10

— Ancora.

Questa volta usavano i coltelli wer, con le lame ricoperte da plastica trasparente. Duun si chinò, fece un affondo ed evitò la risposta di Thorn; Thorn evitò la sua, rotolò a terra e balzò di nuovo in piedi, a una certa distanza. — È una mossa che hai inventato tu? — chiese Duun freddamente, e Thorn abbassò la testa, guardandolo di sottecchi, come se avesse combinato qualcosa di sciocco. — L’ho appena inventata — disse Thorn. — Quando sono finito sui talloni. Mi dispiace, Duun.

Ma era stata fatta bene. Duun appiattì le orecchie. — Ancora.

Altre tre volte. I wer così rivestiti erano tutt’altra cosa rispetto ai wer con la lama nuda: la plastica faceva troppa resistenza. Duun indietreggiò e tolse la custodia dalla lama. Gli occhi di Thorn tradirono il timore, ma tolse anche lui la protezione e la gettò via.

Acciaio nudo. Duun strinse il coltello nella mano mutilata e mise la sinistra vicino, pronto a cambiare mano all’improvviso. Thorn fece lo stesso, muovendosi e guardando soltanto gli occhi di Duun e il suo coltello.

Duun attaccò direttamente, senza la finta che gli era abituale; si arrestò all’ultimo istante, quando vide Thorn coprirsi e sfuggire all’assalto, finta, doppia finta, cambio di mano, ritirata in cerchio, passo di lato, attacco.

La lama sibila scivolando sull’altra lama; ma il movimento continua, in un attacco continuo.

Thorn sfuggì di nuovo rotolando a terra. Si rialzò con la sabbia nei capelli e ormai alle strette, perché Duun continuava ad avanzare e il muro era quasi alle spalle di Thorn.

Thorn se ne accorse e si spostò, troppo in fretta. Duun cambiò mano, e le lame si incontrarono, mentre Thorn indietreggiava di nuovo senza ostacoli alle spalle.

Duun chiamò tempo. — Maledizione, è un acciaio troppo affilato per trattarlo in questa maniera! Non urtare il filo!

— Sì, Duun. — Thorn respirò grandi boccate d’aria. Il sudore gli colava negli occhi, e se l’asciugò.

— È la tua maledetta abitudine a usare una mano sola. Lo sai cosa hai fatto?

— Mi sono spostato a destra — disse Thorn. Abbassò le spalle e si asciugò di nuovo il sudore. — Ho fatto una finta a sinistra.

— Ma sei andato a destra, sciocco!

— Sì, Duun. Ho pensato che avresti pensato che questa volta sarei andato a sinistra.

— No, perché non lo fai mai! Dei, coglimi di sorpresa, almeno una volta!

La faccia di Thorn era mortificata.

— In guardia! — Duun colpì, veloce come un fulmine. Thorn sfuggì, sfuggì, e ancora sfuggì; poi attaccò e sfuggì di nuovo, con le lame che risuonavano.

Allora Duun fece un affondo, girò la lama e lo colpì col pugno sul braccio. Thorn buttò in alto il braccio per diminuire la forza del colpo, si ritirò e si copri di nuovo.

Duun chiamò tempo, e Thorn si guardò il braccio aspettandosi di vedere del sangue. — Almeno — disse Duun — non ti sei fermato quando ti ho colpito.

— No. — Questo l’aveva imparato in molte dolorose lezioni, perdendo le abitudini del principiante a forza di botte. — Mi dispiace. — Senza fiato, asciugandosi ancora una volta il sudore. Thorn si riferiva all’urto fra le lame.

— Hai sviluppato una nuova forma di finta: quella di nascondere i tuoi errori! Sei meglio quando sfuggi!

— Mi dispiace, Duun-hatani.

— Questo non è non combattimento con le mani: hai un artiglio maledettamente affilato, giovane sciocco! Usa il cervello. Ancora!

Thorn venne avanti. Duun sfuggì, colpì, sfuggì, colpì.

— Alt!

Thorn si tirò indietro e si fermò. Il respiro gli usciva a rantoli e il sudore gli colava negli occhi. Si raddrizzò. — Mi dispiace, Duun. — Era diventato un ritornello. C’erano sempre errori. Aveva un’espressione contrita.

