Nessun messaggio giungeva dalla Ganngein. Da quattro giorni. Le scariche coprivano la voce della Nonnent. La terra parlava in codice, e la Deva non aveva possibilità di rispondere. Gatog rispondeva, costantemente, ma anche questo era in codice, anche quando era il codice della Deva le macchine lo decifravano. Raramente una voce, fino all’ultimo, quando Gatog cominciò a risplendere nell’oblò della Deva come una manciata di brillanti.
(Sembrava qualcosa di sinistro, fino a quando non l’abbiamo vista. È come un ornamento. Perché è lì?)
— Duun, cos’è questo posto?
Duun rimase in silenzio. Thorn tremava, guardando dal punto dove li aveva chiamati Ivogi. Era sciocco e forse era tutta la tensione accumulata. Ma pareva non esistesse altra destinazione. La terra e Gatog parlavano in una sorta di lingua arcana, scambiandosi segreti; e la terra si era risucchiata la Ganngein. “Dei”, era stato l’ultimo messaggio, o una parola molto simile. Le interferenze dalla Nonnent. - Sono dietro la terra — disse Duun. Si aspettavano una ripresa delle trasmissioni; e invece niente la Deva aveva chiesto alla Gatog. — Anche noi l’abbiamo persa — era stata la risposta: uno dei pochi messaggi non in codice che avevano ricevuto da quel posto misterioso.
(Possibile che il silenzio abbia tanto valore qui, a tanta distanza dalla terra?)
Le luci splendevano contro le stelle, bianche e oro; qui un gruppo, e più lontano un altro.
— Fra cinque minuti freniamo — disse Ivogi. — Andare a poppa — aggiunse Duun. La Deva non aveva posti a sufficienza per tutti. Dovettero così sistemarsi alla meno peggio in uno spazio ristretto, quello riservato appunto ai passeggeri durante le manovre; non c’erano oblò, solo imbottitura. Thorn andò con gli altri, Duun no.
Ma Duun venne da lui, dopo l’accensione dei razzi. — Dobbiamo metterci le tute per il trasbordo — disse.
Era un posto freddo, la Deva. Era grigia, e odorava di metallo gelido, di materiale elettrico, dei loro corpi e del loro cibo. La Deva era però un luogo conosciuto, e Thorn la guardò, mentre si allacciava la tuta. Guardava la Deva e pensava ai boschi di Sheon, e alla terra. La sua mente balzava dall’uno all’altro posto. E da lì alle luci splendenti.
(Duun, ho paura. Rivoglio il mondo, Duun, Voglio tornare a casa. Lì conoscevo ciò che mi circondava; ma passo da una cosa all’altra, e tu cambi, Duun, ti allontani da me, parli con Weig, parli con Ivogi, parli una lingua che non capisco, e hai perso l’interesse per me. Ti allontani sempre più.)
(Non guardarmi in quel modo. Non pensare di lasciarmi. Ti leggo dentro, Duun, e mi spaventi.)
— Addio — disse Ivogi, e il portello della Deva li espulse, impersonalmente come li aveva accolti.
La mano di Thorn stringeva il razzo di manovra, in quel buio implacabile. Galleggiava. I suoi occhi si muovevano freneticamente da una luce all’altra… un grande disco sospeso, grande come un edificio, o vicinissimo a loro; i suoi occhi rifiutavano di registrare la giusta prospettiva. Una rete metallica si stendeva sottilissima nel vuoto, punteggiata di luci. — Gatog — disse Duun, con una voce resa strana dalla radio. — Questo è il grande orecchio. È adibito all’ascolto. Ce n’è un altro, dall’altra parte del sistema solare, nell’orbita di Dothog.
(Cosa ascolta?) Ma Thorn non poté porre la domanda. La sua anima era intorpidita, scossa da troppe risposte. Duun lo trascinò con sé, indirizzandolo verso un altro giù, con un cambio di prospettiva talmente brusco che il suo senso dell’equilibrio gli lanciò messaggi di terrore. Un pozzo enorme si apriva davanti a loro, tutto illuminato di verde, e scendeva lungo un grande asse roteante fino a un nucleo; visto da lì, sembrava il mozzo di un’immensa ruota.
Un altro giro, e vide Weig e gli altri con le spalle rivolte a loro e le facce verso una grande impalcatura che imprigionava qualcosa da cui le luci non riuscivano a eliminare completamente il buio… pareva più antico delle travi scintillanti che lo circondavano: un cilindro di metallo, non più lucido.
— Quella è una nave — disse Duun. — La nave.
Thorn non disse nulla. Era lì sospeso, perso, tenuto solo dalla mano di Duun. Non desiderava più essere dentro, a qualsiasi posto, avrebbe quasi preferito restarsene sospeso lì per sempre, nella luce dei fari. (È questo il posto? È questo ciò che vale tanto? Andrò oltre questo punto, oppure siamo arrivati alla fine? Duun, Duun, è questa la tua soluzione?)
Duun lo teneva per mano, e si tuffò giù (o su) nel pozzo, che era verde come le foglie di Sheon. Le pareti ruotavano attorno a loro.
Nel cuore del pozzo, c’era un portello da cui sbocciava una luce dorata. Entrarono, seguiti da Weig e dagli altri.
Il portello si chiuse e loro entrarono in un’altra camera, dove c’erano parecchi pali metallici e un cartello che diceva dov’era il basso. Duun afferrò un palo, tenendo stretto Thorn. Mogannen e Ghindi fecero lo stesso; Spart e Weig ne presero un altro; ci fu allora una scossa violenta che li fece ondeggiare, poi salire.
