— Certo non ha reso le cose più facili — disse Ellud, con il rapporto che gli riluceva in grembo. Lo gettò da parte, e la superficie ottica si adagiò sulla pila di vera carta, continuando a brillare con le sue lettere spettrali. — Ho dato una lavata di capo al mio uomo. Non so perché l’ho scelto. Ma dannazione, Duun… tu hai dato il benestare.
— Per i suoi difetti — disse Duun. — Come per le sue virtù. Non mi sono mai aspettato la perfezione. Non la voglio. Per questo mi sono attenuto alle tue scelte.
— Maledetti trucchi hatani — disse Ellud dopo un momento. — Capisco cosa stai facendo ma non mi piace che tu lo faccia con i miei uomini. Cloen avrebbe potuto essere ucciso.
— Non credo. In questo, ho avuto ragione.
— C’è un rapporto su quello che è successo. C’erano troppi testimoni. Non posso nasconderlo. E con tutti i ficcanasi del concilio in giro, vorrei proprio poterlo fare.
— Quello che è successo è stata colpa mia. Forza senza controllo. Contavo su altri due anni a Sheon. Haras si è controllato. Ti dirò una cosa che dovrebbe essere evidente. Le soluzioni hatani sono troppo vaste per le menti giovani. La sua moralità è adeguata per controllare la sua forza, ma non per usarla.
— Farne un hatani… Duun, è questo che ha messo in allarme il concilio…
— Lo so.
— Pensavo che fosse un modo di dire. Nel senso che era tutto quello che potevi insegnargli. Che sapevi come insegnargli.
— Non esagerare.
— Be’, che era più facile. Ma tu intendi andare fino in fondo. Quando gli è giunta voce…
— Cerca di essere discreto.
— Se la Corporazione riuscisse a inventare qualcosa… di intelligente: uno status a metà strada…
— Non c’è metà strada. Dargli quello che gli ho dato… avendo soltanto l’autocontrollo per governarlo? No.
Ellud allungò una mano e spense il registratore. C’era dello sgomento sulla sua faccia. Terrore. — Per amore degli dei, Duun. Hai perso la ragione? Cosa cerchi di fare? Cosa cerchi di fare, Duun?
— Shbit avrà ricevuto la mia lettera, ormai. E al concilio le acque saranno meno agitate.
Un breve silenzio, teso. — Cosa gli hai detto?
— Gli ho inviato i miei saluti. Mi sono felicitato per la designazione del concilio. Gli ho augurato buona salute e mi sono firmato. Una lettera semplice alla quale non ha però risposto. Tornando a noi, aspetto che le tue difficoltà coi rifornimenti si appianino; lentamente, ma che si appianino.
— Non sei l’uomo che conoscevo. — Ellud giocherellò con il bordo del kilt. — Non so cosa pensare di te.
— Vecchio amico. Hai avuto il coraggio di restare in carica fino a ora. Ho fiducia che continuerai.
— Devo. Senza questa carica sono un bersaglio scoperto: mi salterebbero addosso, Shbit e i suoi. Maledizione, non ho scelta. Mi mangerebbero vivo.
— Ci sono io. Abbi fiducia in me.
Ellud lo fissò.
— Cloen ti ha colpito? — chiese Duun quando Thorn tornò a casa. Duun era appoggiato alla porta del suo studio, con le orecchie ritte.
— No — disse Thorn. Non c’era soddisfazione nel suo tono. (Quante cose controlli, Duun? Lo sai già? Lo sai sempre?) Duun non gli offrì alcun indizio. — “Cloen”, gli ho detto. “Ho sbagliato a fare quello che ho fatto. Ti permetto di colpirmi una volta.” Cloen è rimasto lì con le orecchie abbassate, e ha sollevato la mano facendo segno di no. Poi se ne è andato a fare le sue cose.
Duun si voltò ed entrò nel suo studio.
— Duun? — Thorn andò fino alla porta. Duun si sedette e accese il computer. — Duun, ho fatto quello che volevi?
— Hai fatto quello che volevo?
Thorn rimase un momento in silenzio. — Ho cercato, Duun.
— Ho sentito non posso?
— No, Duun.
I suoni erano diventati meno aspri. Thorn era seduto davanti al registratore, con gli occhi chiusi; le sue labbra si muovevano ripetendo il nastro: quando lo risentì, era uguale.
— Sembra identico — disse Cloen. — Non riesco a sentire la differenza.
Cloen, da quel giorno, era cauto. La sua faccia non tradiva altro che rispetto. E paura; c’era anche quella.
— Allora ho finito.
— Ce n’è un altro. — Cloen si leccò le labbra, con aria diffidente. — È arrivato da poco. Non l’ho chiesto io — aggiunse in fretta.
Doveva credergli. Cloen non aveva l’aria di mentire. Prese il nastro dalla borsa e glielo porse.