Duun gli allungò una mano verso la faccia, lentamente. Thorn fece un passo indietro. C’era una minaccia in quell’atteggiamento, e cautela. Duun sorrise.

Thorn raddrizzò le spalle, ansimando. (Perché gridi? Perché mi lanci imprecazioni? Cosa non va oggi? Cerco di ascoltare, Duun, non prenderti gioco di me in questa maniera.)

— Lascia che ti tocchi, pesciolino. Una volta.

La mano con il coltello si abbassò. Thorn rimase immobile. Duun gli venne vicino e gli mise la mano in mezzo al petto, sulla pelle che era diventata pallida, senza la luce del sole, ed era scivolosa per il sudore. Il cuore batteva sotto la mano di Duun con colpi forti e regolari. Non si ritrasse. Non tremò. Duun alzò la mano fino al collo, e sentì lo stesso battito. Un piccolo scatto. Riflessi. O insegnamento. Guardò i bianchi occhi alieni: era curioso quanto poco il centro azzurro fosse cambiato dalla prima volta che li aveva guardati: un bambino nel suo grembo; un bambino con la pancia rotonda, che gli si arrampicava sulle ginocchia incrociate e cercava di tirargli le orecchie; la faccia di un ragazzo che lo guardava con improvvisa emozione, trovandoselo sulla pista…

Pareva che non avessero mai cambiato dimensioni. Le ossa attorno sì. La faccia si era incavata, la mascella allungata e la pelle era diventata ispida per i peli neri che Thorn si radeva sempre… (Rideranno di me, Duun; i peli del mio corpo non diventano fitti abbastanza, e non voglio che crescano in faccia in questa maniera, a chiazze.) Thorn si radeva anche il corpo, qui e là, dove le chiazze erano più evidenti. Si tagliava e si pettinava, in modo che i cambiamenti del suo corpo non sopraffacessero il Thorn a cui entrambi si erano abituati. Thorn aveva un odore diverso rispetto a un tempo. Il petto e le spalle erano più ampi e muscolosi, la pancia piatta e dura; i fianchi stretti, le gambe lunghe e agili. Era forte: Thorn poteva ora sollevare Duun, anche se lui non aveva nessuna intenzione di lasciarglielo fare.

Stranamente, Thorn non era brutto. Diciassette anni, quasi diciotto e Duun lo guardava dritto negli occhi, anzi, negli ultimi tempi doveva anche alzarli un po’. E c’era in Thorn una simmetria che gli rendeva la faccia giusta su quel corpo, le cui parti si componevano in una grazia di movimenti che nessun esteta avrebbe potuto negare. (“Quando ti ci abitui, è bellissimo” aveva detto Sagot. “Terribile, come un grande animale a cui ti sei avvicinato più di quanto avevi voluto. Ma desideri lo stesso vederlo muoversi. C’è un fascino in queste cose, no?”)

Le pupille si dilatavano e si contraevano a seconda dei pensieri. Con ansietà. (È un gioco, Duun? Devo fare qualcosa?)

Duun si allontanò, voltando le spalle a quello sguardo. Forse Thorn avvertì la sua ansia. Era acuta, adesso.

(“Dobbiamo procedere”, aveva insistito Ellud. “Duun, non hai fatto che rimandare; in un primo tempo c’erano i nastri da imparare; poi la faccenda di Betan che l’ha sconvolto; adesso tiri fuori che ci sono ancora delle cose da insegnargli. Duun, non abbiamo più scuse”).

Duun raccolse la custodia del wer e si voltò a guardare Thorn che stava facendo la stessa cosa. Tutto un guizzare di muscoli; sì, perché Thorn era in gran forma quella mattina; e Duun voleva ricordarlo così.


— Ecco le parole: so che puoi ricordarle. Non hai bisogno di molto studio. Nave. Sole. Mano. Attenzione. Equivalgono a queste sequenze sonore. — Sagot mise in funzione il registratore. Era una faccenda complicata, e Thorn si concentrò, per non disperdere la sua attenzione su ciò che lo circondava. Quella mattina la guardia non l’aveva condotto nella solita stanza, ma due porte più avanti, in un posto con i pavimenti lisci e nudi che sapevano di medici. La stanza era abbastanza grande, con due grandi rialzi e una serie di armadietti; con finestre che mostravano falsi deserti e che servivano a rendere il luogo ancora più nudo e meno confortevole. Sagot lo aspettava, seduta alla scrivania, a gambe incrociate e con una tastiera in grembo; vicino alle ginocchia aveva un’altra tastiera e un monitor. — Siediti — aveva detto, e la guardia era uscita chiudendo la porta.

