4

Io sono la fede quando

ogni tua speranza è volata via;

io sono la verità, quando

tutto ciò che conosci è bugia.

Io porto la scelta quando

la tua scelta è svanita;

io sono la promessa quando

ogni altra fede è fuggita.

Io sono la vendetta

ma ho un prezzo elevato;

io sono un guadagno quando

tutto ciò che vuoi se n’è andato.

Era una canzone hatani. La cantava Thorn accompagnandosi con la musica mentre Duun ascoltava come in sogno. C’era una dolcezza del tutto insospettata nella voce di Thorn, e una grande abilità nelle mani che si muovevano sulle corde. Forse era un’istintiva fierezza che faceva amare al ragazzo quella canzone; o forse l’innocenza di quel bambino delle colline che chiedeva cos’erano le cicatrici di un hatani, felice nella sua ignoranza. O forse, più semplicemente, a Thorn piaceva la canzone e la cantava bene.

Duun prese il dkin e strimpellò un nuovo ritmo, con la mano dalle due dita. Batté il ritmo sulla cassa dello strumento, e Thorn con istintiva abilità, riprese il ritmo sul piccolo tamburo.

La testa del giovane era piegata, con gli occhi che guardavano furtivamente da sotto una cascata di capelli scuri, e le labbra allargate in un glabro sorriso. Thorn aveva rinunciato a farsi crescere i peli sul viso. Si lasciava solo quelli sul corpo. Anche perché il rasoio bruciava. (Stai meglio, gli aveva detto Duun, dopo che Thorn si era rasato, ed era uscito in cerca di approvazione. E Thorn era sembrato profondamente sollevato.)

Vulnerabile. Oh, vulnerabile giovane Thorn.

Verde sotto il sole dell’estate,

bianca sotto la neve,

è tutta bella la mia terra,

e bella colei che conosco

i cui sentieri scendono

verso i miei nella sera.

Amore e donne e cose del mondo.

— Un hatani non ha parenti — disse Duun continuando a suonare. — Quando sarai hatani nel cuore, non mi avrai.

Il tamburo tacque. Ma non ci furono domande. Thorn si era tradito, e Duun non era andato oltre; Thorn tenne per sé quello che pensava. Col passare degli anni, essendo arrivato al punto in cui era arrivato, si era fatto molto più prudente. Duun seguitò a suonare, dolcemente. — Quando persi quasi tutta la mano, credetti di non potere più suonare. Invece ci riesco ancora. Ma persi altre cose. Non si acquista nessuna virtù da una perdita che non si conosce. Non ci sarà mai amore, Thorn. Mai. Conosci questa parola?… Prendi il ritmo.

Thorn lo prese, inclinando la testa fino a nascondere gli occhi.

— Ti dico una cosa — soggiunse Duun, al fievole ritmo delle corde che facevano da contrappunto al tamburo. — Rimane sempre qualcosa da perdere. Se pensi che non c’è più niente, sei uno sciocco, Thorn; c’è sempre qualcosa, finché non sei morto. E dopo… lo sanno gli dei. Sai quanti anni hai?

Thorn alzò gli occhi. Il ritmo si perse, riprese.

— Nella città lo sanno. Io lo so. I medici non vengono. Sono passati sei mesi dall’ultima volta. Sai perché, Thorn?

Un movimento della testa. No. C’era paura negli occhi del ragazzo.

— Bene — disse Duun — non vengono. Forse sanno cosa sei.

Il ritmo continuò, regolare come i battiti del cuore, e altrettanto doloroso.

— Cosa sono?

Duun lo guardò, con un’occhiata di sbieco. — Hatani. Come me. Auto-sufficiente.

Thorn si limitò a guardarlo, conoscendo i suoi trucchi. (Sporco Duun-hatani. Malvagio.)

— Hai una ferita, pesciolino. Sanguini nell’acqua. Lo sapevi?

Thorn strinse la mascella. I suoi occhi erano pieni di pensieri. — Non ho sentito il vento, Duun-hatani. Mi hai preso.

— …ancora.

— Medici.

Duun alzò lo sguardo.

— Hai parlato di medici, Duun, e di città. Cosa mi dici di queste cose?

— Oh. Il pesciolino vuole affrontare le acque fonde.

— Volevi dire qualcosa, Duun-hatani. Non dici mai niente che tu non voglia dire.

— Ancora più a fondo.

— Li hai chiamati. Vero?

— No. — La musica crebbe sotto le dita di Duun, poi mutò.

— Ti hanno chiamato loro.

— È stato Ellud.

— Perché?

— Per chiedermi come stavi. Gliel’ho detto: che tutto procedeva bene, che tu crescevi… sono stati contenti.

— Cos’è Ellud? Perché vuole sapere? Cosa vogliono i medici? Perché guardano sempre me e mai te?

— Ssss. C’è tempo. C’è ancora un po’ di tempo, no?

— Tempo per che cosa?

— Ssss. Sciocco. Cammina e respira insieme, non ci riesci?

Il ritmo riprese, cambiò, diventò un’altra cosa, forte e scattante.

— Mi sfidi? — Duun si lanciò in una questione più complessa.