— Preferisco la chimica — mormorò Thorn. Si sentiva più a suo agio con loro dal giorno in cui Cloen non l’aveva colpito. Poteva dire cose del genere, parlare delle necessità di ogni giorno, come facevano loro. Assumeva quell’atteggiamento per tutta la durata delle lezioni, da quando entrava a quando usciva dalla porta. Si era accorto che così si sentivano più a loro agio con lui. Qualche volta riusciva a ridere con loro, perché si era convinto che non era oggetto di riso. O se lo era stato, non aveva molto importanza.
(Ma odio queste lezioni di pronuncia. Odio questa assurdità. Penso che gli piaccia farmele fare: come una rivincita nei confronti dell’hatani che non possono sconfiggere in altro modo. Anch’io gli gioco qualche scherzo. Posso fare sì che il computer dia a Sphitti una lettura che non si aspetterebbe mai. Penso che lo troverebbe divertente. Vorrei poter studiare più fisica, e meno di questa roba.)
(Vorrei che Betan sedesse con me, invece di Cloen.)
(Non oso pensarlo. Duun mi romperebbe un braccio?)
— Grazie — disse asciutto, e infilò la nuova cassetta nel registratore.
Cloen lo lasciò solo. Crescevano in modo diverso: le spalle di Thorn si facevano più larghe mentre i segni da bambino del povero Cloen non accennavano ad andarsene.
Betan rimase assente per un po’ di tempo. (“È primavera”, disse Elanhen, facendo avvampare la faccia di Thorn. “Ha preso un neutralizzante, ma vuole farsi qualche giorno di vacanza. Tornerà.”)
— È primavera — disse Duun quella sera. — So che Betan si è presa una vacanza.
— Sì — disse Thorn. Aveva il dkin sulle ginocchia, lo stava accordando. Si sentì gelare dentro, per delle ragioni che non riusciva chiaramente a definire, fatta eccezione per la faccenda di Betan, un argomento che teneva separato da tutto il resto. E Duun sapeva invariabilmente scoprire queste cose.
— Mi hanno detto che usava il neutralizzante, ma voleva prendersi una vacanza. Immagino che abbia gualche amico.
— È probabile. — disse Duun.
— Tu devi essere cortese a scuola. Gli uomini non hanno stagioni. Ma le loro sorelle, le loro madri e le loro amiche sì. Ed Elanhen, Cloen e Sphitti hanno delle vite fuori dalla scuola, ricorda. Non metterli sotto pressione.
(E io?) Tu sei hatani, avrebbe risposto Duun, se Thorn fosse stato tanto sciocco da porre la domanda. Gli hatani non hanno bisogni.
(Dei, non voglio parlare di questo con lui, non oggi.)
Betan tornò. Arrivò un giorno, tutta sorrisi, e quella che era stata una società di maschi, fatta di cortesie guardinghe e di pochi scherzi, tornò a vivere.
(Come se il cuore fosse tornato al suo posto.) Thorn sentì qualcosa ingrandirsi dentro di sé, come per il venire meno di un’ansia. La primavera era finita.
— Avete sentito la mia mancanza? — chiese Betan.
Gli altri mossero le orecchie e girarono gli occhi: lo facevano abitualmente quando parlavano di cose proibite e volgari.
— Sì — disse semplicemente Thorn. La dignità pareva la scelta migliore. (Scherzano sul fatto che è nella stagione. Scommetto che nessuno di loro si è avvicinato a una donna, questa primavera.)
(E neppure io. Né intendo farlo. Un hatani non ha nulla. Non possiede nulla. Betan ha delle proprietà in città. Non ha bisogno di sposarsi. Potrebbe allevare tutti i bambini che vuole da sola.) Fra Duun e le barzellette sconce, aveva imparato alcune cose. (Ma scommetto che qualcuno le farà una buona offerta.)
— Quando Ghosan-hatani arrivò nel villaggio di Elanten, due sorelle le chiesero di fare da giudice nella contesa che le opponeva al loro marito. Erano sposate allo stesso uomo da cinque anni, ciascuna in successione. Tutti e tre erano vasai. E poiché a lui era stato promesso un negozio di vasaio, in eredità da sua madre, poteva sembrare un matrimonio d’interesse. Durante il quarto anno della prima sorella, la seconda sorella rimase incinta di un bambino che era solo suo. Il marito rifiutò di consumare il secondo matrimonio se la donna non diseredava questo figlio. Così facendo, entrambe le donne avrebbero perso tutto ciò che avevano investito in quel negozio. “È una faccenda da poco”, disse Ghosan-hatani quando le sorelle vennero da lei. “Giudicatela da voi.” Naturalmente il marito non c’era: non desiderava affatto giudizi e sentenze sull’argomento. La seconda sorella guardò Ghosan e perse il coraggio. “Andiamocene”, disse alla sorella. “Siamo state sciocche a rivolgerci a questa hatani.” E se ne andò. Ma la prima rimase. “Voglio un giudizio” disse. Così Ghosan-hatani andò di porta in porta, a Elanten, chiedendo a tutti, compreso il magistrato, ciò che sapevano. E tutti confermarono ciò che avevano detto le sorelle. “Datemi una penna”, disse Ghosan. Il magistrato diede all’hatani una penna. E Ghosan scrisse nel registro della città che il negozio apparteneva al bambino e ai suoi discendenti; e se non a loro, apparteneva al villaggio di Elanten.
