— Prendetevi cura di lui — disse Duun lasciandolo. Erano medici hatani, che presero i vestiti di Thorn, e lo fecero mettere in piedi su una grata di plastica, con le mani appoggiate su due tavoli ai suoi fianchi, per medicarle. Altri due medici lo lavarono con acqua e sapone a partire dai capelli: dell’acqua grigia, sporca di sabbia e carbone, gli scendeva lungo il corpo, e spariva nella grata bianca. Il ginocchio gli bruciava e doleva, ma il loro tocco rapido era delicato. I medici gli lavarono anche le mani, con maggiore attenzione. — Sentirai freddo — disse uno. Thorn sentì un odore pungente, di qualcosa che faceva senz’altro male; e una scossa che al momento parve arrivare fino all’osso, gli colpì la mano destra quando i medici ci spruzzarono sopra quel liquido chiaro, dall’odore intenso. Ma ne seguì l’insensibilità, o la cessazione del dolore. Fu un cambiamento così brusco, che solo allora Thorn si accorse di quanto dolore aveva sopportato. Continuarono a lavarlo, e passarono all’altra mano. La destra, l’immersero in qualcosa di gelatinoso; poi in qualcos’altro, che s’indurì in una pellicola lucida, mentre uno gli asciugava i capelli, e un altro gli medicava il ginocchio e lo bendava. Il loro tocco era gentile. Così i loro modi. — Potrei bere, per favore? — chiese Thorn, intendendo, se non era per loro un disturbo, dal tubo dell’acqua che adoperavano per lavarlo. Si era inumidito le labbra quando gli avevano asciugato i capelli, ma aveva ancora sete. Quello che gli stava asciugando i capelli si allontanò e gli portò una tazza d’acqua; poi gliela tenne mentre lui beveva, impossibilitato ad usare le mani su cui stavano lavorando. Thorn guardò l’uomo negli occhi e vi scorse solo gentilezza.
— Dovresti andare a letto — disse il medico che gli stava medicando la destra — ma dicono che non puoi. Ecco, è fatto. Tieni il gomito piegato il più possibile, non chiudere la mano e non adoperarla fino a quando la gelatina non si stacca, ricordati.
Anche quello che lavorava sulla sinistra aveva finito, e lo prese per il gomito, facendolo spostare dalla grata. Un altro portò una tuta e un casco, i suoi, pensò Thorn confusamente, perché aveva un auricolare bruciacchiato. Gliela fecero indossare con la stessa efficienza che avevano mostrato nel curargli le ferite.
(Allora torniamo.) I medici di Dsonan l’avrebbero preso e fatto stendere sul tavolo, mormorando cose oscure mentre ficcavano il naso in quello che avevano fatto questi medici. E gli avrebbero fatto male.
Ci sarebbero stati ancora i nastri. Niente sarebbe cambiato. Thorn rabbrividì, mentre gli allacciavano la tuta, e uno dei medici gli sentì il polso carotideo. — Vai subito a letto quando sarai a casa — disse. — Non possiamo dargli niente — sottolineò un altro, con aria preoccupata e con gentilezza, tutto al contrario dei medici di Dsonan. — Troppo rischioso. Speriamo che non reagisca alla gelatina. — Lo guardò e gli diede una pacca sulle spalle. — Ti senti male allo stomaco?
— No. Non molto.
Continuarono ad allacciargli le cerniere e le fibbie della tuta. — Accidenti, non può mettersi il casco.
(Perché tanta fretta? Cosa non va? Perché sono preoccupati? Ghotanin? Hanno lasciato andare Betan. È andata all’aeroporto? È andata?) Il pensiero che Betan potesse morire gli dava dolore. (Anche se è mia nemica. È stata coraggiosa a venire qui.)
— Ecco. — Un ultimo strattone. — Così è a posto. Tieni il casco sotto il braccio, non usare le mani. Chiamate Duun, qualcuno.
— È fuori.
— Grazie — disse Thorn, guardandoli. Era sincero. Uno di loro aprì la porta e chiamò Duun. Anche Duun indossava la tuta, e aveva sulla spalla una borsa di tela grigia, con cinghie nere, e il casco sottobraccio.
— Ce la può fare, vero? — chiese Duun.
— Prenditi cura di lui — disse un medico. E a Thorn: — Tieni il braccio piegato, capito? Addio.
