3

Quando i medici tornarono, c’era anche Ellud. — Ellud — disse Duun.

— Ti trovo bene — replicò Ellud, scrutandolo con una lunga occhiata. E con uno sguardo furtivo a Thorn, che era fermo nel salone dove gli odiati medici preparavano i loro strumenti di tortura. Thorn guardava accigliato. Il sole aveva dato alla sua pelle una tinta bruno-dorata. I capelli, che Duun tagliava in modo che non si impigliassero nei rami o gli scendessero sugli occhi quando lavorava, erano di un colore terra chiaro e lucido. Gli occhi erano per metà bianchi e per metà azzurri. Il naso si era fatto più sporgente, i denti forti, anche se smussati. Era immobile. Le sue povere orecchie non sapevano muoversi. Solo l’allargarsi regolare delle narici tradiva il suo fastidio.

— Thorn — disse Duun. — Vieni qui. Questo è Ellud. Non essere maleducato, Thorn.

— È un medico? — chiese Thorn sospettoso.

Le orecchie di Ellud si abbassarono. Se gli avesse parlato una roccia, non sarebbe rimasto meno scosso. Guardò Duun e non disse nulla.

— No — rispose Duun. — Un amico. Di molti anni fa.

Thorn alzò gli occhi e sbatté le palpebre. Arrivò un medico, lo prese e si apprestò a misurargli i battiti.

— Torna in città — disse Ellud. — Duun, ritorna.

— E una richiesta o un ordine?

— Duun…

— Ricordati: mi hai promesso qualsiasi cosa. Non ancora, Ellud.

Quella sera Thorn rimase silenzioso e triste. Era pensieroso. Non chiese di Ellud e non parlò dei medici.

Thorn adesso dormiva da solo. C’erano dei cambiamenti nel suo corpo che rendevano la cosa consigliabile. Andò nella sua stanza, fra le molte della casa, e si rannicchiò nella propria intimità. Duun andò a trovarlo.

— Le mie orecchie cresceranno? — chiese Thron guardando Duun che se ne stava in piedi sulla soglia.

Orecchie. Forse quella era la cosa più facile e meno dolorosa da chiedere. Rimase per un po’ in silenzio. Aveva pensato a come rispondere sugli artigli, i peli, la forma delle facce e la differenza nei lombi. Aveva pensato a tutto tranne che alle orecchie.

— Non credo — disse. — A me non importa, e a te?

Dalla piccola ombra nel letto non giunse nessuna risposta.

— Sei insolito — aggiunse Duun.

Thorn tirò su col naso.

— Tu mi piaci così — proseguì Duun.

— Tu mi piaci — sussurrò la piccola voce senza corpo. Ancora il rumore col naso. — Mi piaci, Duun. — Amore, ricordò Duun, era una parola che non aveva mai usato con Thorn. Mi piaci. Come poteva dar piacere il fuoco caldo o il sole sulla schiena.

— Anche tu mi piaci, Thorn.

— Non voglio più medici.

— Glielo dirò. Vuoi andare caccia, domani? Ti darò un coltello tutto tuo. Ti farò vedere come si tiene la lama.

— A caccia di cosa? — Tirò su col naso. Si passò un braccio sugli occhi e poi sotto le narici.

C’era interesse nella sua voce infantile.

— Io sono hatani, Thorn. È una cosa difficile. Per questo non ti do tregua.

— Cos’è hatani?

— Te lo farò vedere, domani. Ti insegnerò. Imparerai a fare quello che so fare io. Sarà dura, Thorn.

L’ombra si passò ancora una volta il braccio sugli occhi.

— Domani, Thorn?

— Sì.

— Allora dormi.

Duun tornò vicino al fuoco. Il vento fuori ululava, al freddo. Le fiamme balzavano alte. La legna dei contadini era finita. Avevano cominciato a usare un vecchio tronco che si trovava lungo il pendio. Lo aveva tagliato con la sega meccanica che si era fatto portare insieme alle provviste, e lo portava su un pezzo alla volta. Nessuno dei contadini avrebbe toccato la catasta che aveva innalzato ai margini della strada. Non si facevano vedere e non lasciavano segni vicini alla casa. Ma lui però sapeva che erano lì.

