delle poltroncine e si sedette sulla seconda, afferrò delle complicate cinture di sicurezza e se le legò. Thorn si infilò in quella a fianco; le cinture erano simili a quelle del simulatore. L’attacco per il tubo della maschera era fra le gambe: Duun glielo mostrò e lo inserì. — Comando per le comunicazioni — la voce di Duun gli arrivò dalla cuffia e il viso di Duun, dentro al casco e dietro la maschera con l’interruttore a tre posizioni e il pulsante sul fianco in bella evidenza, gli apparve irriconoscibile: sembrava la testa di un insetto. La calotta scivolò in avanti, con un sibilo di comandi idraulici. Il pilota girò la testa e fece un segno con la mano a Duun, che rispose con un altro segno. Il pilota si voltò, e il suo secondo spinse i motori al massimo: le turbine girarono più in fretta e l’aereo cominciò a rollare sempre più veloce, fuori dell’hangar, sotto il cielo coperto, con il carrello che sobbalzava sulla pavimentazione irregolare, e il paesaggio di Dsonan, alla loro sinistra, irreale come la vista da una finestra.

Più veloce: uscirono su una lunga distesa di cemento, e il sibilo del motore si fece più forte. L’accelerazione li schiacciò contro gli schienali, mentre l’aereo compiva la sua corsa e si sollevava rombando sopra il fiume. Eseguì poi una brusca virata, mostrando per un lungo vertiginoso momento il corso d’acqua, finché il pilota non decise di raddrizzarlo, puntando verso l’alto.

— Dei — disse Thorn. Il cuore gli batteva forte, mentre le nuvole sfrecciavano accanto a loro, e ancora l’aereo saliva. (Perché così in fretta? Perché così all’improvviso? Cosa ha in mente Duun?) — A che velocità arriva questo aereo?

— Più di mach due, se necessario. È un aereo corriere… armato, se vuoi saperlo. E nel caso tu voglia sapere qualcos’altro: sì, c’è una ragione. Ci sono problemi a terra che mi preoccupano. Non mi aspetto guai veri e propri, ma c’è la remota possibilità di guai anche quassù. C’è un’unità ghota nella provincia di Hoguni che ha uno di questi, e non so da chi prenda gli ordini.

— Ghota? Non sono guardie?

— Assoldate. Una corporazione di guerrieri. I kosan e i ghota. I nostri amici qui davanti a noi sono kosanin; assumono un servizio a vita. Invece i ghotanin si affittano; non fidarti mai di loro, finché non sai quanto dura il loro contratto e se sei il solo a pagarli. Sono come le mogli annuali; sempre alla ricerca del migliore offerente. I kosanin non militano con loro. È per questo che sono in unità separate.

— Duun-hatani, forse non so abbastanza!

— Qualsiasi cosa tu faccia, non mentire e non tirarti indietro. Nessuno conosce mai abbastanza. È tutto quello che posso dirti ora. Due regole. E una terza: ricordati di Sheon. Ricorda il pugnale sul tuo cuscino. Ricorda il gioco della pietra. E sii sempre cortese.


Arrivarono stridendo su una pista che si spingeva nel mare, frenarono con grande sforzo e girarono bruscamente verso un gruppo di edifici e di aerei, di tutte le dimensioni, per lo più piccoli.

E nessuno affusolato come il loro. — Bene — disse Duun — nessuno è arrivato prima di noi; ci sono soltanto i locali e i visitatori occasionali.

Thorn si guardò intorno. Sulla maggior parte degli apparecchi erano dipinte le insegne. Alcune a strisce, ma la maggior parte erano bianche. Un elicottero li attendeva, con le eliche che giravano.

— È il nostro?

— Speriamo di sì. — La mano di Duun strinse la sua, dolorosamente.

— Ascoltami. Da ora in poi non ci devono essere errori, Haras-hatani.

Un edificio massiccio si stendeva oltre l’aeroporto. L’avevano visto fin dal momento in cui si erano avvicinati: largo e basso, diverso da tutti gli altri edifici che Thorn aveva visto. Pietra grigia. Grigio hatani. Il quartier generale della Corporazione.

Avenen.

L’aereo si fermò e arrivò subito un veicolo che alzò una scaletta verso l’alto. La calotta scivolò indietro, facendo entrare un vento freddo.

Duun tirò fuori i bagagli e li diede a un attendente, poi, in fretta e furia, scese a terra seguito da Thorn. (Pensa, pensa, osserva questi attendenti, osserva ogni cosa.)

(È una specie di test? Duun ha mentito? Ci sono davvero dei ghotanin sulle nostre tracce, e potrebbero venire fin qui?)