Era tutto, dunque. Duun, in piedi presso la porta, guardò i medici come per ringraziarli, e fece uscire Thorn sul corridoio. Degli hatani andavano e venivano, nessuno con il mantello grigio, adesso. La maggior parte pareva avere mille cose per la testa, e alcuni erano di fretta. Passando, molti guardarono lui e Duun.
(Non mi odiano.) Thorn era abituato a quella particolare espressione che assumeva la gente quando lo incontrava. Anche Elanhen. Anche Sphitti. Specialmente Cloen, e specialmente i medici. E Betan, nella sala, poco prima. (Forse le loro facce non lo mostrano.)
(Ma sono hatani. Mi conoscono. Mi conoscono dentro, al di là della pelle, degli occhi e dell’aspetto esteriore, sanno che sono come loro. Giudizio sincero, l’aveva chiamato il maestro Tangan. Giudizio hatani.) Sentì un nodo alla gola e un bruciore agli occhi. (Voglio conoscere questa gente. Voglio restare qui… solo un giorno o due, non di più. Voglio parlare con loro, stare con loro, e passare qui tutta la mia vita.)
Percorsero un corridoio dopo l’altro, e infine le scale che portavano al tetto. Duun si fermò e gli prese le braccia, costringendolo a guardarlo.
— Betan è arrivata all’aeroporto. È decollata, e la stanno seguendo. I radar mostrano che un paio di aerei ghota sono appena partiti da Moghtan. La corporazione kosan sta facendo decollare aerei da Dsonan.
Thorn sbatté le palpebre, cercando di capire. (Per me. Per il fatto che sono qui. È impossibile.) Si sentì svuotato. — Cosa intende fare Betan?
— Non potrà colpire la Corporazione. Questo posto è difeso da un anello di missili. Degli hatani stanno andando da Ellud e da Sagot, in questo momento, per proteggerli; e da altri la cui vita è in pericolo.
Sempre più freddo. Il vuoto raggiunse il cuore di Thorn. — Dobbiamo raggiungerli!
— Lo stanno già facendo altri. Noi abbiamo un altro compito. — Duun gli lasciò le braccia, e lo spinse in fretta su per le scale. — La prima cosa è farti uscire di qui.
Non fu facile salire sull’aereo. Duun lo spinse da dietro, come aveva fatto per aiutarlo a salire sull’elicottero, e Thorn si arrampicò faticosamente fino alla cabina. La pelle del ginocchio gli si lacerò, mentre scivolava a sedere, contorcendosi. Cercò di afferrare alla meglio le cinghie; Duun s’infilò vicino a lui, gliele prese dalle mani e le allacciò; infilò poi le spine del comunicatore nelle prese prima che lui lo facesse da solo. I motori rombavano, la calotta si chiuse sulle loro teste e l’aereo si mise in movimento. Pilota e secondo pilota erano ambigue creature di plastica e metallo, che muovevano braccia sottili per schiacciare bottoni, nello spazio fra i sedili. L’aereo prese velocità, imboccò la pista e si lanciò in una corsa che li schiacciò contro gli schienali.
Lembi di nubi scivolarono veloci accanto a loro mentre riflessi di sole si inseguivano sulla calotta; poi l’aereo virò e proseguì con il sole sull’ala destra.
— Troveremo la nostra scorta fra pochi minuti — disse una voce sottile nell’auricolare. Il pilota o il secondo parlavano sul loro canale. — Ci verranno incontro a Delga.
Duun disse qualcosa, e la voce si fece risentire. — Abbiamo appena ricevuto un messaggio. Ci sono velivoli ghota diretti verso di noi. La nostra scorta li intercetterà. Si sono levati aerei da Homaan. Il concilio è stato convocato immediatamente: si sta riunendo in questo momento.
Thorn appoggiò la testa al sedile imbottito e fissò davanti a sé il bagliore lattiginoso e le figure nere e surreali dei piloti. Non c’era altro mondo che quello, non esistevano, né passato né futuro. Si sentiva sospeso e immobile mentre il cielo correva sempre più veloce incontro a loro, e voci lontane da terra parlavano ai piloti (che non potevano fare nulla) e dicevano che il mondo era piombato nel caos. Duun parlava di missili. Di intercettatori. Di un aereo che sarebbe decollato da una città, e di un altro, dall’altra parte del mondo, al di là di mari e continenti. La gente, da terra, guardava impaurita gli aerei che non poteva vedere, aspettandosi che dei missili cadessero su di loro. A Sheon, standosene in piedi sulla roccia marrone vicina all’albero contorto, dei bambini avrebbero alzato la testa agitando le mani verso le strisce bianche nel cielo. (“Guardateci, siamo qui! Ciao!”)… mentre missili spaventosi ruggivano fra fuoco e fumo.