Il ritmo lo seguì. — Tempo per che cosa? — chiese Thorn. Duun alzò le spalle.

— Per Sheon.

— La città? I medici? — gli occhi di Thorn si dilatarono. — Gli dei… ci vanno?

— Ti ho insegnato l’empietà? No. Ti ho insegnato a rispettare. Sei ancora un bambino. Che salto della mente. Ti ho forse detto di andare in città?

— Cosa vuoi dire… che c’è tempo?

— Questo. — E Duun s’abbandonò a un’altra melodia. — Un tempo pensavo che avresti potuto battermi, pesciolino. Pensavo che saresti venuto da me, nel sonno. Lealmente o slealmente, ti ho detto. Ci hai mai pensato?

— Ci ho pensato.

— Perché non l’hai fatto?

Esitò prima di rispondere. — Mi piace dormire, Duun-hatani.

— Ah.

Thorn gli rivolse un’occhiata guardinga. Duun sorrise, senza allegria. Così anche Thorn era diventato il bersaglio dello scherzo. Gli occhi del ragazzo, sbatterono, allarmati.

(Guarda il tuo sonno, pesciolino. Le regole sono cambiate.)

Thorn sorrise d’improvviso, cupamente, senza allegria, e complicò il battito del tamburo, introducendo cambiamenti irriverenti nelle canzoni hatani.

(Cos’è un hatani? Duun. Duun è Duun. Come il sole. Sei diventato Duun, pesciolino, e non chiedere mai cosa può essere Duun. Duun è gli alberi e la montagna, l’ambiente. Duun è la parola mantenuta. Canti la canzone. Ascolta le parole, Thorn, wei-na-mei, pesciolino nel mio ruscello.)


Thorn versò il tè, seduto a gambe incrociate sul rialzo nella stanza, davanti al fuoco. La mano gli tremava, e c’era un’ombra intorno al suo occhio, un livido dove nessuno l’aveva colpito. — Mangia — disse Duun, dall’altra parte. — Oggi devi scalare la montagna.

Forse Thorn pensò di protestare. Se così era, ci rinunciava. Ormai conosceva il gioco.

— Il filo nero — proseguì Dunn, sorseggiando il tè. — Attraverso la porta, ieri notte. È un vecchio trucco. Lo sapevi?

— No.

Duun sorrise e inghiottì un boccone. — Mangia mangia. Ti romperai il collo sulle rocce.

Thorn si riempì la bocca e ingoiò. Si era rasato e lavato. La notte prima si era svegliato con un coltello appoggiato al cuscino. — Sei morto — aveva sussurrato Duun, adagio adagio, la quinta notte in cui non dormiva.

Thorn si era alzato di scatto, aveva afferrato il polso di Duun e aveva perso anche quella battaglia, nel buio totale, nella confusione del sonno catturato per notti e notti a brandelli.

— Cerca di dormire oggi — disse Duun sorseggiando il tè. — Sarebbe una cosa saggia.

Thorn lo guardò con cupa costernazione.

Duun sorrise. — D’altro canto, forse è meglio di no. Vuoi dormire, pesciolino? Potresti farmi fuori adesso, faccia a faccia.

— No. C’è un sasso nella teiera, Duun-hatani.

Duun si fermò a metà della sorsata. Guardò la faccia smunta.

— Io non ho bevuto il tè — disse Thorn.

Dunn appoggiò la tazza sul rialzo, davanti alle gambe incrociate.

— Non farò la mia domanda — disse Thorn raucamente. — È stato sleale. Ti prenderò lealmente. Avvisandoti.

Duun fece un profondo respiro. Thorn era in tensione. Pronto ad affrontare un attacco. E Thorn tremava.

Per un lungo momento Duun non si mosse. Poi sollevò la mano sinistra adagio, in un gesto che voleva dire di non aspettarsi un attacco, e infilò le due dita della destra sotto la cintura.

Appoggiò il sasso sulla superficie liscia.

Thorn lo guardò. C’era solo quello. I suoi occhi si sollevarono stranamente limpidi.

— Te l’avrei dato prima che tu partissi — disse Duun. — Te l’avrei dato quando me l’avessi detto. Ma pesciolino, mi hai offerto demenza. Offrire questo a me…

— Mi dispiace, Duun.

— Quella del filo è stata un’idea intelligente. Cambiare le regole è stato ancora più intelligente. Poi l’orgoglio ti ha accecato, pesciolino, hai cambiato le regole. Capisci?

Ci fu un sussurro rauco. — Sì, Duun-hatani.

— Guardati da tutto, pesciolino. E non concedere mai clemenza a un hatani. La lealtà è un gioco per insegnare. La lealtà è un recinto che ho segnato. Avrei dovuto usare tutto ciò che conoscevo, scoraggiandoti? Adesso le barriere sono cadute, pesciolino. Cosa farai?

— Sarei uno sciocco se te lo dicessi, Duun-hatani.

Duun annuì adagio. Thorn prese la scodella per mangiare. Poi la rimise giù con un piccolo colpo del cucchiaio contro la scodella, e lo guardò.