— Tienti stretto — disse Duun, quando Thorn afferrò il palo. — Lo farà un’altra volta. Siamo diretti verso la parte esterna.
Era come una nave che si muovesse; il basso cominciò a sembrare di fianco, in maniera allarmante, e il cilindro cambiò lentamente inclinazione; poi la porta s’aprì.
C’erano attendenti, uomini e donne con normali kilt, tutti bianchi; Duun si tolse il casco, e Thorn fece altrettanto, insieme agli altri.
(Guardate bene. Guardatemi.) Thorn evitò di fissarli negli occhi, e porse il casco a una donna. — Sey Duun — disse un uomo — vorrebbero vederti in ufficio.
— Dovranno venire da me — replicò Duun. Si tolse la tuta, si sedette e si levò gli stivali. Un attendente fece per toccare i bagagli, ma Thorn glielo impedì mettendo un piede sulla cinghia. L’attendente cambiò idea e Duun sorrise, col suo sorriso storto. Ben fatto. Nonostante il lungo viaggio, Thorn sapeva cosa fare, anche se si trattava di una cosa marginale. Non toccarono né lui né Duun, e non posarono le mani sui bagagli.
Weig e i suoi uomini li salutarono. — Duun-hatani — disse Weig, e nient’altro. Pareva commosso. — Weig-tanun — esclamò Duun, sorridendo di sbieco. — Vieni a cercarmi, se qualcosa non va. Non tutte le mie soluzioni sono così maledettamente complicate.
— Me ne ricorderò — aggiunse Weig, e condusse via i suoi. Ghindi si voltò a guardare, e Thorm fece altrettanto.
— Vieni — disse Duun, alzandosi. La loro porta era un’altra, più stretta.
(Tubi. Il luogo roteante. Tubi e gente come me…)
Ma non c’era gente come lui. Thorn raccolse i bagagli e seguì Duun lungo un corridoio deserto, che si curvava verso l’alto, e che li portò in un’altra stanza.
Ad attenderli c’erano tre hatani. Thorn vide i loro mantelli grigi e provò un profondo sollievo. — Tagot, Desuuran, Egin — disse Duun. — Haras.
Si scambiarono i saluti. Thorn s’inchinò e guardò quelle facce caute di hatani, che non lasciavano minimamente trapelare le loro passioni. Stringeva i bagagli con mani a cui aderivano ancora gli ultimi frammenti di gelatina, ed era come se si trovasse battuto dai venti di sentimenti altrui, di paure altrui, di necessità altrui… e scoprì una calma improvvisa.
— Ci riposeremo — disse Duun.
— Duun-hatani. Haras. — Tagot s’incamminò davanti a loro per mostrargli la strada, gli altri due hatani dietro. L’ordine era stato stabilito con il più piccolo dei segnali: non c’era alcun dubbio che Duun permetteva ai due hatani di camminare alle sue spalle. Thorn era scarmigliato, con la ferita sul ginocchio di nuovo aperta, le cicatrici rosse delle bruciature sulle mani e i capelli lunghi, che gli cadevano sugli occhi; ma anche Duun era coperto di cicatrici e la sua pelliccia argentea era macchiata di sudore, sulle spalle e sul fondo della schiena.
(Abbiamo trovato un posto, finalmente? Qui ci sono degli hatani. È un posto da cui non verremo scacciati, questo?)
Superarono delle porte, scesero due piani con un ascensore e camminarono lungo un corridoio curvo, che avrebbe potuto essere quello di una torre in città, visto attraverso uno specchio distorto.
Aprirono una porta; in una piccola anticamera li aspettava un hatani che aprì, a sua volta, una porta su una grande stanza con il pavimento nudo, su cui dovevano camminare come se fosse un unico rialzo, con sopra altri rialzi. Le pareti erano nude e bianche. Un anziano hatani li aspettava. — Le vostre stanze sono sicure — disse, e uscì, silenzioso, avendo detto tutto ciò che vi era da dire.
— Cibo, bagno, letto — scandì Duun. Thorn mise giù il bagaglio e Duun lo aprì e ne prese il mantello. Dentro ce n’era avvolto un secondo. — Questo è tuo. — Duun lo appoggiò sul rialzo. — Quando ne avrai bisogno.
Thorn guardò il mantello e poi Duun. E Duun uscì, in cerca di quelle cose che aveva detto.
Non era completamente sicuro neppure lì: Duun lo sapeva. C’erano sempre, dove esistevano shonunin, mezzi per corrompere e mezzi per colpire un obiettivo. I ghotanin avevano pensato che a Gatog Uno il traghetto fosse il bersaglio più vulnerabile; a Gatog Due il combattimento sarebbe stato probabilmente più vicino alla stazione stessa, ma i ghotanin avrebbero potuto cambiare idea e indirizzare lì la loro attenzione. La Compagnia Dallen non li forniva più di fondi. Era probabile che adesso cercassero di tenere la stazione terrestre, e bloccare Tangen, che con gli alleati kosan e tanun teneva i porti delle navette e i controlli terrestri dei satelliti difensivi. Pochi sarebbero andati nello spazio con quelle navette. Lo spazio era fuori portata per la maggior parte della terra adesso, forse per anni e anni, e la stazione terrestre sarebbe rimasta priva di navi, se i ghotanin rischiavano le poche che gli restavano al di fuori della zona del conflitto.