— “Io. Egli Andare.”

Thorn aveva subito pensato al simulatore, quando la guardia l’aveva portato alla nuova porta. Gli piaceva quella rapida interazione col computer, la simulazione del volo e la terra che scivolava sotto ali immaginarie. Dei, c’era uno schermo in una stanza che faceva sembrare tutto vero. Si mise a sedere davanti a una macchina che aveva dei comandi molto simili a quelli dell’elicottero. L’intera macchina si muoveva sotto di lui e si inclinava insieme agli schermi; tanto che la prima volta aveva dovuto stringere i denti per non urlare, quando aveva perso il controllo e la stanza si era messa a girare su se stessa. Adesso se la cavava meglio.

(“Medici?” aveva chiesto subito a Sagot, allarmato. “Siediti”, aveva detto lei. “Oggi facciamo esercizi di pronuncia.”)

Stop. Uomo. Radio. Stop.

— È un linguaggio?

— Ripeti, ragazzo.

(Qualcosa non va. La bocca di Sagot ha una piega dura. Ho fatto una domanda sbagliata? È infastidita per questo posto?)

— Concentrati.

Thorn si mise al lavoro. Associò un significato ai suoni. Sagot gli lasciò ascoltare i nastri più volte; lui li odiava. Poi borbottò i suoni, con risentimento. Non fu certo una bella giornata. Duun era stato scontroso a colazione; scontroso alla sua maniera, cioè silenzioso e pensieroso, nascondendo tutto quello che aveva dentro e mostrandone solo la superficie, come uno stagno ghiacciato. Sagot diede a Thorn ordini precisi, poi uscì. Lo lasciò solo nella stanza, ma ogni tanto tornava a controllare, da una porta interna.

(Si sono parlati. Duun è arrabbiato con me e l’ha detto a Sagot. Non ho fatto niente per fare arrabbiare Sagot.)

(- Sono stato uno stupido nel fare le mosse, ieri. Non riesco a fare a meno di spostarmi a destra, e faccio peggio quando Duun mi sgrida; preferirei che mi colpisse, non m’importa se mi colpisce, me lo merito, quando scopro il fianco in quella maniera. È come se fossi arrivato a un punto oltre il quale non posso più migliorare. Duun lo sa. Non sono abbastanza bravo per essere hatani, mi manca qualcosa. Si è dato tanto da fare per insegnarmi, e io continuo a spostarmi a destra come uno sciocco. E lui deve continuare a sgridarmi. Dovrebbe colpirmi col coltello, dopo, forse, me ne ricorderei.)

C’era una cicatrice sul suo braccio, e una su quello di Duun.

(Lo ricorderò sempre.)

— Ragazzo.

Il registratore si spense. Era stata Sagot. Thorn sbatté le palpebre. Sagot gli aveva portato una pillola e una tazzina d’acqua. (Dei, sono i medici, allora. Cosa non va? Vogliono solo darmi un’occhiata?)

— Sagot, non voglio quella roba. Sto bene.

Lei non tirò indietro la mano. Non c’era scelta, allora. Prese la pillola dal palmo di Sagot, nero e rugoso, e se la mise in bocca. Non aveva bisogno dell’acqua per inghiottirla, ma avvertì un immediato benessere allo stomaco che minacciava di rivoltarsi. (È per questo che Sagot si comporta in maniera strana? C’è davvero qualcosa che non va in me? Duun lo pensa?)

— Voglio che tu venga di là con me — disse Sagot. — Sì, sono i medici. Dovrai stenderti per un po’, e voglio che tu lo faccia senza storie.

(Odori di paura, Sagot. E anch’io, immagino. Dei, cosa sta succedendo?)