Duun riprese il fagotto dei loro averi e corse verso l’elicottero. Thorn corse dietro di lui, con la maschera che gli sbatteva sul petto, e la tuta che gli impediva i movimenti. (Osserva questa gente. Osservali tutti, osserva le loro mani.)

Un paio di scalini e furono dentro l’elicottero, con il pilota già al suo posto. (Il naso di Duun è migliore del mio. Sentirebbe odore di paura, se quello avesse in mente qualcosa contro di noi, anche in mezzo alla puzza di carburante.) Thorn si sedette a fianco di Duun, e si allacciò la cintura mentre l’elicottero decollava, girava e si sollevava inclinandosi; il terreno scorreva veloce sotto di loro, in una surreale intimità dopo l’altezza abbagliante dell’aereo corriere. C’era solo l’illusione della velocità. Ci vollero parecchi minuti per arrivare alle mura grigie, su edifici che sembravano costruiti da una decina di architetti litigiosi che si erano cambiati a vicenda i progetti.

Uno spazio circolare per l’atterraggio, su un tetto, venne verso di loro. C’erano degli uomini ad attenderli; indossavano dei mantelli grigi e guardavano, immobili, l’elicottero che atterrava.

— Possiamo fidarci di loro — disse Duun. — Una cosa è certa: nessun ghota oserebbe portare quel colore lì. — I motori rallentarono. Duun porse a Thorn il bagaglio, e scese.

Thorn saltò a terra e seguì Duun oltre il cerchio dell’elica. L’elicottero si alzò rombando, sferzandoli di polvere e facendo sbattere i mantelli grigi.

Duun si tolse il casco e se lo mise sotto il braccio. Nonostante l’impiccio del fagotto, anche Thorn riuscì a togliersi il suo, e il vento gli sferzò i capelli, freddo e spietato. Thorn guardò i cinque che li stavano aspettando: uomini aitanti, e uno che gli pareva una donna, tutti coi mantelli grigi e kilt neri. Lui e Duun invece, erano in completo disordine con le maschere e i tubi penzoloni, come due macchine animate che hanno appena smesso di funzionare. Guardarono Duun e lui… per primo lui, che non aveva eguali, i capelli al vento e la faccia liscia, in tutta la sua estraneità. Thorn non riuscì a intuire cosa pensassero e questo, più di qualsiasi altra cosa, lo convinse di dov’era. Nessuno oltre a Duun erariuscito ad apparirgli così impenetrabile, fino a quel momento.

Ma loro sì. Quel vasto edificio era pieno di gente che poteva farlo.


— È più imponente di quanto facciano capire le fotografie — disse Tangan, un uomo esile, così vecchio che le sue guance erano scavate e perfino la sua cresta era diventata bianca. Le mani, intrecciate in grembo, erano scheletriche, percorse da cicatrici di coltellate ricevute in una giovinezza così lontana che fra i novizi della Corporazione si perdeva nel mito. Duun sedeva sulla sabbia bianca, rastrellata dai novizi in artistiche figure che si perdevano fra le cinque grandi rocce da cui era adornata l’antica stanza. Le luci erano elettriche, ma questo era l’unico cambiamento dal quinto secolo. Generazioni di mani hatani avevano annerito quei massi, lisciandoli come aveva fatto il fiume da dove erano stati presi. Generazioni di novizi irriverenti si erano seduti su di essi e c’erano saliti in piedi per rastrellare la sabbia, balzando da uno all’altro; facendone talvolta (i novizi sono uguali in ogni generazione) anche un gioco: quello di saltare combattendosi con i manici dei rastrelli.

Tangan aveva colto un certo novizio ribelle e impenitente a quel gioco. E Duun aveva dovuto pentirsene: quaranta giorni di pulizia a mano della sabbia. Rimase stupefatto, vedendo quanto era invecchiato Tangan.

— Mi sono abituato a vederlo — disse Duun.

— Davvero?

Duun incontrò lo sguardo vigile di Tangan. — Ho avuto quasi vent’anni.

— Vent’anni di potere mai visto.

— Sedici nascosto su una montagna, fra i boschi. Cinque impegnato in attività innominabili che insegnano a chiunque l’umiltà. Come pure avere a che fare con quelli di Dsonan.

— Ah. Com’è la capitale?

— Portare notizie a te è come portare acqua a un pozzo.

— Com’è la capitale?

— Ci sono più maniere di venire meno ai patti, di quante se ne insegnino qui, Tangan-hatani.

— Tempi paradossalmente prosperi. Denaro. È questo che vedi?