— Avranno odiato il bambino — obiettò Thorn.
— Forse — disse Duun. — Ma quando il bambino fosse cresciuto, e il marito non più in forze, cosa avrebbe impedito di buttare fuori il marito? Il marito non solo consumò il matrimonio: avrebbe addirittura voluto sposare le donne per sempre; ma loro lo sposarono solo un anno alla volta, per il resto della sua vita, anche se lui era molto gentile con loro e con il bambino. L’industria esiste ancora a Elanten, ed esporta in tutto il mondo.
— Gli hatani si sposano? — chiese Thorn. Stava pensando a Betan. Il cuore gli batteva forte. (Dovevo chiederlo? Non era lì il nocciolo della questione.) Ma c’era una sensazione che gli veniva di notte, quando aveva sogni vaghi, inquietanti, e si svegliava vergognandosi di se stesso. Duun non diceva niente, in queste occasioni, Duun si limitava a guardarlo con quell’aria cauta e non faceva nulla per rassicurarlo. (Duun fa queste cose di notte? C’è qualcosa di sbagliato in me. Perché non dovrebbe essere così? Chi erano mio padre e mia madre? Ero come quel bambino, io?)
(Forse qualche giudizio hatani mi ha portato via da mia madre? Un giudizio di Duun?)
— Ce ne sono degli esempi — disse Duun.
— Tu sei mai stato sposato?
— Parecchie volte.
Thorn ne fu sconvolto. (Ha fatto… quello… con una donna.) Sentiva il volto infiammarsi. (Io potrei.) Pensò ai foenin nei boschi. E si mosse a disagio, stringendosi le ginocchia. (Penso a qualcos’altro. Cosa ha fatto ancora Duun? Cosa gli ha procurato quelle cicatrici? Si tratta sempre di quella storia?)
— C’era un hatani di nome Ehonin — disse Duun. — Ebbe una figlia con una donna che non era sua moglie. Questa figlia, quando fu cresciuta, si recò in un’altra provincia, dove allora stava Ehonin. Gli chiese di giudicare fra lei e lui, dal momento che sua madre si era sposata e l’aveva ripudiata. Ehonin la fece hatani, ma la ragazza morì durante l’istruzione. Questo fu il patrimonio che lui le destinò. Ehonin sapeva che non era in grado di diventare hatani: era troppo debole per riuscirci. Le diede però quello che aveva. Uccidere la moglie non sarebbe servito a niente.
— Avrebbe potuto fare sposare la figlia.
— Questa sarebbe stata un’altra soluzione, ma non c’era nessuno a cui sposarla. Non poteva tirare in ballo gente estranea alla faccenda. Questo non è mai giusto. Quando l’hatani stesso è coinvolto, i giudizi non sono mai come dovrebbero essere: meno persone ci sono nel caso da giudicare, minori sono le soluzioni disponibili.
— Avrebbe potuto obbligare il marito della moglie ad adottare la figlia!
— Giusto, visto che c’era un marito. Se la ragazza gli avesse chiesto di giudicare tra sé e il marito della madre, avrebbe potuto fare così. Anche in base a questo, Ehonin sospettò che non sarebbe diventata hatani. Aveva chiesto in fretta, pur avendo avuto tempo per pensare. Oppure non voleva avere nulla a che fare con il marito. Anche questo è possibile. In ogni caso, l’hatani non aveva nulla su cui lavorare: andare dalla madre e chiederle la verità sarebbe stato inutile. Non si poteva ricorrere a lei. E la figlia non l’aveva chiesto. Tutto questo faceva di lui e della figlia le principali parti in causa. Non aveva altra risposta.
— Se non gli avesse chiesto una soluzione hatani, lui avrebbe potuto aiutarla.
— In effetti sì.
— Fu una sciocca, Duun-hatani.
— Era anche molto giovane e adirata. E odiava suo padre. Nessuna di queste cose l’aiutò.
— Non avrebbe potuto metterla in guardia?
— Era abbastanza cresciuta da attraversare a piedi una provincia. A che poteva servire metterla in guardia? Ma forse lo fece. L’ira rende molto sciocchi.
— Questa è la velocità del sistema attraverso il braccio della galassia.