Duun entrò nella camera da letto buia, senza cercare di essere silenzioso. Per quanto esausto, Thorn era sveglio. — Sono io — disse Duun. — Dormi pure. Ho alcune cose da fare. Ci sono hatani a ogni ingresso, e io li conosco. Dormi.
Si mosse nel letto, si voltò sulla schiena e guardò Duun nella penombra. Thorn odorava soprattutto di sapone, adesso. Si era strigliato e rasato. — Tornerai? — chiese.
— Oh, sì. — (Ha intuito qualcosa.) — Dormi profondamente, Thorn. Puoi farlo, qui. Con loro fuori. Rilassati.
Duun uscì, e questa volta chiuse la porta.
Erano arrivati dei visitatori. — Chi sono? — chiese Thorn a colazione. — Gente che vuole vederti — rispose Duun, guardandolo attraverso il tavolo in modo guardingo e indagatore. — Finisci di far colazione e renditi presentabile. Non voglio vergognarmi di te.
Thorn appoggiò il piatto di fronte alle sue gambe incrociate, e ci mise dentro il cucchiaio. — No, finisci tutto — disse Duun. — Hai tempo. Hai perso peso.
— Non mi è mai piaciuta questa roba. — Era la carne tritata, color verde, che mangiava ogni giorno a casa. Aveva il sapore dell’olio di pesce che c’era nelle pillole che prendeva da bambino, una volta che ne aveva masticata una. — Ho già lo stomaco abbastanza in disordine.
— La gente ti preoccupa.
(Hai bisogno di qualcosa, pesciolino?)
— Le loro facce mi gridano — proruppe Thorn. Era l’espressione più adatta per spiegarlo.
Duun lo guardò, immobile come uno stagno in inverno. — Troppe necessità tutte in una volta, vero Haras- hatani?
— Duun, com’è la terra? Hai notizie?
(Non vuole questa domanda. Non la vuole neanche un po’.)
— Sagot ti manda i suoi saluti — disse Duun.
(Mente, senz’altro mente; è così bravo a non farlo capire.) Ma sembrava la verità. (Sagot nella sua stanza, Sagot che mi aspetta… O dei, voglio tornare a casa, Duun!)
— Mi fa piacere — soggiunse Thorn. — Diglielo da parte mia.
— Glielo riferirò. Mangia la tua colazione.
Thorn si girò sul rialzo, e mise giù i piedi evitando la teiera.
— Thorn.
Thorn si fermò; era un riflesso condizionato.
— Indossa il mantello — disse Duun.
I visitatori erano quasi tutti anziani; due molto vecchi, con la pallida maschera degli anni sul loro volto. Uno era hatani, e l’altro della Corporazione kosan. C’erano alcuni shonunin di mezza età; alcuni con la cresta nera di Bigon, altri con le punte argentee dell’isola ghiacciata di Soghai. Thorn aveva sentito parlare di quella gente, ma non ne aveva mai visto nessuno. C’era poi una donna, un’hatani, ed era la donna più bella che avesse mai visto. Sogasi, la chiamò Duun, e Thorn registrò quel nome come aveva registrato gli altri, nella loro sequenza e secondo la corporazione, che erano hatani, tanun e kosan. I tanunin lo guardavano con quella franchezza che aveva visto in Ghindi, in Weig e negli altri; i kosanin con una specie di timore e di desiderio. Gli hatani mascheravano tutto quanto, e lui gliene era grato.
I visitatori non parlarono mai con lui. Pochi lo guardarono direttamente negli occhi, a parte gli hatani. (Grazie, rispose loro Thorn, con un lieve rilassamento del viso, e ricevendo lo stesso messaggio; una lieve contrazione dei muscoli sopra un occhio.) — Parleremo più tardi — disse il vecchio kosan a Duun. — Fagli presente che siamo felici di averlo visto — disse un tanun, e Thorn si sentì ancora più grato per il mantello hatani, che gli dava una qualche protezione ed era qualcosa per nascondere la sua pelle liscia e la sua differenza ai loro occhi. — Grazie — disse Thorn a bassa voce, senza dolore. — È stato un lungo viaggio, Voegi-tanun. Vorrei che altri ci fossero riusciti.
Questo li sorprese, in un certo modo. Aveva cominciato con parole cortesi, che pensava giuste o almeno vere, senza preoccuparsi se l’avrebbero disprezzato o ringraziato. Non l’aveva detto a Ghindi e a Weig; alla donna che aveva chiuso il portello; ai piloti e a Sagot. Spaventò Voegi. (Quell’uomo non doveva parlarmi; e adesso pensa di aver fatto qualcosa che la sua corporazione disapproverà.) I tanunin gridavano sempre più forte, dimenandosi: un piccolo passo indietro, e Voegi si avvicinò al suo superiore, con le orecchie tirate indietro per la preoccupazione. Gli altri tanunin si mossero e fecero dei vaghi inchini, e mostrarono tutti i segni di volersene andare; i kosanin furono più decisi. L’hatani più vecchio guardò Duun, e ne ebbe un segno di congedo. Così si voltò, e fece uscire gli altri.
— Cosa significa? — chiese Thorn.
— Facciamo una passeggiata — disse Duun.
Dopo molti corridoi, attraversarono una grande sala, dove alcuni tecnici, vestiti interamente di bianco, lavoravano con dei terminali di computer in grembo. I tecnici si voltarono, incuriositi, e poi li fissarono con stupore. Cominciarono infine ad alzarsi, ad uno ad uno. — State seduti — disse Duun. La sua voce tranquilla arrivò alle pareti della vasta sala, piena di rialzi quasi tutti vuoti, fermando ogni movimento. E ancora più sommessamente: — Questo è il centro di controllo. Niente in arrivo, adesso. Roba di ordinaria amministrazione.