Conoscevano la pazienza hatani, ma i contadini avevano una pazienza tutta loro. Forse le cose sarebbero cambiate; forse l’hatani sarebbe morto; forse l’alieno avrebbe avuto un incidente; forse il loro diritto di proprietà sarebbe tornato valido.

Forse facevano dei brutti sogni, giù nella valle, sull’altro lato della montagna, lontano dalla sua vista e dalla sua mente. Forse avevano incubi, immaginando che i loro boschi non fossero più loro.

O che i boschi non potessero appartenere più a loro, per sempre.

Aveva chiesto, ottenendole, la casa e le terre di Sheon. E finora, di quei terreni, non aveva mai usufruito.

Prese le sue armi dall’ultimo ripiano dell’armadio chiuso a chiave dove le aveva messe, lontane dalle mani curiose del bambino. Le aveva tirate fuori molte volte per pulirle e oliarle, e non aveva mai permesso al piccolo di toccarle: con grande frustrazione di Thorn. Ma un bambino deve avere delle ambizioni non soddisfatte; deve sapere che ci sono cose proibite. Senza dubbio, Thorn aveva tentato di prenderle, qualche volta. I bambini non sono sempre virtuosi. Era un cosa prevedibile; perciò Duun aveva preso le sue precauzioni.


— Le hai mai prese in mano? — chiese Duun, quando Thorn fu seduto di fronte a lui, in mezzo il panno su cui erano appoggiati una serie di coltelli, corda, filo metallico, due pistole, una che sparava proiettili, l’altra no. — Le hai mai provate?

— No — disse Thorn.

— Lo faresti, se ti dicessi di no?

Gli occhi alieni del bimbo si alzarono a guardarlo, con le iridi che si dilatarono e contrassero per la sorpresa. La rapida, furtiva decisione di dire sì: la cosa più facile, da trasgredire all’istante… Se voleva. Avrebbe forse ricevuto un colpo di dito, rapido e pieno di disapprovazione sull’orecchio. Forse uno schiaffo che gli avrebbe fatto lacrimare gli occhi. Ma Thorn poteva sopportarlo. Non c’era nulla di permanente. Nulla di eterno. Così come mancava di un passato, mancava di un vero futuro e credeva che nulla potesse ostacolarlo per sempre.

Non esisteva la parola non posso per Thorn. Così gli aveva insegnato Duun.

— Non te lo sto chiedendo — disse Duun sollevando l’indice della destra. — Ti sto dicendo una cosa. Voglio che tu ci creda. Le prenderesti in mano se ti dicessi di no?

Dall’eccitazione e dal gioco, alla perplessità. La fronte di Thorn si contrasse in uno spasmo di ansia. Forse Duun avrebbe rotto la promessa? Forse lo stava prendendo in giro?

Duun si tolse il mantello e lo lasciò cadere alle sue spalle. Prese il wer, un coltello di medie dimensioni. Allungò il braccio sinistro, stringendo il pugno, e appoggiò la lama sull’avambraccio.

— No! — gridò immediatamente Thorn. Un gioco? Una minaccia? Aveva fatto qualcosa di sbagliato? Duun si stava prendendo gioco di lui?

Duun affondò lentamente la lama, giù, giù, in profondità. Il sangue uscì e cadde in gocce regolari e pesanti sulle armi e sul panno. Duun tenne il pugno stretto e il braccio fermo appoggiando l’impugnatura del coltello sul ginocchio. Gli occhi di Thorn erano spalancati, la bocca aperta, senza che ne uscisse un suono.

— A questo servono le armi — disse Duun. Il sangue sgorgava, inzuppando il panno. — Ogni volta che le prendi in mano, ricorda a cosa servono.

— Basta — gridò Thorn. — Duun, basta sanguinare!

Duun estrasse il coltello. Dal braccio ferito usciva ancora sangue. Lo passò nella mano mutilata e l’offrì a Thorn tenendolo per la punta. — Sei capace di farlo?