— È assoluta? — chiese Thorn. Aveva imparato a chiedere, ed Elanhen pareva compiaciuto. — No — rispose. — Ma in questo caso possiamo considerarla tale…
Erano tornati alla fisica. Almeno due giorni su cinque.
C’era la storia. — …Nel 645, Elhoen calcolò che il mondo era rotondo. Questa fu la sua prova…
— … nel 1439 gli hatani abolirono la corporazione shothoen, e al suo posto istituirono la lega dei mercanti…
— … nel 1492 la ferrovia di Mathog si unì alla linea di Bigon, e delle città sorsero lungo la strada ferrata…
— … nel 1503, Agohit fece il primo volo con un aereo a motore. Intorno al 1530, Tabisit-tanun compì la trasvolata di Mathog… precipitò nel tentativo di volare sul polo. Suo figlio e sua figlia eriditarono la sua quota nella corporazione, e la figlia precipitò nel secondo tentativo, quando il ghiaccio sulle ali la costrinse ad atterrare nella baia di Gltonig. Questo fu il suo ultimo messaggio radio. L’aereo fu ritrovato, ma di lei nessuna traccia. Il figlio riuscì nell’impresa nel 1541.
— … Dsonan divenne capitale…
— … La lega di Dsonan conquistò Mathog. Bigon resistette. Gli hatani si rifiutarono di farsi coinvolgere senza un appello da parte di Bigon, e ci fu spargimento di sangue finché le due parti chiesero una mediazione. Fu la prima volta in cui si usarono aeroplani per…
— … vennero sviluppate per la prima volta le bombe-razzo…
Provò un grande disagio. Si voltò, in cerca di aiuto… non da Cloen. Nella stanza, gli altri erano seduti alle loro scrivanie. Prese in grembo la tastiera e batté il nome di Betan.
“S-Ì?” apparve in lettere bianche, sulla parte bassa dello schermo.
Thorn esitò. Batté: “I-n c-h-e a-n-n-o s-i-a-m-o?” Era rosso in faccia. Attese una risposta, con il cuore che gli batteva velocemente. Sullo schermo non apparve nulla. Alzò gli occhi e vide Betan alzarsi e venire da lui con un’espressione perplessa sul volto.
— Non ho bisogno di aiuto — disse Thorn. — Era solo una domanda.
Betan guardò lo schermo, e poi lui. Le orecchie di Betan andarono su e giù, e le sue labbra delicate si strinsero. Standogli così vicino, aveva un odore caldo, di fiori. Thorn avrebbe voluto essere a Sheon, avrebbe voluto che il mondo fosse semplice come lo era stato fra quelle montagne, con gli odori della terra e della polvere, e le risposte che conosceva. — È il 1759 — disse lei. Degli abissi gli si aprirono intorno. Senza dubbio Betan lo giudicava uno sciocco. Tutti loro erano cresciuti nel mondo, mentre lui aveva avuto solo Sheon. Betan si mise a ridere. — Perché?
— Non mi ero mai posto la domanda, ecco tutto. — Chiamò sullo schermo un’altra pagina. Finiva con il 1600. — Ho bisogno di una nuova cassetta.
Betan si sedette sul bordo della scrivania, gli appoggiò una mano sul ginocchio. Il tocco di quella mano lo infiammava. Si guardò disperatamente in giro, cercando con la coda dell’occhio dove fossero gli altri, ma erano tutti seduti alle scrivanie.
— Scusami — disse Betan. — Non avrei dovuto ridere. — L’odore di lei era diverso e caldo, e il cuore di Thorn batteva forte. Betan gli premeva sul petto e sul ginocchio, e gli stringeva la gamba. Lui sperava che tirasse via la mano prima che succedesse qualcos’altro. — Sheon non è proprio la capitale del mondo, vero? Senti, se hai bisogno di aiuto, posso restare con te.
— Duun mi vuole in palestra per mezzogiorno.
— Ah. — Gli diede una pacca sulla gamba e si alzò. — Ma è il 1759. Il 19 di ptosin. Fuori è estate.
Thorn sentì improvvisamente l’oppressione delle pareti bianche della scuola; la falsità delle finestre dietro le quali (talvolta) si sentiva il rumore di macchine. Il mondo gli si chiuse intorno, come una mano che gli stringesse il cuore.
A Sheon le foglie erano verdi e i baccelli di hiyi si aprivano; i piccoli di foen uscivano trotterellando e soffiavano ai…
… bambini curiosi dei contadini. Mon, era il nome di uno. Adesso possedevano loro la casa. Vivevano nelle sue stanze. Sedevano vicino al fuoco, sulla sabbia calda, tutti insieme.
Mon. Mon. Mon. Lo odiava.
La città gli si chiuse intorno, imprigionandolo. Ma era colpa sua. Tutta colpa sua. La sua differenza ne era la causa.
— Haras?
— Non posso.