— Un sacco di denaro recente… pagato nelle province meno progredite per eleggere sciocchi disposti a prendere ordini, capaci solo di rafforzare il proprio potere e di fare arrivare i contratti alle compagnie giuste. Alcuni di questi sono palesemente sciocchi, e i contadini, che sono furbi, li votano perché i potenti dei loro distretti potrebbero comprarne di dieci volte peggiori, e molto più astuti. Ti dico che dovremmo mandare uno dei novizi a Elsnuunan e a Yoth. Qualche pastore, una volta o l’altra, potrebbe essere abbastanza arrabbiato da porci una domanda. Ma alcuni di questi sciocchi passano per astuti consiglieri, e si proteggono così bene da fare e disfare giovani politicanti per loro conto.

— Shbit no Lgoth?

— Vorrà lanciare una sfida.

— L’ha già fatto. Un suo agente è per via.

Duun sorrise. — Ho il sospetto che si tratti di un ghota.

— Conosci questa persona?

— Probabilmente ci siamo incontrati.

— Stai tenendo a bada Shbit, allora. Fino a che punto?

— Potrei far meglio. Ho poco tempo a disposizione. Quell’uomo è un pericolo. L’avrei rimosso arbitrariamente, ma ero ostacolato dal potere eccessivo. Avrei potuto fare troppo. Perciò non ho potuto fare niente.

— Lo prevedevo.

— Io prevedevo Shbit, ma non sapevo quale sarebbe stato il suo nome. Troppo denaro circolava. E io ero a Sheon a pulire nasi. Maestro, tu conosci una risposta, forse; c’era un altro modo?

Un lungo silenzio. Tangan si guardò le mani intrecciate, poi alzò gli occhi. — Ho visto dove ci avresti portato. Ho ripensato a tutti i miei anni e agli anni della Corporazione, e mi sono chiesto dov’era il punto cruciale. Ho pensato che fosse quando le mura vennero tolte. Ogni cosa ha condotto a questo. Ci hai messo in una posizione difficile: se gli neghiamo protezione, accenderemo il fuoco che ci distruggerà. Se lo prendiamo con noi scateniamo una tempesta di fuoco. Non voglio prendere in considerazione questa scelta. Sarò franco con te: di notte mi chiedo cosa ho insegnato ai miei studenti, se sei stato capace di una cosa del genere. Un hatani dovrebbe avere un difetto. Un hatani dovrebbe dubitare di sé abbastanza da sentire un po’ di colpa. Tu non ne hai alcuna. Bruci di troppa luce, Duun-hatani. Mi accechi. Non so se hai ragione o torto. Forse non avrà più importanza. Forse verrà il buio. Ti confesso di avere fiducia in te, per una cosa: non credevo che saresti venuto qui, anche quando ho saputo che lo stavi addestrando. Un libero hatani sarebbe stata la mia soluzione.

Duun meditò a lungo. — Maestro, hai detto che avevi previsto la mia impotenza, e subito dopo hai detto di non avere previsto che alla fine sarei venuto qui.

— Per infettarci con la tua impotenza?

Duun alzò lo sguardo. — Tangan-hatani, per molti versi è un ragazzo come tanti altri. Non dimenticarlo.

— È questa la tua saggezza?

— Tangan-hatani, se sono un fuoco, sono più sicuro con un focolare dentro cui bruciare.

— E di lui ne facciamo una lampada e la mettiamo su una mensola?

— Si potrebbe, sperando che sia molto stabile come lampada.

— Tenerlo qui?

— Mettilo dove vuoi. La Corporazione è una delle parti in causa in questa soluzione. Così pure io. Lascio che sia tu a giudicare.

— Abbiamo un’altra scelta.

— La Corporazione non se ne laverà le mani.

— Prevedi quello che farà la Corporazione?

— È ira questa, maestro Tangan?

— Naturalmente no. È smodato orgoglio. Il mio studente ci ha messo tutti in trappola. Angmen deve aver provato un orgoglio simile a questo, quando Chena aprì le porte della Corporazione.

Duun intrecciò le mani in grembo. — Troverai una soluzione.

— Ti fanno male le cicatrici, Duun-hatani? Eri uno studente così agile.

(Colpito.) — Ho le mie soddisfazioni, in cambio, Tangan-hatani. Sei stato tu a insegnarmi la pazienza.