(Non può accadere.)
(Non esiste non può, pesciolino.)
— Qualcuno ci sta intercettando. — Ancora la voce del pilota.
— Direzione quarantacinque, in basso.
— Dal mare — disse Duun. — È Betan. Lo immaginavo. Tienti forte, pesciolino.
L’aereo virò, fuggendo. L’accelerazione li afferrò, tirando mascelle, occhi e interiora. Thorn sentiva un battito nelle orecchie e vide che il naso gli sanguinava. L’aereo oscillò. Si inclinarono bruscamente. (Ci sfracelleremo. Siamo stati colpiti.) Thorn rotolò la testa nella poltrona mentre il suo cuore sembrava impazzire, e il sole vorticava, tornando sull’ala destra.
— Ci hanno mancato e noi li abbiamo colpiti. È caduto.
(Di cosa stanno parlando? Dell’altro aereo? Di Betan?)
La luce lattea li circondò di nuovo, implacabile. Su uno schermo un puntino di luce si spense e Betan non esisteva più, un aereo si era frantumato, vite si erano spente… (“Ci hanno mancato e noi li abbiamo colpiti.”) Il loro aereo era esploso. Questo era stato il tremito. E Betan era morta all’istante, con tutto il suo coraggio e la sua abilità. (“È caduto.”)
— Betan — disse Duun — si è diretta verso il mare, poi è tornata. Tanto di cappello. Poteva vincere lei.
— È morta.
Ci fu un momento di silenzio. Il cielo era incredibilmente terso. Di nuovo surreale.
— C’è un uomo che si chiama Shbit — disse Duun. — Un consigliere. Conosci la Dallen Petroli? Ricordi i nomi delle compagnie che hai studiato?
— Sì.
— Bene, non si occupano solo di petrolio, ma di molte altre cose. Energia, commercio, industrie. Hanno molto potere nel concilio. Si sono accorti che gli stava sfuggendo di mano. Così hanno fatto eleggere Shbit: uno dei loro. Shbit voleva che tu fossi trasferito dall’ala di Ellud in una dove fosse più facile l’accesso, dove saresti stato più… pubblico. Dove la politica poteva beneficiare delle controversie. Dove io avrei dato meno fastidio. Non possono rovesciare un giudizio hatani. Ma possono minarlo. Possono venirti addosso da tante parti che non riesci più a vederle. Shbit ci ha provato. Aveva alcuni ghotanin ai suoi ordini. Guardie personali. Sono comuni quanto la pioggia, nei servizi privati. Aveva alcuni liberi hatani che sapeva come raggiungere. E alcuni kosanin, che gli dei li aiutino. Lo sciocco fece passare Betan attraverso uno sciocco di sovrintendente al personale, il capo della sicurezza, il capo divisione, Ellud… dei, cinque anni fa; mentre eravamo ancora a Sheon. Il più brillante giovane ufficiale della sicurezza che avesse Ellud. Per forza.
— Elanhen, Shitti, Cloen…
— Anche loro appartenevano ai servizi di sicurezza. Shitti è un libero cittadino, figlio di una donna che conosco. Elanhen e Cloen vengono dalla stazione: sono kosanin. Bravissimi ragazzi. Betan: libera cittadina, una carriera nei servizi di sicurezza. Così dicevano. Avevano lasciato fuori alcuni dettagli importanti, nel suo caso.
Il volo proseguì, regolare. La luce lattea non cambiava mai. Da una parte e dall’altra termini freddi come intercettare scivolavano dalle radio. (È caduto…) Vite che finivano. E dietro le foreste illusorie sulle finestre delle citta, silos di missili si aprivano come fiori nel sole.