Betan si alzò e tornò alla sua scrivania, sedendo con le gambe incrociate, rivolgendogli la schiena. Thorn riprese in mano la tastiera e guardò lo schermo.
Arrivò un messaggio. “BETAN: Domani, allora. Posso rispondere a delle domande, cose che ti angustiano.”
Lo osservò svolgersi tre volte. Il suo cuore batteva sempre più forte. “S-ì.”
Thorn si rimise in piedi e si pulì dalla sabbia. — Sì. Ho capito.
— Ancora — disse Duun. Non capitava spesso che Duun si mettesse solo il piccolo kilt per gli esercizi. Quel giorno l’aveva fatto, e le sue cicatrici erano in evidenza, come lampi che attraversavano la pelliccia grigia e nera del torso e del braccio, uguali alle cicatrici della faccia. Avevano una terribile simmetria che aveva sempre impressionato Thorn, anche prima di sapere che erano cicatrici. Nessuno al mondo era segnato come Duun, e aveva solo mezza mano destra. Nessuno sorrideva in quella maniera insistente che, Thorn lo sapeva, era sufficiente a intimidire qualsiasi avversario. In quel momento intimidiva lui. (Vuole farmi sudare oggi. Ha qualcosa in mente.) Si ricordò di colpo, che era molto, molto tempo che Duun lo lasciava in pace. (Per non interrompere i miei studi… senza dubbio era questa la ragione. Oppure sono migliorato, e non prova a…)
Questo pensiero svanì in un tentativo fallito, negli interminabili istanti di una caduta, quando Duun gli tolse la terra da sotto i piedi.
Duun spesso sorrideva in momenti del genere. Questa volta rimase fermo, con una faccia scura e non accennò ad alcun attacco. Con le mani appoggiate ai fianchi, guardò invece Thorn che si riprendeva dal capitombolo.
— Ancora.
— Duun-hatani, fammi vedere un’altra volta quella mossa di fianco.
Pazientemente Duun gliela fece vedere. Thorn si chinò e provò un trucco, per scherzo.
Le mani di Duun gli si chiusero intorno, e lo buttarono a terra. (Se ne è accorto.) Duun avrebbe potuto ridere, ma la sua faccia non mutò espressione. Thorn esitò un attimo, sul pavimento, dove era al sicuro, guardandolo. (Dei. Ha qualcosa in mente. C’è qualcosa che non va.) Thorn si scosse dalla testa l’intontimento, i pensieri, la giornata, e si rimise in piedi, concentrandosi il più possibile, senza pensare a nulla: nella sua mente solo il ritmo della danza, la luce e la polvere. Non era in città. Era a Sheon, in mezzo al cortile, a mezzogiorno, e Duun lo affrontava nella più assoluta semplicità.
Si mosse, schivò, colpì, si ritrasse, girò.
— Meglio — disse Duun, e quella sola parola gli scivolò lungo i nervi come dita sulle corde del dkin. — Meglio. Ora attacca.
Senza esitazioni, Thorn colpì. Duun rotolò sulla sabbia e si rimise in piedi in una sola mossa.
Risposta e attacco.
Ancora.
Ancora. Thorn evitò un calcio all’inguine e colpì.
Le sue mani incontrarono la carne, e lui girò su se stesso appena in tempo per vedere Duun che si alzava dalla sabbia. Per un soffio evitò un calcio.
Tempo chiamò Thorn, sollevando una mano. Respirava in grandi ansiti. Duun si raddrizzò, ma non del tutto, respirando alla stessa maniera, e si mise una mano sul fianco. (Dei, l’ho preso, gli ho fatto male. O dei, le sue costole…)
— Sei stato bravo — disse Duun. — Hai passato la mia guardia.
(Non si sarebbe fermato. Se non avessi chiesto l’alt…)
(… mi sarebbe venuto addosso. Mi avrebbe preso.) Non appena Thorn se ne rese conto, le ginocchia cominciarono a tremargli.
(Non un altro attacco, per favore Duun, no…)
L’ombra svanì dagli occhi di Duun e tornò la ragione. Si alzò in piedi, rizzò le orecchie, e fece un sorriso con il lato sinistro della bocca, che unito alla piega permanente su quello destro, gli dava un’aria d’ingannevole innocenza.
— Un bagno caldo — disse Duun.
— Tutti e due. Stai tremando, pesciolino.
— Non l’ho fatto apposta. Credevo…
— Domani faremo delle figure semplici. Me l’aspettavo. Al punto in cui siamo, possiamo farci male. Basta con gli esercizi senza regola. È diventato troppo pericoloso.
(Non ho vinto. Non l’ho battuto, non c’è modo di batterlo senza ucciderlo…)
Duun si allontanò. Zoppicava, ma non molto. Thorn si pulì la faccia dal sudore, e si accorse che la mano gli tremava.