Thorn prese il coltello insanguinato. Aveva ancora gli occhi spalancati. Le sue labbra si chiusero, contratte. Tese il braccio, col pugno chiuso, appoggiò il coltello sulla pelle e spinse la lama come aveva fatto Duun. Aveva la faccia rossa e gli occhi pieni di lacrime, le narici e le labbra pallidissime. Affondò il coltello. Il sangue cominciò a colare. La piccola mano si ritrasse, il coltello vacillò, un tremito s’impossessò del braccio che lo teneva, poi dell’altro. Come aveva fatto Duun, appoggiò la mano col coltello sul ginocchio. La sua faccia era completamente bianca e coperta di goccioline, mentre il sangue scorreva e formava una seconda macchia scura sul panno.

Duun si era aspettato che all’ultimo momento si tirasse indietro. Sentì che la testa gli diventava leggera. La sua ferita era più profonda e sanguinava abbondantemente. Allungò la mano e riprese il coltello. Vide il terrore nel bambino. (Adesso cosa, Duun? Cos’altro? Di peggio? Ho paura Duun!)

— Non è un gioco — disse Duun. Mise giù il coltello, e appoggiò la mano destra sulla ferita. — Stringi forte anche tu. — Si alzò dalla sua posizione a gambe incrociate senza usare le mani, andò all’armadietto del pronto soccorso e appoggiò una pellicola sigillante sulla ferita. Tornò da Thorn con un secondo quadratino di pellicola gelatinosa e la premette sul braccio del bambino, scaldandola con la mano fino a quando non aderì, colorandosi di rosso. La ferita sarebbe diventata quasi subito una cicatrice. Mentre Duun gli teneva il braccio, gli occhi alieni di Thorn lo guardavano, circondati di bianco. La carne era morbida nella sua stretta. — Non dimenticherai — disse Duun. — Non dimenticherai cosa sono le armi. Non le prenderai mai se ti dirò di no.

— No — fu la fievole risposta.

— Le userai quando te lo dirò. E le metterai giù quando te lo dirò.

— Sì.

— Bene. — Appoggiò la mano mutilata dietro la testa di Thorn, e gli accarezzò la nuca stringendogliela finché la tensione si allentò, e il corpo di Thorn oscillò insieme al movimento della sua mano. Gli occhi del bimbo continuavano a fissare Duun. — Credimi, Thorn. Credimi in questo. Adesso ti fa male. Ma hai fatto quello che ti ho chiesto. Sei stato coraggioso.

I muscoli sul viso di Thorn tremarono, come per un gelo intenso. Le sue membra si contrassero. Duun si mise a massaggiarlo e continuò finché il tremito non svanì del tutto. Gli occhi di Thorn persero la loro espressione selvaggia. Erano grandi, velati da calcoli e previsioni. (Cos’altro vuole? Cosa ho vinto? Cosa ho fatto? Cosa succederà adesso?)

Duun lo lasciò andare e gli indicò le armi sporche di sangue. — Puliscile. Ti faccio vedere come si fa.

Thorn si mosse, si avvicinò alle armi sul panno. — Hai detto… — cominciò.

— Cosa ho detto?

— Che saremmo andati a caccia. Hai detto che saremmo andati a caccia, oggi.

— Infatti, andremo. Questa sera non si mangia, se non prendiamo qualcosa.

Gli occhi di Thorn si sollevarono di nuovo; poteva farlo tranquillamente, senza alzare la testa. Sperava in uno scherzo, invece il suo sguardo incontrò la faccia implacabile di Duun.

Non ci fu nessun problema, naturalmente. Le colline erano piene di selvaggina impreparata e nessuno la cacciava molto, almeno per il momento. E poi un hatani era capace di trovare sostentamento anche nei luoghi più desolati.

Thorn se ne sarebbe reso conto quando avrebbe avuto fame. Quando avrebbe provato a cacciare da solo scoprendosi troppo rumoroso e troppo goffo.

Quando avrebbe visto cosa c’era sulla terra, e cosa sapevano gli animali selvaggi.

— Ti ho promesso un coltello.

Uno sguardo, un interesse guardingo e grandi occhi bianchi.

— Il coltello wer. Quello che hai usato. Dovrebbe andar bene per te. È tuo, se vuoi. È un’ottima lama. Devi tenerlo perfettamente pulito. Anche le dita lo sporcano. Ti farò vedere come si tiene.

Thorn lo riprese in mano, per l’impugnatura.