— Cosa fanno? — chiese Thorn, dal momento che pareva sollecitato a porre domande.
— Tengono sotto controllo gli impianti. — Duun lo portò in un angolo della stanza, e usò un tesserino per aprire la porta di un ascensore: era del tipo che avevano usato per entrare nella ruota. Thorn afferrò il più vicino palo di sostegno mentre la porta si chiudeva.
Dove stiamo andando? — chiese Thorn. La reticenza di Duun lo irritava. (Ma cosa saprei se me lo dicesse? Non può dirmelo. Può solo pormi degli indovinelli, e lasciare che ci arrivi meglio che posso.)
— Nel futuro — rispose Duun. (Vero e non vero.) L’ascensore si mosse, e la forza più intensa parve quella delle loro mani sul palo, mentre le altre forze sembrarono farsi sempre più ambigue. — Hai visto la terra, dai suoi aspetti più semplici a quelli più complessi. Il suo passato e il suo presente. Ora sei su Gatog; non vedi nessun paradosso?
— Non capisco, Duun. Dovrei vederlo?
— Il tuo mondo è cambiamento. Scorrere e cambiare.
— Torneremo a casa?
— È questa la tua domanda?
La cabina parve cambiare bruscamente direzione. Thorn strinse il palo, guardò il quadro di controllo, e di nuovo Duun. — Abbiamo superato il centro — disse Duun. — Stiamo spostandoci un’altra volta verso l’esterno.
— Perché mi hanno fatto, Duun?
Duun incontrò con sorpresa gli occhi di Thorn. C’era un’espressione di terribile divertimento sulla sua faccia: la bocca, dalla parte ferita, era tesa. — È questa la tua domanda? Risponderò.
— In questo luogo? — Il cuore di Thorn batteva forte. Era in preda al panico. — È da qui che vengo? Da qui?
— Ti mostrerò qualcosa. Siamo quasi arrivati.
(Non voglio vedere. Basta Duun. Duun, dimmelo, non farmi veder niente.)
La cabina rallentò, girò, si fermò con un sussulto. La porta si aprì su un’altra stanza, molto simile alla prima, tranne che per i rialzi vuoti e per gli schermi spenti. Thorn entrò, seguendo Duun. Il pavimento era nudo e freddo, come tutti i pavimenti della stazione. Come quelli di una nave o di un laboratorio. I piedi non lasciavano tracce. Non restava alcun segno del passaggio e nessun indizio dello scorrere del tempo. C’erano finestre. Duun toccò un bottone sulla parete, e le finestre s’illuminarono, mostrando i riflettori, i tralicci, le strane forme di Gatog. — Una vista impressionante, vero? — disse Duun. — Non noti delle discrepanze? — Duun andò a un pannello e schiacciò un bottone.
Si sentirono dei rumori, pieni d’interferenze gracchianti. — …stop… — disse una voce. Era una voce. -… voi… mondo…
(Dei. Dei. I nastri.)
Duun schiacciò un altro bottone. (Un bip. Una parola. Due. Parola…) Thorn raggiunse il quadro, e si chinò accanto a Duun. Il cuore gli batteva forte. — Viene da qui.
Duun spense l’audio. Il silenzio era qualcosa che stordiva. Duun andò verso l’illusione delle finestre, e Thorn lo seguì, sul pavimento senza tracce, e si fermò quando le finestre furono tutto ciò che vedeva. Duun alzò un braccio e indicò. — Questo è ciò che l’orecchio riceve. È puntato oltre il sistema solare, pesciolino. E ascolta. Cosa ci dice?
— Numeri. — Thorn guardò, e perse ogni senso dell’alto e del basso. Gli parve di roteare fra le luci, la forma di Gatog, le stelle più brillanti, e Duun: un’ombra avvolta nel mantello grigio, contro il vuoto senza fine. — Parla delle stelle, degli elementi… Smettila di giocare con me, Duun! Chi trasmette?
— Gente. — Duun si voltò verso di lui. — Gente come te, pesciolino.
La stanza era molto silenziosa. Non c’era mai stata e non c’era una voce simile, lì come in nessun altro luogo. Le finestre erano illusione, e il mondo.
— No, Duun.
— Tu sai chi, allora?
— Maledizione, Duun… non farmi questo!
— Volevi la tua risposta. C’è un’altra domanda. Vuoi farla?
— Cosa sono?
— Ah. — Duun si accostò alla finestra, eclissando una luce. — Sei un codice genetico. Sono così anch’io. Il tuo è diverso.
— Non sono shonun?
— Oh, dei, pesciolino, questo lo sai da anni. — Duun lo guardò: ombra contro la luce, grigio contro il vuoto. — Ma non sapevi cos’altro potevi essere. Il mondo conteneva tutte le tue possibilità. Io ti ho creato. Un codice in un ovulo; non era il primo tentativo. Ci sono stati migliaia di tentativi, finché i medici non hanno trovato il sistema giusto. È stato necessario sviluppare nuove tecnologie; e la maggior parte le abbiamo create noi. Ma tu eri un problema speciale. E tu… sei stato il successo. Ti hanno portato da me; non volevano. Avevano faticato tanto per averti. Mi credi, pesciolino? Ti sto dicendo la verità?
— Non lo so, Duun. — Thorn avrebbe voluto sedersi o andare da qualche parte. Ma non c’era nessun rifugio, su quel pavimento, né sotto le finestre.