— … Betan sapeva che ci stavamo riuscendo. È stato questo a fare inclinare la bilancia. Aveva aiuto: tutte le risorse di Shbit, e dati falsificati. Malgrado tutto questo, ha mandato tutto a monte… un libero ghota può commettere di questi errori. Ma non lavorava per Shbit. Voleva mandare a monte le cose. Ucciderti, se ci riusciva. Faceva il doppio gioco con Shbit. Sapevo che questa era una possibilità. Ho preso tempo per sistemare la faccenda, ed è stato quasi troppo, mentre lavoravo a quei nastri.
— Tu…
— Quando eri fuori. Ogni giorno. Costantemente. Non importa. C’era troppa carne al fuoco; avevo affrettato le cose e non avevo tempo; e poi ero trattenuto dalla legge. Avevo seguito le tracce di Betan fino a Shbit. Quando ho saputo che era ricomparsa, sotto la custodia di Shbit, ed era viva… allora ho capito che Shbit stesso era Ghota, o che era manovrato da loro. Il piano era chiaro.
Thorn girò la faccia dal sole, e guardò Duun, un volto reso senza volto dalla maschera e dal visore in plastica su cui si rifletteva il sole.
— Betan — disse Duun, lontano attraverso gli auricolari — aveva forse speso tutta la vita per quello scopo. Servizio alla corporazione. Un tipo speciale di ghota. Gli dei sanno quali informazioni fornivano i ghotanin a Shbit, dal dipartimento. Shbit si trovò contro la corporazione ghota, del tutto spiazzato… giocava le loro mosse contro di me, pensando che fossero le sue. Anche la Compagnia Dallen. Non posso dire che non mi aspettassi dei guai fra corporazioni. Ma c’era la legge, di nuovo… stavo cercando di evitare che venisse meno l’autonomia del concilio. Maledizione, mi avevano dato troppo. Ho lasciato vivere Shbit perché sapevo che era una leva che potevo manovrare, e uno a cui i ghota avrebbero risposto. C’è una spia nell’ufficio di Ellud che ho lasciato stare, Sagot è la mia spia.
(Qualcuno è ancora fedele a questo mondo. O Sagot, un po’ di verità.)
— … E tu hai fatto quello che ci aspettavamo.
— Cosa ho fatto? Quei nastri? Quei maledetti stupidi nastri? I numeri e le figure?
— Sei sopravvissuto a essi. Sei sopravvissuto, pesciolino, e li hai letti. I medici sarebbero venuti a conoscenza di quello che tu sapevi; di lì a poco: bastava un altro giorno… e nell’istante in cui l’avessero saputo, quella falla aperta avrebbe lasciato filtrare le notizie dritto al nostro nemico. Ellud non voleva che tu lasciassi l’edificio; avrei potuto prevalere su di lui, ma si sarebbe opposto, e avrebbe complicato le cose in maniera irreparabile. È un brav’uomo, onesto; e ha sempre bisogno di più tempo di quanto gliene concedono gli avversari. Alcune cose non ho potuto dirle neppure a Tangan: come la guerra fra corporazioni e come il fatto che avevo manovrato quella leva.
— Questo Shbit ha mandato Betan quando ha saputo che avevamo lasciato la città.
— Cominci a capire. Ha dato a un ghota un aereo corriere, senza sospettare che era stata ingaggiata dalla sua corporazione per essere assunta da lui. Ho dovuto darle un equipaggio ghota; nessun kosan l’avrebbe portata da noi.
— Ma perché è venuta qui?
— Non poteva batterci. Per Shbit, doveva far finta di piangere, urlare e altre scene del genere. Calunniarti, tenerti fuori dalla corporazione, creare scandalo. Per i ghotanin… doveva arrivare e consegnare un messaggio della sua corporazione. Hai osservato Tangan. Non si è piegato. Questo è chiaro per te e per me… Ma i ghotanin sono convinti che ogni cosa può essere comprata, se vengono stabiliti i giusti termini; è arrivata, e si è accorta di non avere la giusta moneta… dal suo punto di vista. Era chiaro, quando ha detto di tenerti fuori, in quel modo, che non parlava per Shbit. Tangan allora l’ha capito. Ha capito chi era, cosa gli avevo fatto, e perché. E ci ha perdonato tutti e due. — Duun rimase a lungo in silenzio.
E uomini e donne morivano per loro, stavano morendo in quel momento, su aerei che sfrecciavano e lanciavano missili che nessuno vedeva, tranne sugli schermi radar.
(Accidenti a te, Duun. È una manovra anche questa?)