(Tutte le volte che mi ha promesso… l’ha sempre saputo).
Non riusciva ad applicarsi alle lezioni. I numeri scorrevano senza significato. E se studiava la storia, le date gli rimanevano nella mente, ma i nomi gli sfuggivano.
— C’è qualcosa che ti preoccupa — disse Sphitti. — Fai gli esercizi fonetici. Quelli puoi farli.
Lo sentì come un insulto. (Sono hatani, avrebbe voluto gridargli; niente mi preoccupa.) Ma purtroppo era la verità. Cloen gli girava attorno guardingo. Elanhen lavorava in silenzio alla tastiera, su qualcosa di astruso e statistico, mentre Betan lanciava occhiate a Thorn da sopra la spalla, senza dire nulla.
Posso aiutarti? Disse il messaggio sul suo schermo.
Dopo, rispose lui, e nient’altro.
(Duun l’aveva truffato. Duun l’aveva manovrato per tutta la vita. Ma perché Duun, aveva passato tutto quel tempo dedicandosi a un solo allievo? Perché Duun era così ricco, e i contadini vivevano in una casa col tetto di lamiera? Ovviamente non adesso che avevano ottenuto Sheon. Perché Duun aveva quel posto, che era sulla cima di uno degli edifici più alti di Dsonan, la capitale del mondo, dov’era il potere? Perché proprio io? Perché Duun? Perché tanta fatica?)
(Perché so così poco delle cose che voglio sapere, e tanto di quelle che non m’interessano? Perché chiudono a chiave le porte, e le guardie ci accompagnano sempre in giro per l’edificio? Guardie per cosa? Per noi o per qualcun altro?)
(Una volta vivevo qui, ha detto Duun).
(Ellud è un vecchio amico.)
(Sono cresciuto a Sheon. Come Duun. Dove ha conosciuto Ellud?)
I numeri si fecero confusi. Thorn, inserì la funzione alfabetica.
Betan Betan Betan, scrisse, e ancora. Betan, e riempì lo schermo con il tasto ripetitore.
Le ore si trascinarono e quando l’orologio segnò mezzogiorno, spensero in silenzio i terminali e si alzarono dalle loro scrivanie. Ma Thorn non spense il suo terminale. Aveva detto alla guardia che sarebbe rimasto a lavorare. — Sono indietro con la storia — disse quando Shitti glielo chiese. Gli altri uscirono senza rivolgergli la parola, chiacchierando fra loro… forse Betan aveva cambiato idea, forse si era dimenticata, forse non aveva dato nessuna importanza alla cosa. Sentì la porta chiudersi, si voltò e vide Betan rientrare.
Betan si diresse alla scrivania di Thorn ed entrambi si sedettero sul bordo, con le ginocchia vicine. Lei aveva un’aria grave, e lo guardava con quella calma che solo lei aveva, neppure Duun. Si era accorta di qualcosa che non andava. Thorn lo sapeva, e il suo cuore cominciò a battere più forte mentre il respiro gli si fece più rapido; ma lei odorava di fiori e di se stessa, come il sole e il calore. — C’è qualcosa — disse lei, lasciando traspirare dal volto una grande ansia. Nessuno, Thorn ne era certo, si rivolgeva a lui così apertamente. — Cos’è?
— Quasi ho battuto Duun ieri. — Thorn rimase turbato per la facilità con cui quell’affermazione esagerata gli era venuta. E non poté più tirarla indietro.
— Si è arrabbiato?
— Non credo. — Il suo respiro si fece più rapido. — Betan, io sono sempre vissuto a Sheon… — (ma questo lei lo sa. Che modo stupido di cominciare) — …non conosco la città, non sono mai stato fuori, tranne una volta, quando sono arrivato. Tu vai fuori molto, vero?
— Oh, sì. Vado sulla costa ogni primavera.
(Facendogli venire in mente battute scurrili e barzellette da studenti, e qualcosa di mistico conosciuto da ogni maschio al mondo tranne che da lui, insensibile agli odori e nudo come un essere appena nato.) Betan gli sedeva vicina, con le ginocchia che toccavano le sue e con i grandi occhi scuri puntati su di lui. — Non ho mai imparato… — disse Thorn, perdendo subito il filo del discorso. (No. Lei non era hatani e lui non aveva bisogno di esserlo. Per una volta non aveva bisogno di essere complicato: doveva essere semplice con Betan, che una volta lo spaventava, e adesso gli aveva messo una mano sul ginocchio, e la faceva scivolare su.) Thron mise la mano su quella di lei. Sentì la pelliccia liscia come seta, e i muscoli scivolare sotto la pelle, tesi e vivi, mentre lei si piegava, si stirava e gli si appoggiava contro, con una mano sul suo corpo. — Non ho mai imparato…
Thorn sentì una serie di cose succedergli tutte insieme, cose interamente al di là del suo controllo. D’improvviso fu molto chiaro cosa voleva, e quello che il suo corpo stava facendo, da solo. La strinse a sé, e assaporò quella dolce sensazione finché osò, fino a quando non sentì che tutto gli scivolava via di nuovo. Le prese allora la cintura, slacciandogliela in fretta. Lei gli slacciò la sua. La testa di Betan gli scivolò sotto il mento, mentre lei si chinava sopra di lui; era tutta calda e il suo odore era cambiato.