— È la verità — disse Duun. — L’orecchio raccoglie quei messaggi. Forse c’è qualcosa nei sentieri del cervello; forse è come conoscere la propria faccia; forse entrambe le cose. Tu riproduci perfettamente i suoni dei nastri; nessun shonun riesce a pronunciare tutte quelle consonanti. Nessun shonun potrebbe leggere le facce sul nastro… tranne forse io e, qualche volta, Sagot. Tu mi hai insegnato. Mi hai insegnato i tuoi riflessi e i tuoi sentimenti più segreti; e quando ti abbiamo fornito il vocabolario che eravamo riusciti a ricostruire… forse sono i sentieri, lo sanno gli dei… tu hai cominciato a usarlo. È per questo che sei stato fatto.
— Per vivere qui? Per lavorare su questo?
— Non ti attira?
— Duun… riportami a casa. O dei, riportami a casa.
— Haras. Non crollarmi proprio adesso. Non sei venuto fin qui per frignare come un bambino.
Thorn andò alla finestra e le voltò le spalle. Adesso la faccia di Duun era illuminata, e la sua in ombra. — Non prendermi in giro. Non posso… — (Non posso, pesciolino?) Ci fu del silenzio.
— Le trasmissioni giungono a intervalli regolari — disse Duun con voce calma. — Per la maggior parte si ripetono. Cos’è che dicono?
— Te l’ho spiegato cosa dicono.
— M’incoraggi.
— Per cosa? — Thorn guardò la finestra: la vicinanza distruggeva l’illusione, la rendeva solo luce e buio privi di significato. Girò lo sguardo altrove. — È per questo che hanno paura di me?
— Ho preso un alieno. L’ho tenuto fra le braccia, l’ho nutrito, riscaldato… era piccolo, ma sarebbe cresciuto. L’ho portato su una montagna, e ho vissuto da solo con lui. Ho dormito sotto lo stesso tetto, l’ho fatto arrabbiare, l’ho incoraggiato e sollecitato e ho avuto incubi, pesciolino: ho sognato che si rivoltava contro di me. E delle volte, quando lo stringevo, mi veniva la pelle d’oca. Ecco le cose che ho fatto.
(Duun… oh dei, Duun…) Era al di là del dolore.
— … Sono stato più che onesto con lui. Gli ho dato tutto quello che avevo da dare. Ho fatto un passo dopo l’altro. L’ho reso shonun. Gli ho insegnato. Ho discusso con lui. Ho scoperto la sua mente, e pezzo dopo pezzo gli ho dato tutto ciò che sapevo insegnare. Ogni occasione. Sei cresciuto shonun. Nessuno sapeva cosa sarebbe venuto fuori. Quando dissi a Ellud che ti avrei reso hatani, rimase inorridito. Quando il mondo lo seppe… ci fu quasi il panico. Non importa: tu ne rimanesti all’oscuro. Quando ho detto a Ellud che ti avrei portato davanti alla Corporazione… be’, farti hatani era già grave; i loro giudizi erano limitati. Ma farti entrare nella Corporazione! È stato un vero e proprio terremoto. E tu hai vinto. Hai vinto Tangen. Hai fatto tutto, pesciolino.
— Mi ami, Duun?
(Affondo e ritirata). Duun sorrise. C’era tristezza in quel sorriso, e soddisfazione. — Questa è una domanda hatani.
— Fui istruito dal migliore.
(Secondo attacco). La bocca di Duun si strinse dal lato ferito. — Voglio raccontarti una storia, pesciolino.
— È una bella storia?
— È la storia di come ho perso le dita. Te lo sei sempre chiesto, vero? Nessuno chiede ai propri parenti quelle cose che veramente vuole sapere… dopo che uno è cresciuto. E non si scoprono mai quali sono le domande giuste, fino a quando non sono troppo personali per farle.
— È stata colpa mia?
— Ah. Ho penetrato la tua guardia.
— Raccontami la storia, Duun.
— Eravamo agli inizi… Sono sicuro che Sagot ti ha raccontato quasi tutto: la Corporazione tanun ci portò nello spazio, il primo passo. La luna. Una stazione. Poi arrivarono le compagnie. Avevamo delle basi scientifiche, qua e là: hatani, ghota, tanun… di kosan non molte. Un sacco di gente comune impegnata a fare quello che fa la gente comune… soprattutto i soldi; o studiavano. Il mondo se la cavava abbastanza bene, a quei tempi. Poi apparve una nave. — La faccia di Duun si sollevò leggermente, indicando la finestra, le luci. — Quella là fuori.
— Non è shonun — disse Thorn.