Si alzò. Era più alto di Sagot. Lei gli prese la mano. (Sono hatani, Sagot, non dovresti…) Ma non diceva mai di no a Sagot. Lei lo condusse fino alla porta, sempre per mano, e lo fece entrare in una piccola stanza che non lasciava dubbi: era piccola, piena di macchinari e strumenti medici, con un tavolo. Sagot non gli lasciò la mano. Evidentemente non aveva intenzione di parlare della faccenda. (Ha paura. Come dovrei sentirmi io?) Ma rimase lì fermo, mentre dei medici entravano e gli dicevano di togliersi il kilt e di stendersi.

— Non preoccuparti per me — disse a Sagot. Non voleva spogliarsi mentre lei era lì, non perché pensasse di sconvolgerla (ho quattordici pro-nipoti, ragazzo) ma proprio perché lei non lo sarebbe stata; l’avrebbe guardato come un bambino, e Thorn-bambino era già troppo nudo. Sagot invece rimase. Thorn le voltò le spalle, si slacciò il kilt e salì sul tavolo come gli avevano detto i medici. La testa gli girava e si sentiva le membra lontane dal corpo. Scivolò allora in un’immensa calma, che di per sé lo allarmò.

(Era una droga quella che Sagot mi ha dato. Duun lo sa? Sa dove sono, quello che stanno facendo, l’ha ordinato lui?)

Gli applicarono degli elettrodi sul corpo. Se lo sentiva lontano, molto lontano. Parlavano in mormoni, oppure era successo qualcosa al suo udito. Regolarono uno schermo sulla sua testa. Qualcosa di morbido si appoggiò sul suo corpo nudo, e si rese vagamente conto che gli avevano messo addosso un lenzuolo. Gliene fu grato. (Fa freddo qui. Certe volte non si rendono conto di quanto senta freddo; loro hanno la pelliccia, io no. E adesso sto sudando… ) Qualcosa gli strinse le gambe, poi il petto. — Parlategli, per amore degli dei! Non è mica un pezzo di legno.

— Sagot-mingi, dobbiamo chiedervi di fare silenzio; con rispetto, mingi Sagot.

Qualcosa si appoggiò pesantemente sulle spalle di Thorn e lo scosse. — Tieni gli occhi aperti. Guarda in alto.

Thorn obbedì alla voce. E risentì i suoni dei suoi nastri, più volte.

— Batti le palpebre. Bene, così. Puoi batterle, se vuoi.

— Sta seguendo, vero?

La voce svanì. Sentì un’altra voce, che gli parlava. Aveva delle immagini davanti a sé, si trovava in un simulatore; altre voci, altre immagini e gente come lui che si muoveva nel buio; e poi facce che gli dicevano parole confuse, macchine e ancora macchine.

Cercò di liberarsene.

Degli occhi lo fissavano, simili a specchi. Altre macchine che ruotavano nel buio e braccia che si muovevano…

Lottò. Fuggì, e lottò.

— Questa è la tua eredità — gli disse una voce dal buio. — Accettala, Haras-hatani. Questa è la tua eredità. Accetta quello che senti e vedi. Smettila di opporti. Accettala. Questa è la tua eredità.

Caos d’immagini.

— Ascolta i suoni. Impara, Haras-hatani. Ricorda queste cose.

— Svegliati.

Disteso sul tavolo e coperto dal lenzuolo, Thorn era tutto in un bagno di sudore. Avrebbe voluto soltanto rimanersene lì, tranquillo. Gli occhi gli facevano male come se ci fosse dentro del sudore; e forse era così. Qualcuno gli asciugò la faccia, e il panno gli diede delle sensazioni neutre: umido e ruvido, né freddo né caldo. Qualcuno gli sollevò un peso dalle gambe e dal petto. — Sei sicuro di avere fatto bene? Non è ancora sveglio. — Lo era, ma preferì tenere il segreto per sé, e fissare l’acciaio delle macchine, ignorando le facce e le mani, e l’improvvisa nudità del suo corpo mentre gli toglievano gli elettrodi, con piccoli strattoni che avrebbe dovuto sentire, ma non sentiva.

— Non ha un bel colore.

(Ho freddo, stupido.)

Qualcosa gli punse il braccio. Un dolore sopportabile. Dopo un attimo sentì il cuore battere forte, come negli incubi.