Era paura. Thorn si tirò indietro, la scostò da sé tenendola per le braccia, e lei si agitò nella sua stretta… — Betan!
La porta si aprì alle sue spalle. Un uomo entrò dall’anticamera.
Betan si divincolò dalla stretta di Thorn, e si rimise in piedi.
Duun.
Betan si fermò, poi si rannicchiò e indietreggiò. Thorn si alzò. — Maledizione… Duun!
Duun si scostò dalla porta e fece segno a Betan di uscire. Lei esitò.
— Esci! — gridò Thorn. (Dei, la ucciderà…) — Betan! Esci!
Lei uscì precipitosamente nell’anticamera, poi dalla porta d’ingresso, come una preda in fuga. Duun la guardò uscire, poi fissò Thorn.
Thorn rimase con un piede sulla sabbia e un ginocchio sulla scrivania, e tremava per la reazione nervosa, mentre si rimetteva i vestiti. Duun era immobile come se fosse disposto ad aspettare per sempre.
— Lasciami solo — disse Thorn. — Duun, per amore degli dei, lasciami solo!
— Parleremo dopo. Torniamo a casa, Haras.
— Non ho nessuna casa! Un hatani non ha casa! Non ha niente…
— Parleremo dopo, Thorn.
Thorn era tutta una convulsione. Non c’era scelta. (Non c’è mai stata scelta. Torna a casa, pesciolino. Rinuncia, pesciolino. Fai finta che tutto sia a posto.)
(Ma lei ha avuto paura. Si è spaventata. Ha avuto paura di me…)
— Vieni — disse Duun.
— Avresti fatto meglio ad arrivare fra un po’!
Duun non disse niente. Tese la mano verso la porta. Thorn si staccò dalla scrivania, e la vista gli si fece indistinta. (Stai piangendo, Thorn.) Uscì come in una nebbia, con Duun a fianco; percorsero il corridoio fino all’ascensore rimanendo in completo silenzio fino alla porta della loro abitazione dove la guardia si tenne in disparte, come se avesse capito qualcosa.
Duun chiuse la porta e Thorn si diresse verso la sua stanza.
— Non c’era scelta — disse Duun. — Sai cosa le hai fatto?
— Non le avrei fatto del male! — Si girò di scatto, fissando Duun, dall’altra parte del corridoio. — Maledizione, non le avrei…
— Dovrò spiegarti meglio l’anatomia.
— Non le avrei fatto del male! Avrei… avrei… — (Non posso, non potrei; ma toccarla, ed essere toccato da lei…)
— Immagino che ci avresti provato. — Freddamente, dall’alto della sua età e superiorità. — Il buon senso non c’era, Thorn. Lo sai.
— Dimmi. Spiegami. Dei, non m’importa quello che mi fai, ma le sei piombato addosso in quella maniera… Cosa credi di averle fatto, Duun-hatani? È questa la tua finezza?
— Ti ho promesso una risposta. Anni fa mi facesti una domanda, e io ti promisi la risposta quando saresti stato capace di battermi. Bene, ieri ci sei andato vicino. E questo basta.
Thorn rimase di sasso. Poi subentrò la ragione. Alzò una mano.
— Maledizione, maledizione, mi stai manovrando! Conosco i tuoi trucchi, me li hai insegnati. So quello che stai facendo, Duun!
— Ti sto offrendo la risposta. Ecco tutto. Cosa sei, da dove vieni…
— O dei, non voglio sentirla! - Thorn si voltò e si mise a correre. Poi chiuse la porta della sua stanza, e ci si appoggiò contro, tremando.
Si sentì l’intercom. — Quando vuoi, esci, Thorn. Non penso male di te. Non per questo. Anche un hatani può ricevere delle ferite. E questa è una grande ferita. Esci quando ti sentirai di vedermi. Ti aspetterò. Ti aspetterò, Thorn.
Aveva gli occhi asciutti quando uscì. Aprì la porta e percorse il corridoio fino alla sala. Duun era lì, seduto sul rialzo alla base della parete. Le finestre erano tutte stelle e buio: la notte. E forse era notte davvero. Duun non lo guardò subito, quando Thorn attraversò la sala e si sedette sul rialzo, al suo fianco.
Allora Duun girò la testa e lo guardò; non si sentiva alcun rumore, tranne qualcosa di meccanico dietro la finestra e un sussurro di aria dai condotti.