Il ragazzo procedeva dinoccolato lungo il sentiero, pensando di essere all’erta: Duun lo sapeva. Thorn guardava da una parte e dall’altra; i suoi piedi callosi facevano pochissimo rumore sul sentiero polveroso, fra le rocce.

In alto - sibilò Duun. — Guarda in alto.

Thorn sollevò la testa. Duun si era già mosso, sparendo fra i cespugli.

Il ragazzo stava ancora guardando in alto, quando Duun lo colpì alla schiena con un sasso. Thorn si girò di scatto e lanciò. La pietra di Thorn si perse fra i cespugli e le rocce. Duun l’aveva evitata con uno spostamento fluido delle anche.

— Troppo tardi — disse Duun. — Tu sei morto. Io no.

Thorn lasciò cadere le spalle. Chinò la testa, vergognandosi.

Si girò di scatto e scagliò un’altra pietra, dal basso verso l’alto.

Duun evitò anche questa, spostando semplicemente il peso da un piede all’altro. Thorn non sembrò sorpreso, solo stanco. Battuto, alla fine.

Duun sorrise. — Andiamo meglio. Questo mi ha colto di sorpresa. - Il sorriso svanì. — Ma che tu abbia scelto questo sentiero, no. È stato il tuo primo errore. Come lo sapevo? Riesci a immaginarlo?

Thorn respirava ansando. Si accoccolò sul sentiero tenendo le mani appoggiate alle ginocchia coperte di croste. — Perché ero stanco. La salita è più facile.

— Ancora meglio. La prossima volta pensa prima. E pensa a tutto. Conosci questo sentiero. Avresti dovuto vedere queste pietre nella tua testa, prima di arrivarci.

Nessuna risposta. Thorn sapeva. Duun sapeva che lui sapeva. Thorn si passò l’avambraccio sulla faccia, mescolando polvere e sudore. Anche a quella distanza, puzzava di caldo.

— Inoltre — gli ricordò Duun con delicatezza — quando hai girato attorno alla montagna, il vento veniva alle tue spalle, ad angolo rispetto alle rocce. Capisci perché questo avrebbe dovuto metterti in guardia?

Thorn sbatté le palpebre bagnate di sudore e si asciugò ancora. Era diventato più slanciato, con gli arti più lunghi. La pancia si era incavata sotto le costole ed era segnata da muscoli ben visibili al di sopra del panno che portava attorno alla vita. Le cicatrici lasciate dai graffi risaltarono bianche sulla pelle. — L’odore — disse. C’era dell’umiliazione sulla sua faccia seminascosta. — Mi dispiace. Mi dispiace, Duun.

— Il dispiacere non ti salverà. Che tu non senta gli odori, non vuol dire che non li sentano gli altri. Sei morto, Thorn.

— Sì, Duun. — Un voce debole, roca. Le spalle si abbassarono ancora. — Non mi prenderai più.

— Davvero?

— Duun… ho fame, Duun!

Duun girò attorno all’albero e vi si appoggiò guardando il ragazzo in modo accigliato. — Vai a caccia, allora. Sciocco. Non dirmi di cosa hai bisogno. Saprò dove trovarti. Non aspettarti niente da me, Thorn.

— Non sto giocando, Duun!

— Neanche io. — Duun girò nuovamente attorno al tronco. Cominciò a scendere lungo il pendio. — La prossima volta ti farò male, Thorn!

Duun!


Il fuoco scoppiettava nella radura. Fecero pace. Thorn si curava i graffi. Fu la preda di Duun a essere divisa, carne che Thorn prese con la punta delle dita, passandosela da una mano all’altra per farla raffreddare.

— Te la cavi bene — disse Duun.

— Per uno che non sente gli odori — disse Thorn raucamente. — E che cade nelle trappole.

Duun mosse le orecchie. — Bene, ti preoccupi delle tue debolezze. Ci penserai. Non te ne dimenticherai più.

Duun, cosa c’è di sbagliato in me?

La domanda lo colse di sorpresa. La carne gli scottò le dita, e Duun la passò in fretta da una mano all’altra, per poi appoggiarla su un sasso.

— Sbagliato? Chi ha detto che c’è qualcosa di sbagliato?