Thorn ispezionò la stanza che gli avevano assegnato: era confortevole, tutta di legno e pietra antica. Un fuoco di vera legna bruciava nel caminetto; non ne aveva più visto uno da Sheon, e avrebbe potuto indurlo a godersi subito il caldo. Gli avevano portato dell’acqua, con l’assicurazione che era bevibile; oltre a carne, formaggio e una confezione di bacche conservate. Il letto davanti a sé era di pellicce, e la sabbia sul pavimento era bianca, fine e profonda, cotta da poco e rastrellata in meticolose spirali. Nella stanza accanto l’attendeva un bagno caldo, con l’acqua lattescente di essenze aromatiche e olii. Gli sorrisero; sorrisi hatani, né falsi né veri.

Lui si mise a frugare nella stanza, in cerca di pietre. Non ce n’erano. Aveva sete dopo il lungo viaggio e le corse fatte. Le sue membra erano irritate e sudate a causa della tuta di volo. Aveva appoggiato i bagagli sul rialzo di legno che serviva anche da cassettone. — È tuo questo mantello grigio? — aveva chiesto un hatani, osservandolo mentre disfaceva il fagotto. — No — aveva risposto Thorn, guardandolo apertamente, consapevole che loro sapevano di chi era. — Deve essere di Duun — aveva aggiunto l’hatani. — Infatti — aveva sottolineato Thorn. — Dammi le sue cose — aveva detto allora l’hatani. — Le metterò nella sua stanza.

Thorn aveva sorriso, con la maggior sicurezza che poteva. — Sarei uno sciocco a disobbedirgli; perdonami, hatani: quando ti rimprovererà, digli che è stata colpa mia. Nella mia inesperienza non ho saputo cosa fare, così ho eseguito i suoi ordini.

Un altro hatani gli era venuto vicino, e aveva allungato una mano. — Ti prego, visitatore: lascia almeno che metta via queste cose per te.

— No — aveva detto Thorn, respingendo la mano con un lento movimento della sua. — No, hatani. Perdonami.

L’hatani si era ritirato. — Nessuno ti disturberà fino a domattina, visitatore — aveva detto l’altro. Si erano richiusi la porta alle spalle.

(Non può essere così semplice. C’è un altro trucco.)

Thorn l’aveva cercato. Si era tolto la tuta, rimanendo soltanto con il piccolo kilt. Aveva esaminato il cibo, rompendo il formaggio e strappando a brandelli la carne. Aveva vuotato la vasca e rivoltato il letto. Aveva frugato nell’armadio e nel cassettone, negli spazi dietro i cassetti. Si era arrovellato il cervello. (Anche i mobili potrebbero nasconder qualcosa.) Perciò aveva provato a sollevare le assi dell’armadio, e aveva poi guardato nel water, nella vasca da bagno, nel lavandino.

Dai rubinetti non usciva una goccia. Quella era una cosa insolita. Li smontò e non trovò niente. (Maledizione. Qui c’è qualcosa che non va. Forse è per impedirmi di bere quest’acqua, invece di quella nella brocca.) Cercò di smuovere perfino la vasca, il letto, il grosso rialzo vicino. Esaminò anche le pareti.

Alla fine, s’inginocchiò nell’angolo vicino alla porta, e cominciò a rimuovere il profondo strato di sabbia.

Trovò un piccolo pannello, tra la roccia sotto la sabbia, dopo averne spazzata via una buona metà. Ansimava, ormai. Si fregò la faccia con un braccio grigio e polveroso. (No.) Si ricordò del pesce e dell’uccello di Sagot. Duun che posava la sua pietra sul tavolo, vicino alla teiera. (Non fidarti di nulla.)

Prese il kilt grande, e sollevò il pannello usando le dita attraverso il tessuto. Lo mise da parte. C’era una pietra, in un piccolo recesso. Andò all’armadio, prese il suo rasoio e un quadrato di tessuto. Usando il rasoio, tirò fuori la pietra e l’avvolse nel tessuto, rimise a posto il pannello, e contemplò il mucchio di sabbia che doveva essere spianato.

(“Sii sempre cortese.”) Forse questo implicava anche lasciare la stanza in ordine.

E un altro pensiero si insinuò nella sua mente. (“Snap. Addio uccello. Vedi a cosa porta presumere?”)

(Pesce e uccello. Pietra e teiera.)

(Come faccio a sapere se c’è un’altra pietra?)

Rimaneva mezza stanza. (E quanto tempo? Potrebbe essere nella sabbia. E ho solo le mani.)

Si mise la pietra nella cintura, e cominciò a spazzare via il resto della sabbia.