— Sei venuto per la risposta? — chiese Duun.
— Sì — disse Thorn. Sedeva con la schiena dritta, le mani sulle cosce e le caviglie incrociate. Guardava fisso Duun.
— Hai studiato genetica — continuò Duun. — Sai dunque cosa governa l’ereditarietà.
(Muoviti. Affonda in fretta il coltello, Duun. O dei, non voglio restarmene seduto a sentirlo.) — Sì. Capisco.
— Capisci che i geni ti rendono quello che sei; che ogni tuo tratto non è frutto del caso. Un insieme armonioso, Haras.
— Tu sei mio padre?
— No. Non hai padre. Né madre. Sei un esperimento. Una prova, se vuoi…
Thorn si sentiva stranamente insensibile. La voce di Duun era sospesa da qualche parte nella penombra senza tempo della finestra. La notte si stendeva all’infinito, e lui l’ascoltava.
— Non ci credo — disse Thorn alla fine. Non perché non credesse di essere qualcosa di altrettanto terribile. Ma non gli sembrava possibile — Duun. La verità. Sono nato sbagliato…
— Non sbagliato. Nessuno l’ha mai detto. Ci sono delle cose giuste in te. Ma sei diverso. Un esperimento. Tu sai come ha luogo il concepimento. Sai che è possibile la manipolazione genetica…
— Non so come. — (Clinicamente. E con precisione, come una lezione. Sembrava che non stessero parlando di lui, ma di una cosa in un piatto o di un granello di polvere sospeso in aria.) — So che viene fatto. So che si possono mettere insieme dei geni, e produrre qualcosa che non esisteva prima.
— Sai che quando qualcuno vuole dei figli, e ci sono… impedimenti fisici… esistono sistemi per fare crescere l’embrione. Un ospite. Qualche volta volontario. In altri casi un sistema artificiale. Un utero artificiale. Così è avvenuto nel tuo caso.
(Una macchina. O dei, una macchina.)
— Non c’è nulla di particolare in questo — disse Duun. — È una cosa che hai in comune con mille, duemila persone normali che non avrebbero potuto nascere in altra maniera. La medicina fa meraviglie.
— Mi hanno fabbricato.
— Qualcosa del genere.
Si era sforzato di non piangere. Ma non ce la fece più e le lacrime parvero sgorgare dal nulla, gli scesero lungo le guance, senza fermarsi. — Quando mi stavano mettendo insieme in questo laboratorio… — Non riuscì a parlare, per un certo tempo, e Duun attese. Poi ricominciò. — Quando mi hanno fabbricato, si sono preoccupati di farlo due volte? C’è qualcun altro come me?
— Nessuno al mondo — disse Duun. — No.
— Perché? Per amore degli dei, perché?
— Chiamala curiosità. Ci sono senza dubbio ragioni adeguate, per i medici.
— I medici…
— Sono loro i tuoi padri, se vuoi. In un certo senso, lo è anche Ellud. O altri che hanno lavorato al programma.
— E tu chi sei?
— Una soluzione hatani.
Piccoli campanelli d’allarme cominciarono a suonare. Un formicolio di avvertimento. (Auto-conservazione. Perché preoccuparsi? Perché pensarci?) Ma c’era la paura.
— Per chi?
— Avrei potuto fare molte cose, ma ho scelto di darti la migliore possibilità di cui disponevo. L’unica che possa dare. Come Ehonin e sua figlia.
— Chi te l’ha chiesta?
Duun rimase a lungo silenzioso.
— Il governo.
— Ha chiesto una soluzione hatani? - L’enormità della cosa gli piombò addosso come un’ondata. Lo sguardo di Duun non lo lasciò un attimo.
— Tu sei uno dei miei compiti principali. Ti ho dato tutto quello che potevo. Continuerò a farlo. È tutto quello che posso fare.
Le stelle brillavano, traboccanti.
— Volevo amarla, Duun.
— Lo so.
— Voglio morire.
— Ti ho insegnato a combattere. Non a morire. Ti sto insegnando a trovare soluzioni.
— Trova questa.
— Mi è già stato chiesto.
Thorn ebbe un brivido e tutto il suo corpo cominciò a tremare.
— Vieni qui — disse Duun. Gli tese le mani. — Vieni, pesciolino.
Thorn andò. Era una consolazione patetica quella che Duun gli offriva, vergognosa per entrambi. Duun lo prese fra le braccia e lo tenne stretto, fino a quando i brividi cessarono. Dopo, Thorn rimase appoggiato alla spalla di Duun per molto tempo, e con le braccia di Duun che lo cullarono come avevano fatto un tempo, davanti al fuoco, a Sheon, quando lui era piccolo.
Dormì. Quando si svegliò, vide che Duun si era addormentato sopra di lui; la schiena gli faceva male, ed era ancora tutto vero.