— No. Era piuttosto malconcia la prima volta che la vidi. Non è chiaro cosa successe all’inizio. Sta di fatto che spaventò a morte quelli della missione su Dothog, e qualcuno cominciò a sparare, non è certo quale delle due parti. Erano ghotanin, naturalmente. Non ne restarono molti da interrogare, per stabilire le responsabilità. La nave non lasciò il sistema solare… era troppo danneggiata. Ma si allontanò, più veloce di quanto si potesse credere; ghotanin e kosanin le diedero la caccia dove potevano… potevamo almeno dirci l’un l’altro dove andava. Per due anni le demmo la caccia, la bombardammo. Noi. E c’ero anch’io, mandato da Tangan; ovviamente non ero a capo della missione, allora, ed ebbi la fortuna di sopravvivere più di tutti gli altri. La bombardammo, perdemmo delle navi. Le sue manovre si fecero più lente. Sapevamo che stava trasmettendo a qualcuno fuori del sistema solare, e alla fine riuscimmo a ridurla al silenzio. Continuammo a colpirla, fino a quando la facemmo rallentare a una velocità paragonabile a quella delle nostre navi. L’abbordammo. Ce n’era uno ancora in vita. Cercammo di prenderlo vivo. Questo fu il mio errore. — Duun alzò la mano mutilata, con il palmo fuori. — Uccise tutti gli altri, con un solo colpo. Io riuscii a cavarmela e lo raggiunsi. Lo uccisi. In seguito scoprimmo che la nave era predisposta per essere distrutta. Ma lui non l’aveva fatto. Forse era diventato pazzo. Forse sperava di sopravvivere ancora un po’. Forse ebbe paura. Rimorchiammo la nave, con tutto il suo contenuto, compresi gli altri quattro alieni congelati e sotto vuoto che avevamo scoperto a bordo.
“Ed essa ha cambiato il mondo, Thorn. Fino a quel momento credevamo di essere soli. E quella cosa fu un incubo. Due anni. Per due anni l’avevamo bombardata con tutto quello che avevamo, e loro erano in cinque, solo in cinque. Per poco non avevano distrutto il mondo. Ci costarono cari… Dei, nulla era più come prima. C’era il panico. Vennero da me, anche il concilio. Ero molto famoso, allora. Successe nei primi giorni: l’avevamo fermata vicinissimo alla terra. È per quello che avevamo combattuto con tanto impegno e ci era costata tanto. Il concilio mi chiese di fare qualcosa; Tangan si era rifiutato. ‘Giudizio hatani? È questo che volete?’ gli chiesi. ‘Ti daremo qualsiasi cosa’, risposero, ‘qualsiasi aiuto, e tutto l’appoggio.’ Dissi che erano pazzi. Avevano tutte le province che battevano alla porta e chiedevano provvedimenti, avevano le compagnie, le corporazioni che chiedevano ognuna una cosa diversa, kosan e ghotan ai ferri corti. Dissero che io ero stato là e che dovevo dargli una soluzione. E così li presi in parola. — Duun indicò verso la finestra. — Sapevo che dalla nave erano partiti dei messaggi, mentre le davamo la caccia. Pensai che potevano esserci delle risposte che non ci era possibile sentire. Chiamai gli scienziati. Ordinai che fosse costruita Gatog e che la nave venisse studiata, addirittura duplicata, se possibile. Ordinai che tu venissi… creato. Tu sei lui, Thorn; sei l’uomo sulla nave, nato dal suo sangue, dalle sue cellule. Tu sei il mio nemico. Ti ho fatto rinascere. Sei la mia guerra, il mio mezzo per combattere una guerra che non sapevamo come combattere. Sei la mia risposta. Sapevo che aspetto avresti avuto… che aspetto avrai fra una decina d’anni. Sapevo come saresti cresciuto, fisicamente. Ma adesso so cosa ho ucciso. Ciò che avrebbe potuto essere. Se fosse stato mio figlio.
Thorn chiuse gli occhi. C’erano lacrime. (“Non lo sai che non posso?”) Gli pezzavano l’immagine di Duun. Poi, quando sbatté le palpebre, gli corsero sulle guance. — Mi stai manovrando.
— Sono hatani. Naturalmente. Lo sono sempre stato. Te l’avevo detto.
— Come hai manovrato Tangan. Dei… perché? Cosa vuoi?
— Tu sei il lungo incubo del mondo. Un brutto sogno. Tutto ciò che la terra aveva è andato nella costruzione di Gatog, e per costruire l’altra nave. Ti rendi conto di cosa vuol dire fare un salto del genere per l’industria? Nuovi materiali, nuovi procedimenti, nuove teorie… nuove paure, e nuovo denaro; e tutto ciò che ne segue. Politica. Compagnie. Un mondo che aveva appena messo piede nello spazio, e d’improvviso, delle scoperte che l’hanno mandato in frantumi… Energie che stiamo ancora scoprendo, tecnologie con potenziali che non sappiamo ancora affrontare. Quando quella nave ha cominciato a trasmettere non sapevamo quanto ci sarebbe voluto prima che arrivasse una risposta. Adesso sappiamo che quella nave è arrivata da una stella distante nove anni luce. Ci sono voluti nove anni perché arrivasse il primo messaggio, dopo che la nave aveva trasmesso. Non sappiamo quanto velocemente avesse viaggiato la nave. Stiamo cominciando a capirlo. È veloce, molto veloce. Ultra-luce. All’inizio credevo, ingenuamente, che avremmo avuto a disposizione molti anni… mezzo secolo. Per duplicare la nave. Dare loro una lezione. Mandare la corporazione kosan ad affrontarli, e gli hatani per sistemare le cose. Adesso ne sappiamo molto di più… qual è il costo di una nave come quella, quando la costruzione di ogni parte significa sviluppare una nuova tecnologia. I costi sociali del cambiamento. Ci ha reso ricchi. Ci ha reso capaci di mandare all’inferno il mondo intero. I nastri, pesciolino, i nastri… li abbiamo ricuperati dalla nave. Insieme alla macchina per usarli, e alla droga che era insieme a essi. Un tipo di droga interamente nuova; un nuovo vizio. Dei, ho dovuto essere terribilmente cauto con te. Ogni sostanza, ogni pianta che toccavi… i medici impazzivano. Potevi prendere il livhl, la sjuuna e la mara; il dsuikin assolutamente no…
(“Prova questo pesciolino, provalo sulla punta della lingua, senza inghiottire.”)