Silenzio dall’altra parte del fuoco. Un silenzio penoso.

— Tu sei diverso — disse Duun. — O forse io sono diverso. Non ti è mai venuto in mente?

Non gli era mai venuto in mente. Thorn sbatté le palpebre, stupito. Poi l’incredulità si fece strada: c’erano i medici, c’era Ellud… Thorn non si fece prendere per il naso. E Duun fu compiaciuto anche di questo.

— Sei furbo — disse Duun. — Sei sveglio, intelligente, coraggioso. Tutto quanto. Sei Thorn. E se tu fossi il solo? E se io fossi il solo Duun? Questo farebbe qualche differenza? Tu sei tutto quello che puoi essere. Non hai bisogno d’altro. Io neppure.

— Parla chiaro, Duun!

— Il mondo è grande, ragazzo. Grande. Ci sono nove mari. Ci sono le città. Ci sono strade grandi e piccole. Gente che ha fretta. Le città sono piene di rumore. E Sheon è molto meglio. Gli dei hanno fatto l’intero mondo, ma hanno fatto Sheon per prima. Tu parli con i venti, Thorn. Senti gli dei che ti rispondono? Li senti?

— Non so.

— Questo non puoi sentirlo nella città. Chi ci abita è insensibile agli odori: ce ne sono troppi, da farti venire il mal di testa. — Duun strappò un pezzo di carne e inghiottì. — Gli dei hanno fatto il mondo, e per ultimi hanno fatto gli shonunin, con gli scarti; ma non bastavano. Erano dispiaciuti, così ciascun dio cedette un pezzo per completare quell’ultima creazione. Ecco quello che siamo: quasi tutti scarti e alcuni pezzi di dei. Un miscuglio di parti buone e cattive. Per questo tu non hai odorato, io ho solo sei dita e tu ne hai cinque su una sola mano.

— Come è stato…?

Ah. Il pesce aveva abboccato. Duun aveva pensato che quell’esca l’avrebbe distratto. Alzò le spalle. — Ho fatto un errore. Vedi? Anch’io faccio errori. E sono bravo, Thorn, molto bravo. Non sai quanto.

Thorn mandò giù a fatica un pezzo di carne. Doveva masticare più di Duun. Qualche volta, nella fretta se ne dimenticava. Quasi si soffocava. Rimase in silenzio. — Cos’è successo? — chiese alla fine. — Duun, cosa è successo alla tua…?

— Be’. Ho dato la caccia a una cosa che mi ha morso, vedi? — Sollevò la mano mutilata. — Se metti la mano in certe cose, giovane Thorn, può darsi che ne vieni fuori non come volevi tu.

— Cos’era?

Duun strappò un altro boccone. Inghiottì. — Mangia. Si sta raffreddando.

— Duun.

— Forse te lo dirò. Quando riuscirai a battermi, lealmente o no.

— Non ci riuscirò mai!

— Ah. Forse no. Ma hai parecchie dita di vantaggio e sei più giovane. Inoltre le ginocchia mi fanno male quando piove.

— I medici non potrebbero…

— Forse, ma non mi va.

La bocca di Thorn era spalancata. La chiuse e smise di fare domande. I suoi occhi erano oscurati da domande non fatte e da troppe risposte. Era ormai diventato un cacciatore guardingo per inoltrarsi in un sentiero che probabilmente nascondeva delle trappole. Thorn prese un altro boccone e mangiò in silenzio.

— T’insegnerò a sparare — disse Duun. — Quasi mi hai colpito con quella pietra.

Thorn alzò lo sguardo. Era stato distratto ancora una volta. Attirato lontano con le promesse. (O giovane sciocco. Sciocco chi mi ama. Thorn.)


— Un’altra sequenza — disse Duun. — A base dieci questa volta. I numeri sono: sedici, quarantanove, cinquantadue, novantasette, otto e due.

Thorn sedeva sotto la veranda posteriore della casa. Gli hiyi erano in fiore. Gli insetti ronzavano, e facevano andare in delirio i petali rosa. Thorn chiuse gli occhi e la sua fronte si aggrottò. — Duecentoventiquattro.

— Dividi per il terzo della sequenza.