— Mi piaceva — disse Thorn alla fine. — Tangan mi piaceva, Duun.
— Non l’ho tradito. Gli ho dato la forza di cui aveva bisogno. L’ho liberato. Capisci?
— Per fermare i ghotanin?
— Per sostenermi in quello che faccio. Ancora non capisci, pesciolino? Capirai. — Un rumore di scariche elettrostatiche: la mano di Duun, sul fianco del casco, che cambiava canale. — Come va?
— Lo schermo di Dsonan cadrà tra un minuto, per lasciarci passare — arrivò la voce del pilota. — Fanno sul serio. Due missili hanno colpito la base. La Terza Ala gli rovescerà addosso tutto quello di cui dispone, mentre entriamo, sey Duun.
— Gli dei li salvino — mormorò Duun. — E salvino tutti noi. Fai le cose come si deve, Manan.
— Ci sto provando di sicuro.
Thorn si sporse per guardare dalla calotta. Ma non si vedeva niente, oltre le loro ali, a parte il sole impietoso e il cielo infinito.
Ancora scariche. — Non per innervosirti, pesciolino — disse Duun — ma quello che sta succedendo è che Dsonan ritirerà le sue difese missilistiche per lasciarci una finestra d’ingresso, e non chiedermi cosa succede se qualcosa s’inceppa. I kosanin si stanno muovendo per essere certi che non passi nulla durante quei cinque minuti cruciali che ci saranno necessari per superare le difese. Quando saremo atterrati scenderemo da quella parte, sull’ala. Farà più caldo che all’inferno. Salta giù dopo che io sarò a terra. Ti sosterrò nel cadere. Poi non pensare a niente: corri e basta verso la rampa di lancio del traghetto.
— Il traghetto?
— La cosa più alta che vedrai di fronte a te.
— Lo so com’è fatto! Dove andiamo?
— Alla stazione.
Scariche. Il muso dell’aereo si abbassò, e l’altezza divenne velocità.
(“Più di Mach due, se c’è bisogno.”)
Thorn tremò. Sentiva male, per le ferite e per il caldo; respirò, ansimando, il sottile filo d’ossigeno della maschera; il naso, la gola e gli occhi gli bruciavano. Il sudore gli colava dalla fronte. C’era uno strano suono, acuto, una sensazione che gli vibrava nelle ossa e nelle viscere come una paura ancestrale. (Ho paura, Duun; Duun, non voglio morire così…)
C’era una macchia davanti a loro, un’ombra, un bagliore di luce.
(È la terra che si avvicina; quello è il fiume… O dei, è la terra, quella è la città…)
L’accelerazione gli strinse le membra in una morsa, di nuovo il dolore… il mondo s’inclinò bruscamente, divenne metà terra metà cielo, tagliati verticalmente, poi si raddrizzò, mentre Thorn sentiva le cinghie tendersi. (Si spezzeranno, finirò contro la calotta, non posso tenermi…)
Poi intervenne un’altra forza, brutalmente, e cominciarono a perdere velocità. Un’orecchia gli si chiuse, facendogli un male del diavolo, e l’accelerazione aumentò e aumentò, in un supplizio che formava un tutt’uno con il resto.
All’orizzonte c’era del fumo; avvolgeva e sovrastava la città da una parte, in un cielo grigio di nubi. Davanti a loro apparve una pista, una linea pallida e dritta. L’aereo toccò terra con la coda, in una lunga corsa che lo scosse tutto, prima che il rombo dei motori che avevano invertito la rotazione ne diminuissero la velocità. Le gomme del carrello stridettero e i reattori ruggirono, mentre davanti a loro appariva una rampa di lancio, altissima, con il traghetto che s’innalzava come una torre bianca contro il cielo macchiato di fumo. Sull’orizzonte esplose un sole rosso, si gonfiò, impallidì. E poi un’altro, luminoso anch’esso.
L’aereo sobbalzò e ondeggiò sul fondo irregolare, mentre un autocarro veniva verso di loro. La calotta si ritrasse, e si sentì l’odore del metallo che si raffreddava, schioccando e crepitando. Duun staccò i cavi e il tubo, slacciò la sua cintura, poi quella di Thorn, uscì e saltò sull’ala. Thorn si mise in piedi ed ebbe un sobbalzo sentendo il calore della fusoliera. Osservò Duun saltare dal bordo posteriore dell’ala sul cassone dell’autocarro, e atterrare piegando un ginocchio.