— Tu tolleri la maggior parte delle cose; noi tolleriamo la maggior parte delle tue. Per fortuna è così, altrimenti avresti vissuto la buona parte del tuo tempo in isolamento.
(Sheon, le foglie mosse dal vento d’estate, verdi e fragranti…)
(L’odore pungente dei fiori di lugh, lungo la strada da casa all’esilio…)
— Sono il solo, Duun, solo io?
— Sì. Si è discusso su ciò. Molto. Tutto quello che gli interessava erano i nastri; che tu leggessi i nastri; se non sopravvive, se gli succede un incidente… Ma c’ero solo io, pesciolino, e dovevo insegnarti, a mio modo; e imparare da te, a mio modo. Se tu fossi stato in isolamento, lo sarei stato anch’io. Eravamo legati. Per renderti quello che sei, ci sono voluto io, e ci sono voluti quei nastri. Alcuni, forse, servivano soltanto per svago. Ma uno era la chiave. Ce ne sono altri. Ciò che hai sentito prima, viene da Gatog. I messaggi arrivano regolarmente. Sai cosa mi immagino che dicano? “Siamo qui. Avete ucciso il nostro messaggero.” Ma non so cos’altro dicano. Non so quanto aspetteranno. Sanno che abbiamo una nave. Sanno tutto quello che ha riferito loro il pilota. “Mi vogliono uccidere. Non posso andarmene. Sono primitivi. Non valgono molto. Ma stateci attenti…”
— Credi che attaccheranno?
— Pensavo che saremmo stati in grado di raggiungerli, qualsiasi cosa stessero facendo. Ma il modo in cui quella nave funziona… o pensano che funzioni… Se abbiamo sbagliato potremmo perdere Gatog. Potremmo perdere tutto. Il buffo è che potremmo trainarla lontano, a una distanza di sicurezza, e provarla… ma non sapremmo come funziona. Anche se funziona. E non possiamo mettere in moto quel motore vicino a qualsiasi cosa. E non da ferma, mi dicono. La terribile verità, è che non conosciamo le cose fondamentali. Non sappiamo come farla volare. Se l’avessimo saputo, avremmo potuto salvare la Ganngein e la Nonnent. È velocissima, anche all’interno del sistema solare. Fuori… non lo sappiamo.
— Vi aspettate che io vi aiuti, in questo? — Thorn ebbe un tremito. — Sono io ciò che i ghota vogliono fermare?
— Ho incontrato tre generi di persone: quelle che pensano che l’universo è buono, quelle che pensano che è corrotto, e quelle che fanno di tutto per non pensarci. Preferisco i primi due. L’ultimo può essere assoldato da chiunque. La Compagnia Dallen ti vuole fermare perché ha paura di te; lo stesso vale per gli altri. I ghota hanno una gran paura per il fatto che sei hatani, e non dei loro, e perché sempre più conoscenza finisce in mano hatani. Stanno morendo e lo sanno. Il mondo non se li può più permettere. Non può permettersi l’ignoranza. Per i tanun e i kosan… sei la loro speranza.
— Per fare cosa? Guidare quella nave?
— Non lo so. Forse. Un giorno. Cosa faresti?
— Oh, dei.
— Adesso sai per cosa sei nato.
— Non chiedermi questo! Duun…
— Haras-hatani, cosa vuoi fare?
Thorn fece qualche passo, alzò le mani alla testa, le lasciò cadere. Non aveva pensieri. Solo un affastellarsi d’immagini. (I massi sulla sabbia, ciascuno con un hatani. La vecchia maschera di Tangan e quella di Sagot, confuse. La voce impersonale di Manan: “Ci hanno mancato e noi li abbiamo colpiti. È caduto.” La Ganngein: “Non è un viaggio che siamo ansiosi di fare”.)
Si voltò a guardare Duun. Un’ombra silenziosa contro la vasta illusione delle finestre.
— Bene? — chiese Duun.
— Non ho neppure diciotto anni!
— Non ho detto che devi fare tutto tu. Non sei responsabile dei ghota. Non è colpa tua la follia del mondo; ma sta bruciando, Haras-hatani. E forse questi diciotto anni sono tutto quello che avrà il mondo. Cosa farai per fermarlo?
(Tornare sulla terra? Come potrei fermarlo? Chi mi ascolterebbe? Gli hatani, la corporazione tanun e i kosanin ascolteranno Duun.)
(Una stanza con un letto, un bagno, un fuoco, e dei trucchi nascosti. Cos’è la mia stanza? Questo posto. Questo mondo. Come posso spegnere il fuoco, se non con le mani nude? Sono due volte pazzo?)
(Adesso sai perché sei nato.)
Thorn si guardò intorno: le finestre, la distesa scintillante di Gatog, i banchi dei computer. (I ghotanin hanno paura di qualcosa. Di questo. Del suo uso.)
(I nastri. Le voci.)
— Capisco — disse Thorn. — Sai già quello che vuoi farmi fare. Credi di saperlo. Ti chiedi cosa penso io. Sentieri? È questo?
— Forse solo la speranza di qualcosa di meglio. Dimmi la tua soluzione.
— La nave ha trasmesso. Il messaggio era ultra-luce.
— No. Velocità luce.
— Il pilota sapeva allora che non sarebbero giunti in tempo. Non chiedeva di essere salvato.
— No. Non c’era alcuna speranza. E allora cosa voleva, hatani.
— Come faccio a saperlo? Tu mi hai insegnato.