L’altro ricettacolo segreto era nell’angolo opposto. Non ce n’era un terzo. Guardò un grande mucchio di sabbia vicino alla porta, poi andò a prendere il piatto del cibo, e lo usò per spargere la sabbia il più velocemente possibile. La schiena e le braccia gli facevano male; le ginocchia erano scorticate, malgrado avesse cercato di proteggersele con i vestiti, mentre strisciava di qua e di là. I calli, l’unica protezione che aveva sulle mani, si erano ormai consumati. Aveva sete, e ringraziò gli dei che almeno aveva fatto colazione, perché non osava toccare il cibo. (Potrebbe esserci una pietra nel recipiente da cui è stato preso, non in questa stanza. Come posso fidarmi? E il rubinetto. C’è qualcosa che non va. Se non uso le cose sicure, è un errore? Sono sudato. Puzzo terribilmente. Non posso andare di fronte a loro con questo odore addosso. Già ho l’aspetto che ho, e adesso dovrei offendere il loro odorato. E ho usato l’unico cambio di abiti che avevo.)

(Posso usare quelli di Duun? Dei, no.)

(Che ore sono?)

Thorn sparse la sabbia tutt’intorno e ci camminò dentro spianandola il meglio possibile. Cercò inoltre di pensare. Si fermò ansimando, tornò in bagno e armeggiò attorno al rubinetto, finché le mani non gli fecero male. Non riuscì a smuoverlo di un millimetro. Si sedette sulle piastrelle fredde, con le gambe intorpidite. (Non vuol cedere. Vogliono solo farmi usare la brocca, ecco tutto.) E aveva la gola secca, per la polvere e la fatica. (Ho vinto. C’erano due pietre. Le ho trovate tutte e due. Non berrò l’acqua, non mangerò il cibo, non dormirò nel letto.)

(Il materasso. C’è qualche regola che vieta di rompere le cose?)

(Nel gioco con Duun non lo facevamo mai.)

(Le sue regole. Mi avrebbe insegnato. Avrebbe fatto le cose nella maniera giusta.)

Si alzò a fatica, camminò stancamente fino alla sabbia calda, di fronte al fuoco, e si sedette, sporco, sudato, infreddolito. (Dei, almeno posso usare il rasoio e la lozione che ho portato. Ha un buon odore. Forse coprirà un po’ la puzza.)

(Non oso dormire. Hanno promesso che nessuno mi avrebbe disturbato; non oso crederci.)

Si tastò le pietre nella cintura e le tirò fuori, senza mai toccarle con le dita. Erano avvolte nel tessuto: una venata di bianco, l’altra di nero. (Qualcuno oserebbe barare?)

(Sciocco!)

Guardò il fuoco, le abbondanti braci sulla grata.

Andò al tavolo, prese la brocca e versò l’acqua sui carboni. Una nuvola di vapore si alzò sibilando, ma restava ancora un bagliore rosso fra i carboni.

(Oh, maledizione, maledizione, maledizione! La vasca che ho svuotato, i rubinetti che non funzionano.)

Portò la brocca in bagno, provò ancora i rubinetti, poi si inginocchiò e travasò tutta l’acqua del water con le mani; riuscì a riempire la brocca.

I carboni avevano ripreso ad ardere quando tornò. Versò l’acqua, poi prese il piatto e li coprì con la sabbia. Aspettò un attimo e ne spazzò via un po’ con il piatto. Erano ancora caldi, e in grande quantità, per uno spessore di oltre mezzo braccio.

(Quanto tempo mi resta? O dei, non posso aspettare.)

Tirò via la sabbia. Con il rasoio, fece scivolare i carboni sul piatto rivoltandoli ed esaminandoli, e portandoli infine nel bagno. Raggiunse poi i carboni più profondi e più caldi. Trovò una grata metallica. La estrasse usando il casco come gancio. Smosse i carboni, e il piatto si spezzò in due per il calore. Usò allora il pezzo più grande, con più cautela. Le mani gli si erano riempite di vesciche. E ogni volta che avvicinava le mani al focolare era un dolore nuovo. Tutto ciò che stringeva scottava. Il pezzo di piatto si ruppe di nuovo, poi ancora e ancora, in pezzi sempre più piccoli. Smise di portare i carboni in bagno; li faceva adesso scivolare sulla sabbia, li esaminava e ne prendeva altri. Appoggiò un ginocchio su un carbone ardente; e le lacrime gli inondarono gli occhi, gli corsero sulla faccia, e si asciugarono.

Dal fondo, dei carboni raccolse un piccolo pezzo nero che era troppo regolare e liscio. Lo fece rotolare nella sabbia per raffreddarlo, e lo raschiò col rasoio. Era una pietra.