(Andate via. Lasciatemi solo. Non toccatemi.)

— Tenetelo fermo, non fatelo muovere.

Batté le palpebre. I medici gli tenevano stretti gli arti facendogli male. Alzò la testa. — Lasciatemi andare. Sono sveglio. Voglio sedermi.

Loro assunsero un’aria sciocca, lasciando cadere le orecchie. Dopo averci pensato un po’, lo lasciarono andare; uno che stava al suo fianco gli mise una mano sotto la schiena, e un altro lo aiutò ad alzarsi.

— Avete finito? — chiese Thorn.

— Abbiamo finito — rispose uno. Raramente gli parlavano. — Ti metteremo un po’ a letto.

— Io torno a casa. — Thorn scese di scatto dal lettino. I piedi erano insensibili, ma le ginocchia lo ressero. Il medico allungò una mano, e Thorn lo fermò sollevando la sua: un gesto calmo, d’avvertimento. Il medico colse l’avvertimento e si ritrasse.

— Sagot — disse qualcuno. — Sagot, venite, presto.

Thorn aspettò allora che Sagot entrasse. Si ricordò che era nudo. — Voglio i miei vestiti. — Un medico gli diede il kilt. Thorn lo prese e lo indossò faticosamente: aveva le dita intorpidite e le gambe malferme.

Una porta si aprì. Alzò gli occhi su Sagot. — Sagot — disse. Cercò di essere cortese. Duun gli avrebbe fatto del male se fosse stato maleducato coi medici, e Thorn era disperato. Parlò con voce molto calma e gentile, senza agitarsi. — Sagot, dicono che dovrei andare a letto qui, ma preferirei andare nel mio a dormire. Per favore, portami a casa, Sagot.

Lei lo guardò serrando la sua bocca già sottile. Per un po’ non disse niente. — Va bene — acconsentì alla fine. — Chiamate la guardia e Duun; ditegli che stiamo arrivando. — Sagot gli venne vicino e strinse tutte e due le mani intorno alle sue. Insieme, Thorn e Sagot uscirono da quella stanza.

— Aspettiamo qui un momento — disse Sagot nell’altra stanza. E rimase lì con lui, tenendogli il braccio. Dopo un momento la porta si aprì e apparve la guardia che lo accompagnava sempre. Si chiamava Ogot. Non parlava molto, ma era simaptico; era un uomo di Duun, e se Ogot l’aveva portato in quel posto senza dirgli niente, forse era quasi all’oscuro di tutto. Ogot sembrò preoccupato vedendolo, e Thorn provò vergogna per la sua debolezza.

— Va tutto bene — disse Sagot — gli hanno solo dato dei sedativi; cammineremo adagio. Il ragazzo vuole andare a casa subito. Vieni, Thorn.


Non era nel suo letto; era sdraiato sui cuscini del rialzo che toccava la parete della sala. Le finestre mostravano rami agitati dal vento e vetri bagnati di pioggia. Dall’audio venivano rumori di tuoni e d’acqua. E c’erano bagliori di lampi. Il condizionatore soffiava aria umida e fresca e l’odore dei boschi sotto la pioggia. Disteso sui cuscini, Thorn se ne stava lì, nella stanza che conosceva (ma le pareti cambiavano sempre) e sbatteva le palpebre. Conosceva quegli alberi, quello piegato, il ramo contorto, le rocce, la via per arrampicarsi…

— Eccomi qui. — Duun si sedette sul rialzo, prese la tazza e gli versò il tè. — C’è dentro dell’aghos, non sputarlo; hai bisogno di calorie.

Thorn prese la tazza e sorseggiò il tè. Aveva un sapore dolciastro, ma era sempre meglio del sapore della sua bocca. Guardò Duun: teneva il collo rigido, perché aveva dormito nella posizione sbagliata.

— Bene — disse Duun. — Ti ho spostato qui.

— Mi hai portato? — Ricordava il letto; ricordava che Duun l’aveva svegliato una volta per farlo bere.

— Ce la faccio ancora.

— Duun, mi hanno…

— Sss.

Thorn rimase in silenzio. Era stato per dire qualcosa che l’avrebbe imbarazzato. (Hai alcune necessità impellenti, Thorn.) Si sentiva svuotato, in pace, dopo la tempesta. La falsa pioggia batteva sui vetri. — È Sheon, vero?