Thorn si portò le mani agli occhi e spinse forte. — Quattro virgola tre. — Alzò gli occhi. — Non possiamo andare a cacciare, Duun? Sono stanco di…

— Altri decimali.

Thorn richiuse gli occhi. Le mani erano sempre premute, per escludere la luce. — Virgola tre zero otto.

— Aggiungi nove. Sottrai quattro, ottantadue, sei.

Le mani si abbassarono. Le palpebre sbatterono. — Mi dispiace, Duun, mi sono sfuggiti. Ho dimenticato…

— No. Non hai ricordato. Pensa. Dimmi i numeri.

— Non…

— Sto per sentire non posso?

— Non ricordo.

— Non ricordi. Non ricordi. C’era un nido di maganin; qui e qui e qui! Quanti erano? Quali gruppi? Dove? Ti hanno mangiato, sciocco!

— I maganin non si trovano a cinquantine!

— Ho vergogna. — Duun infilò le mani nella cintura del kilt e si allontanò.

— Duun…

Duun si voltò. Aveva le orecchie ritte. — Hai ricordato?

— No! No, non ho ricordato! Non riesco a ricordare! Non ricordo!

— Allora ho ancora vergogna. — Duun abbassò le orecchie, si voltò e si allontanò.

Duun… - Duun non si voltò. Avvertì dietro di sé lacrime e rabbia: era la natura di Thorn.

Ed era nella natura di Thorn tornare a casa alla fine, quando era buio e Duun aveva acceso il fuoco e si era seduto sulla sabbia davanti al camino. Duun aveva cotto il cibo, aveva mangiato e aveva portato la cena di Thorn fuori, appoggiandola sui gradini. Thorn non si vedeva. Ma era nella natura di Thorn ammettere la sconfitta quando giungeva la notte.

Thorn arrivò e si fermò vicino a Duun. — Duecentoventiquattro — disse.

Le orecchie di Duun si rizzarono. — Più nove. Meno quattro, ottantadue, sei.

— Centoquarantuno.

— Ah! Puoi!

Thorn s’inginocchiò. Si appoggiò alle mani. — Cosa c’è al mondo che si presenti in gruppi di duecentoventiquattro?

— Le stelle. Gli alberi. I tipi di erba. Le vie di un fiume. L’ostinazione di un bambino. Il mondo è grande, giovane Thorn. Io posso calcolare la velocità del vento, nominare le stelle, le città del mondo. Posso leggere le intenzioni di un uomo nelle pupille dei suoi occhi.

Duun girò su se stesso e colpì, con il palmo aperto. Il palmo di Thorn fu pronto a incontrare il colpo, lo bloccò e rimase fermo, tremando.

— Ah. Sei hatani, vero? Indietro, pesciolino. Non sei pronto a prendermi. Lascia andare la mano.

Era una trappola e Thorn la rifiutò. Non si mosse. Aveva gli occhi spalancati e cerchiati di bianco mentre il palmo gli tremava contro quello di Duun, che all’improvviso abbassò le orecchie.

— Adesso cosa fai? — chiese Duun.

— Lasciami andare. — Il tremito si fece più forte. — Lasciami andare, Duun.

Duun allungò la mano mutilata e circondò delicatamente il polso di Thorn con le sue due dita. Tirò. Il braccio tremava. Gli occhi di Thorn erano dilatati e guardavano febbricitanti nei suoi.

— Cosa farai adesso, pesciolino? Hai un problema, vero? Hai lasciato che io ci mettessi due mani.

Thorn alzò l’altra mano. Si arrestò a mezz’aria, tremando.

— Non è saggio. Neanche un po’ — disse Duun. — Sei inferiore. È meglio che la smetti. Non credi?

— Lasciami andare.

— Rilassati. Rilassati e abbi fiducia in me.

— No!

— Una volta, ricordi?… quando prendesti il coltello, ti dissi che dovevi prenderlo solo quando te lo dicevo io e riporlo all’istante se ti ordinavo di farlo. Questo è il momento, Thorn. Adesso ti dico di lasciare andare. Mi senti? Ti dico di lasciare andare, Thorn.