Thorn si fece coraggio: rotolò su un fianco e scivolò sull’ala, fece un passo su una superficie che si piegava e saltò verso il cassone e le braccia di Duun che nel frattempo si era rialzato.
Sia lui che Duun finirono a gambe all’aria. L’autocarro si allontanò in fretta e l’aereo rimpicciolì dietro di loro. All’orizzonte altri soli esplosero; uno fiorì in cielo e svanì in una nuvola di fumo.
Stretto tra le braccia di Duun, Thorn tremava. Poi, appena Duun gli tolse la maschera, si riempì i polmoni di aria fresca. Duun lo strinse ancora di più, mentre l’autocarro sobbalzava stridendo verso la rampa, che incombeva su di loro, una struttura bianca contro il cielo devastato dal fumo. Il veicolo frenò. — Giù — disse Duun, e lo aiutò ad alzarsi; saltò giù dal retro, ed era lì a sorreggerlo quando i suoi piedi toccarono terra.
— Avanti. Corri! - Duun lo trascinò verso la rampa, verso la bianca parete che era una pinna della navetta. C’era un ascensore, con la porta aperta, e una donna che gli fece cenno di correre, correre, quasi con violenza. Lo raggiunsero. La donna chiuse la porta, e mosse una leva che li fece partire. L’intera cabina odorava delle loro tute, di sudore e di paura, e Thorn barcollò quando si mise in moto. La mano di Duun gli si posò sul petto. — Tieni duro, maledizione, Thorn! Tieni duro!
Thorn tese i muscoli delle ginocchia e si appoggiò alla parete con un braccio. Le travi metalliche scivolavano confuse fuori dal finestrino. Poi la donna abbassò la leva, e la cabina si bloccò di colpo. La porta si aprì, mostrando un portello aperto, dalle pareti spesse.
— Avanti — disse Duun, spingendo Thorn, e lo seguì. Thorn si voltò a guardare, mentre giungeva il rombo lontano delle esplosioni.
Restando fuori, la donna chiuse il portello, sparendo in una mezzaluna, sempre più piccola, di luce nebbiosa. Tump. (Che ne sarà di lei?) Il mondo pareva un posto insicuro. Ma Duun lo fece girare e quasi lo scaraventò su uno dei tre sedili quasi orizzontali, sul pavimento, nella piccola cabina buia.
— Allacciati le cinture — disse Duun mentre gli si sedeva accanto e gliele allacciava. Duun si tolse infine il casco e schiacciò un bottone sul bracciolo del sedile. — Noi siamo a posto, siamo a posto.
— Vi sentiamo chiaro.
Thorn si levò il casco usando i polsi; Duun lo aiutò, poi infilò il casco in un ripostiglio nel pavimento, lì vicino. Il coperchio si chiuse con un rumore di vuoto. Thorn si stese, respirando a grandi boccate, mentre Duun si allacciava le proprie cinture. — Aspettano che l’attendente scenda — disse Duun, tenendo la testa appoggiata e gli occhi chiusi. — Anche l’autista dell’autocarro dovrà allontanarsi.
— E l’aereo?
— Maran e Koga… sono diretti a Drenn. Rifornimento, e di nuovo in volo. È la loro ala che sta sostenendo l’assalto, laggiù. Avranno una finestra di uscita: la nostra. Dovranno abbassare lo schermo missilistico di nuovo, per farci partire.
(Della gente sta morendo. Da ogni parte bombe che esplodono. Tutta quella gente…)
Un rumore di tuono, sempre più forte. (Colpiscono vicino.) Il sudore ricopriva tutto il corpo di Thorn, con un senso appiccicaticcio di morte; poi il rumore gli penetrò fino alle ossa, e la forza scese su di lui, vertiginosa, totale. Ci fu un altro tuono e la nave emise rumori metallici, come se stesse andando a pezzi. (Non ce la faremo, non ce la faremo… qualche missile ci fermerà.)
Il peso crebbe, schiacciandolo sul sedile.
Stavano lasciando la terra. Tutto. C’era il vuoto davanti a loro, incomprensibile e senza fine.
(Ho guardato la luna cercando di vedere dov’erano.)
(Il mondo è grande, pesciolino, più grande di quanto tu creda.)
(Il mondo è meraviglioso. Non hai visto le foto?)