L’avvolse insieme alle altre, senza ritrarsi per il calore. (Devo smettere di cercare?)

Continuò, fino all’ultimo. A fianco del focolare, sotto alla vecchia cenere, trovò uno sportello metallico, e l’aprì col rasoio. Si bruciò di nuovo, tirando fuori dal fondo un’altra piccola pietra. Avvolse anche questa nel tessuto, e frugò fra la cenere rimasta; finché fu certo che non ce n’erano più.

Allora si sedette, appoggiando le braccia alle ginocchia e si riposò.

Poi prese la grata e i carboni e cominciò a rimetterli sul focolare.

La porta si aprì mentre era a metà del lavoro. Erano gli hatani che l’avevano accompagnato nella stanza. Si guardarono intorno.

Uno andò nel bagno, tornò, e Thorn si alzò.

— Vieni con noi — disse il primo. Thorn prese il kilt e se lo mise intorno alla vita, poi cominciò a raccogliere il resto della roba, sua e di Duun.

— Visitatore — aggiunse l’altro hatani — è chiaro dalla condizione della stanza che non te ne andrai. Non c’è bisogno di fare i bagagli.

— Per favore. — Thorn avvolse il mantello e gli abiti di ricambio di Duun nella sua tuta, che, insieme al mantello, era l’unica cosa non sporca. Raccolse il rasoio da terra e lo mise nel casco, insieme alle bottigliette di lozioni.

— Oh, non essere sciocco! — disse l’altro. — Rideranno di te nella sala. Incontrerai il maestro Tangan, con tutti gli hatani! Non puoi portarti dietro tutta quella roba!

— Non ho avuto occasione di dare a Duun il suo mantello. Non so, potrei anche perderle, queste cose. Mi dirà lui cosa fare.

— Allora vieni, sciocco. Ma ti avverto che rideranno. Dei… come sei sporco. Vuoi cambiarti d’abito. Posso prestartene uno.

— Grazie. Chiederò a Duun quando lo vedrò.

Gli altri indicarono la porta aperta.


Il corridoio sbucava in una sala aperta, circondata da una gradinata, e sui gradini sedevano totani avvolti nei mantelli grigi, a centinaia. Il pavimento era coperto di sabbia, con i segni curvilinei dei rastrelli. C’erano grandi massi e su ciascuno di questi sedeva un hatani.

In fondo alla gradinata, di fronte a lui, c’era Duun in piedi, l’unico senza mantello. Duun sollevò leggermente il mento, e Thorn scese i gradini, con la scorta alle spalle.

— Mi hai portato il mantello — disse Duun. — L’hanno toccato?

— No, Duun-hatani.

Duun allungò una mano, lo prese e lo indossò. Poi indicò la roccia più lontana. — L’ultimo è il maestro Tangan.

Thorn camminò sulla sabbia, lungo lo stretto sentiero che gli totani ora seduti sui massi avevano percorso; era a forma d’albero. Sentì altri camminare alle sue spalle. Si fermò di fronte all’ultimo masso tenendo ancora in mano tutte le sue cose.

— Puoi appoggiarle in terra — disse il maestro Tangan; sollevando la mano nella maniera che usava Duun, quando voleva dire che una cosa era sicura. — Resterai in piedi. — Duun si fermò vicino a lui. I due che l’avevano condotto si fermarono dall’altra parte. Thorn appoggiò il fagotto di fronte a sé.

— Sei sporco, giovane — disse Tangan. — È la maniera di presentarsi in questa sala?

— Perdonami, maestro Tangan.

— C’era qualcosa che non andava nella stanza?

Thorn esitò. Sembrava la domanda giusta. Tirò fuori dalla cintura il pezzo di stoffa. Lo svolse e mostrò le pietre. Le bruciature gli facevano male, e le mani macchiarono di sangue la tela. Thorn tremava malgrado tutti i suoi sforzi. (Erano tutte? Me ne è sfuggita una?)

— Ha bevuto l’acqua?

— La brocca era vuota — disse uno della scorta.

— Ha mangiato il cibo?

— Il cibo era sbriciolato — aggiunse l’altro.

— C’era una pietra nella brocca da cui è stata versata l’acqua. C’era una pietra nel piatto da cui il cibo è stato servito. Hai mangiato o bevuto?

— No, maestro Tangan. Ho versato l’acqua sul fuoco. Non ho mangiato. Non ho portato la mano alla bocca dopo aver toccato il cibo.

— Come posso sapere se è la verità?

Dapprima gli parve un’accusa. Poi gli venne in mente che era un’altra domanda. — Sei hatani, maestro Tangan. Se non fossi riuscito a scoprire un trucco come quello, potresti leggerlo dentro di me.