— Ho tenuto da parte questa scena. L’avevo fatta preparare un anno fa. Pensavo di usarla, un giorno o l’altro.

(Un giorno speciale. Oggi? È un dono? Per compensarmi di altre cose?)

— Ancora tè? Forza, devi svegliarti. Faremo un po’ di palestra, oggi pomeriggio.

— Vuoi uccidermi.

— Ce la prenderemo con calma, pesciolino. — La faccia di Duun lo guardava, mezza sana, mezza ferita, con quel sorriso eternamente canzonatorio. — Ce la farai.

(È contento di me adesso? Era un esame che ho superato?) — Duun, mi hanno…

Duun sollevò la destra con un dito alzato. Silenzio, voleva dire. (Non voglio che tu parli).

— Loro…

— Non è successo.

— Maledizione, è…

— Non è successo. Silenzio.

Thorn sentì il cuore battergli più forte. Fissò allora la faccia di Duun, con le sue cicatrici e gli occhi immobili. Il cuore gli batteva contro il petto. (Cosa mi stai facendo? Cosa mi stai facendo, Duun-hatani?)


— Sei lento, Thorn. Lento. Velocità!

Thorn ci provò. Girò su se stesso, perse l’equilibrio, saltò indietro per salvarsi, mentre il coltello con la punta coperta gli passava sulla pancia: sentì il tocco. Girò ancora e sollevò il pugnale, pronto a difendersi. Duun chiamò tempo, e s’inginocchiò sul pavimento. Thorn si sedette e si asciugò la faccia.

— Sono fuori allenamento. Mi riprenderò.

— Continuerai a far pratica — disse Duun.

— Come… “continuerai”? — (Qualcosa è cambiato? Cosa non va?) Continuerai sembrava qualcosa di definitivo.

— Tre mattine su cinque studierai. Un giorno sì e uno no andrai in quella stanza. È un altro tipo di studio.

— Duun…

— … di cui non parleremo.

— Duun, non posso!

Non puoi?

Thorn ebbe un sobbalzo. Si strinse le ginocchia con le braccia. — Tu sai cos’è? L’hai mai provato?

— Non ne parleremo. Un giorno sì e uno no dovrai affrontarlo. Sai che dovrai affrontarlo; ci andrai da solo e sarai educato con i medici. Non te lo ripeterò un’altra volta. Se davvero ti farà soffrire, te lo faranno una volta ogni cinque giorni. Ma questa è una cosa che i medici decideranno per ragioni mediche, non per i tuoi capricci.

Per sempre? Per il resto della mia vita?

Duun esitò. Duun raramente esitava nel rispondere, anche se qualche volta si fermava a pensare. Questa volta, la pausa durò un minuto buono, e Duun aveva la fronte aggrottata. — È una prova, pesciolino. Non devi fallire, capito? Non ti dirò quanto tempo durerà. Non dovrai parlarne mai, qui dentro. La prossima volta dormirai nella sezione medica. Quando potrai tornare a casa con le tue gambe, ci verrai; potrai farlo in qualsiasi momento, e dirai: Ciao Duun, sono tornato a casa, cosa facciamo?… quello che fai ogni giorno. Sagot è stata debole e ti ha lasciato fare ciò che volevi. Io avrei dovuto rimandarti subito indietro, invece di coccolarti. La vita non ti coccola.

— Neanche i medici, Duun. Fa male, è… non so come comportarmi, Duun, aiutami, per amore degli dei, dimmi come devo fare!

— Accettalo. Con dignità. Accoglilo. Con tutta la forza e l’intelligenza che possiedi.

— Ho fallito oggi?

— No — rispose Duun. — No, sei stato meravigliosamente bravo. Puoi essere orgoglioso di te stesso. Hai reso felice un sacco di gente, gente che non hai mai incontrato. Ma non ne parleremo più; tornerai a casa e non dovrai parlarne; faremo tutto quello che facciamo sempre. Penso che ne sarai felice.

— E tu non mi sgriderai.

Per la seconda volta Duun parve colto alla sprovvista, e questo era un fatto ancora più raro. — No, pesciolino. Non ti sgriderò.

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