Il tremito si fece più forte. Il palmo si staccò adagio dal palmo. Duun serrò la mano attorno al polso di Thorn e se lo tirò sul petto. Thorn, che era completamente sbilanciato, cadde addosso a lui. Duun scoprì i denti e lo afferrò per entrambe le braccia, con gli artigli estratti. Lo scosse fissandolo negli occhi; erano faccia a faccia. — Ti avrei squarciato la gola, un secondo fa. Ci credi?

— No.

— Perché non l’avrei fatto?

— Non lo so, Duun!

Duun lo lasciò andare. Thorn cadde a sedere e se ne stette lì a fregarsi le braccia. Sarebbero rimasti i graffi e i segni degli artigli. Duun lo sapeva.

— Sei un pazzo, allora? — chiese Duun. — Perché l’hai fatto?

— Mi avresti colpito — disse Thorn, con una logica perfetta.

— Sì — disse Duun.

Un altro cambiamento. Thorn rimase seduto, a bocca aperta, esterrefatto e silenzioso mentre dai suoi occhi scorrevano le lacrime. Il ragazzo scoprì il caos nel mondo, somme che non avevano la giusta risposta. — Il mondo è pieno di scelte che sono in ogni caso sbagliate — disse Duun. — I numeri invece, funzionano sempre. Ci si può fidare dei numeri. È per questo che li impariamo. Per dare al mondo un certo ordine. In nessun altro campo della vita le cose funzionano. Lo capisci questo?

— Sì. — I denti di Thorn battevano. — Capisco.

— Tu sei hatani. Wei-na-hatani, pesciolino. Un piccolo hatani. Un hatani non è le armi. Non è il coltello, il fucile. Un hatani non è queste cose. Adesso non hai bisogno di loro. Puoi prendere in mano il coltello e metterlo giù di nuovo. Un hatani non è il coltello. Capisci? Né la pelle o gli occhi o gli artigli. Capisci? Io t’insegno. Tu diventi hatani. Dentro.

Thorn sbatté velocemente gli occhi e spalancò la bocca per respirare. — Duun, dove mi hai preso?

— Dove pensi che ti abbia preso?

— Non lo so.

— Ma hai fiducia in me. Non buttarti su ogni boccone, pesciolino. Alcuni sono trappole. Non te l’ho insegnato? Usa il cervello. Addiziona solo quello che può essere addizionato. Ma ricorda lo stesso tutti i numeri. Non perderne mai uno; se lo perdi, ti verrà senza dubbio alle spalle per ucciderti. Non ci sono seconde possibilità nel mondo. Niente avviene due volte.

— Come fai a sapere tutto?

— Ricorda tutti i numeri. Anche quelli di molto tempo fa. Non lasciartene mai scappare uno; non sai quando potranno servirti. Non respingere niente; non sai cosa potrebbe esserti necessario. Questi sono i miei insegnamenti.

Dove mi hai preso?

— Ti ho tirato fuori dal fiume, pesciolino. Stavi affogando e ti ho salvato.

— È vero, Duun?

— Ti ho mentito. — Duun allungò una mano e sfiorò col dito la guancia di Thorn dov’era cresciuta una peluria chiara. Altri peli avevano cominciato a crescere sul corpo di Thorn: ma questi erano scuri. La speranza di Thorn e la sua disperazione. (È meglio che niente, piangeva Thorn, davanti allo specchio del bagno. Sono tutto a chiazze, Duun!) — Sai una cosa, credo che dovresti tagliarteli, pesciolino; hai ragione, crescono in maniera irregolare… meglio tagliare.

— Basta. Non distrarmi! Voglio una risposta, Duun!

— Ah. Hai scoperto i miei trucchi, vero?

— Voglio una risposta, Duun.

— Il pesciolino usa trucchi hatani.

— Voglio una risposta, Duun.

Duun strinse le labbra e appiattì le orecchie. — Fai la domanda usando le mani. Battimi e ti risponderò.

Thorn abbassò le spalle e chinò la testa. Era una sconfitta bella e buona. Poi alzò gli occhi, con uno sguardo penetrante, ansioso.

— Duun… Duun, dimmi la verità. Una sola verità. Sii onesto con me. Lo sai?

— Sì — disse Duun, e lo fissò negli occhi finché Thorn non voltò la testa.

Загрузка...