Un momento di silenzio, in tutta la sala. — Hai fatto il bagno?

— No, maestro Tangan.

— Questo sembra evidente.

Thorn era troppo stanco. Si limitò a guardare Tangan, tenendo in mano le pietre.

— Cosa ne hai fatto dell’acqua?

— L’ho versata, maestro Tangan, per le pietre.

— Ce n’erano?

— Non nella vasca.

— Posa le pietre che hai trovato sulla sabbia, una ad una.

Thorn si chinò e le fece scivolare dalla stoffa, una ad una. Alla terza, si sentì un movimento dalle gradinate, e ancora di più alla quarta. Thorn si raddrizzò e guardò il vecchio.

— Quattro è insolito — disse semplicemente Tangan. — Due, oltre il cibo e l’acqua, sarebbero state sufficienti a farti passare. Questa è la prima prova. La seconda sono io. Dimmi la cosa peggiore che tu abbia mai fatto.

Quasi Thorn lasciò che la sua faccia reagisse. E si fermò. Pensò un momento. (La perdita di Sheon? Ma quello non è stato fatto consapevolmente. Era per mia ignoranza. Questo darebbe la colpa a Duun.) — Ho gridato con la mia insegnante Sagot, maestro Tangan, ieri.

— Hai rubato?

— Solo da Duun.

Ci fu un altro movimento sulle gradinate.

— Hai mentito?

— Qualche volta.

— Hai ucciso qualcuno?

— No, maestro Tangan.

— Hai usato le tue capacità in modo sbagliato?

Thorn chiuse gli occhi. E li aprì. Era facile contare. — Tre volte, maestro Tangan. Quando ho gridato a Sagot, quando ho colpito un altro studente e quando l’ho minacciato.

— Sei molto veloce a rispondere. Non ce ne sono altre?

Thorn pensò ancora. — Ho litigato con Duun.

— Anch’io, visitatore. — Una risata sommessa si sparse nella sala. Al suo fianco, Duun abbassò la testa. La faccia del maestro non mutò espressione. — Abbiamo un caso nella Corporazione. Un membro reclama per sé un pugnale che anche un altro reclama. Come lo risolveresti?

Thorn si morse le labbra. Si sentì preso dal panico. (È una domanda sbagliata. Non c’è risposta. Devo osare dirlo?) Si accorse di tremare per il freddo. — Maestro Tangan, non ci sono hatani nella Corporazione che possano litigare per un possesso.

— Abbiamo un altro caso. Due sorelle sposano un uomo per un anno, in successione. Ma non appena il primo matrimonio viene consumato, l’uomo divorzia dalla moglie e ne sposa una terza per tre anni. Come giudicheresti?

— Maestro Tangan, come hanno formulato la domanda di giudizio?

— La prima sorella dice: giudica fra me, mia sorella e quella donna.

(Non l’uomo.)

— Questa non è una questione da hatani, maestro Tangan. Dovrebbero andare dal magistrato.

— Loro insistono. Fanno ancora la medesima richiesta.

— Hanno proprietà?

— Hanno una casa e un negozio ricevuti dal padre e dalla madre. L’uomo vive e lavora con la nuova moglie, in un podere che lui possiede. La nuova moglie è tanun.

— Che vadano a vivere nella loro casa, e si trovino un nuovo marito.

— Spiega.

— Le donne vogliono quest’uomo più di quanto lui voglia loro, e odiano la nuova moglie. Non potrebbero mai dividerlo con lei.

Il maestro Tangan alzò una mano, facendo un cenno a qualcuno. Thorn resistette all’impulso di voltarsi, ma sentì dei passi avvicinarsi, numerosi.

— Un altro caso — disse Tangan. — Guarda questa donna.

Thorn si voltò, e si sentì un tuffo al cuore.

Era Betan, in un kilt azzurro chiaro e con un mantello blu scuro. Aveva le mani unite davanti a sé e le orecchie piatte. Lo raggiunse il suo profumo: era ancora di fiori.

(O Betan.) Si sentì sopraffare dalla stanchezza. (Hatani, dopo tutto?)

La faccia di lei non tradiva nulla.

— Guardami — disse Tangan. — Questa donna ti accusa di averla assalita, di averla sedotta con i tuoi discorsi. Quando ti ha visto nudo, e si è accorta che la tua differenza fisica le avrebbe fatto male, e ha cercato di allontanarsi, tu hai usato la forza per trattenerla; finché non è intervenuto Duun no Lughn. Mi chiede un giudizio hatani.