— Forse non puoi. Molto di te è shonun.
— Ma i messaggi di risposta sono cominciati ad arrivare nove anni dopo. Dicevano: “Salve; siamo qui”. E continuano a ripeterlo. E lui diceva: “Sto morendo; mi stanno uccidendo, e hanno delle navi così piccole”. Lo sanno che non possiamo andare da loro. Vero?
— Lo sanno almeno da quando quel messaggio gli è arrivato, sette, nove anni dopo che era morto. E nove anni dopo l’attacco alla nave, ci è arrivato il loro primo messaggio. E continuano ad arrivare.
— Da quanti anni li state ricevendo? Cinque?
— Quasi sette.
Thorn chiuse gli occhi un momento; poi li riaprì. — La gente deve essersi sentita sollevata.
— Alcuni. Per altri fu un avvertimento. Altri ancora dissero che la nave non era ultra-luce, poiché nulla poteva viaggiare a una velocità tale, che il messaggio era un trucco per coglierci alla sprovvista, e che le navi sarebbero arrivate a velocità sub-luce. E presto. E assoldarono i ghota, che vedevano solo il denaro e un’occasione per impedire alla Corporazione hatani di prendere il controllo della guerra, a loro avviso, imminente. La guerra che hanno già cominciato.
— Per decidere chi incontrerà quelle navi.
— Sì, per questo.
— È così semplice, dunque? Quella nave può trasmettere.
— È ancora più semplice. Anche Gatog può trasmettere.
— Non mi sentirebbero prima di nove anni!
— Ma la terra saprebbe che non c’è modo di fermare il messaggio, una volta che è partito. E qui a Gatog possiamo resistere all’infinito. Bloccare i ghotanin non è un problema e le navi, se ci sentono, possono arrivare tra nove anni poco più: alcuni sono di questo avviso. Un anno o due, alla velocità di quelle navi. Potevano già essere arrivate anni fa, se non ci siamo sbagliati sulla velocità. Potrebbero arrivare domani. Potrebbero essere in attesa della risposta. Non avevamo alcun modo per intuire i loro pensieri… fino a ora. Quando arriveranno, qualsiasi intenzione abbiano, tu sarai qui. Al sicuro. Una voce come la loro. Forse si ricorderanno del loro pilota quando ti vedranno. Forse rimarranno stupiti. Forse cominceranno a pensare, avranno delle esitazioni. Lo sanno gli dei: forse fra dieci anni avremo imparato a far volare quella nave.
— La terra dovrà sanguinare tanto?
— Forse sì. O forse, quando la terra saprà qual è la tua soluzione, molti cominceranno a pensarci. Ricorda che sei hatani. Della Corporazione. Questa è una cosa che il mondo comprende ed è anche parte della mia soluzione. Quando il panico sarà scemato, gli shonunin ricorderanno che la Corporazione ti ha accolto. Sapranno che è un giudizio sincero.
— Nessuno ha piacere di avere un hatani sotto il suo tetto. Me l’ha detto Sagot.
— Sì, e per quasi diciotto anni ci sei stato sotto il loro. È vero. La gente comincia a frugare in se stessa, cercando delle colpe. Immagina un giudizio sui loro peccati. Sanno che sai leggere dentro di loro. Guardano la tua faccia, e sanno che tu vedi. Anch’io. Una volta ti ho ucciso, ricorda. La coscienza è una terribile compagna.
— Duun. — Thorn si avvicinò a lui, lentamente, e allungò una mano, molto lentamente, fino a toccare la faccia di Duun, il lato ferito. — Lo sapevi che potevo — disse. E tolse la mano.
C’era silenzio nella stanza. Dei tecnici erano in piedi lungo le pareti, tanunin, hatani, kosanin. — Siediti vicino a me — disse Thorn; e Duun si sedette nel posto accanto al suo. Thorn esitò con le mani sui pulsanti e controllò ogni particolare. Parlò a voce bassa e ferma nel microfono, e continuò dando inizio al lungo viaggio che i messaggi avrebbero compiuto, ogni giorno. Qualche minuto per arrivare alla terra; alcune ore per Gatog Due e Dothog; nove anni per giungere a un’altra stella. La pelle di Duun si tese. Aveva sentito quella voce, che parlava in quella lingua, per due anni, prima che riuscissero a zittirla, la prima volta; senza dubbio altri ebbero la stessa reazione. Avrebbe creato nuovo panico sulla terra e alla stazione. Forse quelli della Nonnent l’avrebbero sentita, nel loro viaggio solitario, e avrebbero saputo di aver vinto. C’era una traduzione. Thorn la lesse: era solo per il sistema solare. (“Dovrò lavorare ancora sui nastri”, aveva detto Thorn dal momento che a Gatog c’erano gli originali e diversi documenti scritti. Ne avevano una vasta raccolta, e altri nastri. Thorn li temeva e Duun sapeva quanto. Anche Thorn aveva udito quella voce, gemella della sua, velata di rabbia e di dolore. Ma i computer costruivano campi sempre più complessi. Avevano la certezza su alcune parole, avevano definito l’alfabeto e avevano individuato la fonetica. Quello studio si era poi allargato, diramato, ricostruendo così la strana storia di uno strano popolo che un hatani aveva imparato a comprendere.) — Il messaggio è questo — disse Thorn. — Sono Haras. Uno. Due. Tre. Sono Haras. Stella tipo G. Ossigeno. Carbonio. Sono Haras. Vi sento. Il mondo è la terra. La stella è il sole. Sono un uomo. Salve.