(Era questo che pensava? È questo quello che ho fatto?)

— Cosa dici?

— Io… ero solo nella stanza con lei. Tutto ciò che dice potrebbe essere vero.

— Duun-hatani, tu eri testimone.

— Io sono entrato, e questa donna è corsa via — disse Duun. — Le ho ordinato io di andarsene. Ho visto un abbraccio da cui la donna cercava di liberarsi.

— Mentre tu entravi.

— Sì, maestro Tangan.

— Cos’altro hai osservato?

— Ira da parte del mio studente verso di me. Ha detto: “Avresti fatto meglio ad arrivare fra un po’”. La donna non ha detto niente. Più tardi il mio studente ha detto: “Volevo amarla”. E io gli ho spiegato che le differenze fisiche le avrebbero fatto del male.

— Lui questo lo sapeva?

— Poteva non rendersene conto.

— Tu sapevi?

— No. Sì. — Thorn si sforzò di riacquistare la padronanza di sé.

— L’ho spinta indietro, maestro Tangan. Emanava odore di paura, e io l’ho spinta indietro.

— Lontano da te.

— Mente — disse Betan. — È hatani, e mente con viso sincero.

— Cosa chiedi per lui?

— Rimandatelo a Dsonan. Non lasciatelo entrare nella Corporazione.

— Che cosa chiedi da lei, visitatore?

— Penso che sia una trappola — disse Thorn. — Penso che si tratti di un’altra prova, e che lei sia hatani.

— Perché dici questo?

— Si muove come un’hatani.

— Ti sbagli, giovane uomo. Non è hatani, né libera né della Corporazione.

— È ghota — disse Duun. — O io sono cieco. Ed è stata pazza a venire qui.

Betan rimase immobile. (Ghota?) Thorn la fissò. Si era aspettato uomini con pistole. (Betan? Ghota?)

— Questo è il mio giudizio — disse Tangan. — Lascia questa casa. Non inizierò una guerra fra corporazioni. Hai mezz’ora per raggiungere l’aeroporto. Prendi seriamente il mio avvertimento.

Betan si girò e camminò, cautamente, lungo il sentiero, oltre gli hatani sui massi, e su per i gradini all’estremità della sala. Thorn tremava, ma era il freddo; erano le bruciature. Dov’era stata Betan, dov’era stata una parte della sua giovinezza, c’era un vuoto freddo.

— Un’altra domanda.

— Maestro? — Thorn si voltò e guardò il vecchio sulla roccia.

— Qual è la cosa che hai fatto oggi di cui ti senti più orgoglioso?

Thorn sbatté le palpebre. Questo lo tradì, e si sentì umiliato, ma gli occhi gli bruciavano, e le ginocchia gli tremavano. — Avere portato qui il mantello di Duun.

Ci furono risate in tutta la sala, pungenti, rauche, dure.

— È un trucco dei novizi — spiegò Tangan. La sua faccia si rilassò e divenne gentile. — I novizi che crescono nella Corporazione non ci cascano mai, tranne il primo giorno, quando arrivano. Ma a te non era stato detto. E tu onori il tuo maestro. Ridono perché hai trovato quattro pietre, oltre all’acqua e al cibo. Questo è molto raro. Io ti rimprovero di aver versato l’acqua. Ma ti sei rifatto sudando intorno al fuoco. Quelle bruciature diventeranno cicatrici, giovane. E penso che dovresti fartele medicare, prima che ti rimandiamo indietro.

(Ho perso, dunque.)

— Sarai apprendista di Duun no Lughn fino a quando gli parrà opportuno. Da quel momento, farai come parrà opportuno a te. Hai la saggezza di trattenerti dal giudicare quando ti manca la conoscenza. Questo è molto importante. Sii gentile. Sii pietoso. Dai giudizi sinceri. Tutte le altre regole della Corporazione scaturiscono da queste tre. Un libero hatani giudica, e la Corporazione non si intromette. Quando giudicherai tu, la Corporazione sarà disposta a versare il sangue per sostenerti. Ricorda sempre questo, Haras-hatani.

— Sì, maestro Tangan. — E per un momento la faccia del maestro gli permise di vedere oltre un’altra barriera. (È un uomo preoccupato. Gli hatani lassù lo vedono, e per la sorpresa, si sono messi a ridere. C’è rabbia in questa sala.) Posò lo sguardo su Duun, e vide l’altra metà di quell’espressione. (Sanno qualcosa. No. Duun sa, e Tangan l’ha scoperto.)

— Accompagnalo a medicare quelle bruciature, Duun-hatani.

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