— Sì — disse Duun. — È il caso che tu ti chieda cosa c’è nel cibo. Vero? Mangia, pesciolino. Ti concedo questa grazia. È sicuro.

Thorn si spostò indietro sul rialzo e tirò su le gambe. — Hai detto nessuna clemenza. Ti credo.

— E non quando ti ho detto che puoi mangiare?

— No. — Thorn si alzò in piedi e camminando sulla sabbia andò a prendere le sue armi sulla mensola e il mantello appeso vicino alla porta. Qui si fermò e si voltò a guardare.

Per un attimo. Poi uscì, di corsa. Duun sorseggiò il tè e appoggiò la tazza vicino al ginocchio. Thorn si aspettava un po’ di vantaggio. Queste cose le dava per scontate.

Duun si alzò, raccolse le sue armi e prese il mantello.

Nessuna clemenza, allora.


Thorn correva sapendo che non c’era tempo né per rammaricarsi dell’attacco né per qualsiasi rimpianto. C’era tempo soltanto per correre, e per la terra…

(“Vento e terra, wei-na-ya: vento e terra.”)

(“Non senti gli odori; ma a me fanno male le ginocchia quando piove…”)

Gira, gira e gira, i bisogni di uno sciocco guidano la sua intelligenza; l’intelligenza di un saggio guida i suoi bisogni.

(“Un hatani stabilisce quali sono i bisogni di un altro.”)

Sciocco, fare quello che un hatani ti dice di fare!

Thorn trattanne il respiro e balzò verso le rocce. Ormai i suoi piedi nudi si adattavano al terreno sassoso meglio degli artigli di Duun. E le sue mani nude si arrampicavano dove quelle di Duun non ce la facevano… Poteva così appendersi a un ramo che gli permetteva di prendere una scorciatoia attorno al fianco della collina, come pure scendere lungo una discesa dove i piedi e le gambe di Duun avrebbero ceduto.

Il vento. O sciocco, il vento ti soffia in faccia; Duun aveva controllato da che parte soffiava il vento, quella mattina. Non c’era alcun angolo dietro il quale Duun-hatani non vedesse, prima ancora che lui ci arrivasse…

Il sasso nel tè…

In alto o in basso? Fare quello che Duun diceva e sorprenderlo con l’obbedienza? O fare il contrario?

Corri, corri: era più veloce di Duun, ecco il suo unico vantaggio. Era cresciuto fra quelle colline, e anche Duun.

Thorn era più agile. Poteva arrampicarsi più in fretta di Duun, a piedi nudi…

… ma Duun lo sapeva.

Una scelta a caso, allora. Priva di logica. Si lanciò verso il basso.

Con il vento in faccia, il vento che portava il suo odore; e prima doveva girare attorno al fianco della montagna.

Duun era alle sue spalle. Non era il dolore ciò di cui Thorn aveva paura, anche se il dolore ci sarebbe stato. Era Duun, Duun stesso.


Il vento portava l’odore, e Duun lo respirò… sciocco, pensò Duun sul bordo delle rocce; ma due volte sciocco è il cacciatore troppo sicuro di sé. C’era la tentazione di vincere immediatamente, di correre il rischio.

Ma era un hatani quello a cui dava la caccia. Non più un pesciolino, ma un pesce nell’acqua scura.

Odorò il vento, e seppe la distanza e la direzione di Thorn; sapeva la diramazione del sentiero che dava accesso alla rupe e sapeva la strada che Thorn poteva prendere e lui no… conosceva ogni sentiero sulle colline.

Thorn sapeva che lui sapeva. Questo era l’enigma: quanto bene aveva addestrato il pesce.

E di che razza era, quali talenti e abilità innate possedeva… che intelligenza e che istinti?

Mani a cinque dita; una presa più sicura; un talento per arrampicarsi: questo aveva. Aveva la giovinezza: gambe forti che non sentivano dolore.

Sapeva (se usava il cervello) cosa doveva fare uno shonun menomato per compensare le proprie magagne.

Ed essendo hatani, avrebbe cercato di prevedere, di afferrare gli eventi e di volgerli a proprio favore.

Nell’aria rimaneva una scia di sudore e di paura anche dopo che il vento aveva portato via l’odore. Ma puzzava di qualcos’altro: di amaro e di acre.

Corri, corri: era la velocità il primo vantaggio di Thorn. E l’agilità. Duun era in vantaggio soltanto nel corpo a corpo. Ma sulla distanza, fra le rocce o nello scalare rapidamente un albero inclinato su un crepaccio, Thorn lo batteva senza problemi.

(Sciocco! Lui lo sa…)

(Ma gli costerà tempo.)

E Thorn aveva messo la montagna fra sé e Duun, per confondere l’odore.

Ma Duun sapeva sentire l’odore dov’era stata una mano, se ci appoggiava il naso. Così diceva Duun.

(Corri, pesciolino. Sto arrivando, pesciolino…)

E giù verso il basso: l’opposto di ciò che Duun gli avrebbe detto di fare. Doveva confondere le carte? Cosa c’era da fare che non aveva mai fatto?

(Dei, la pancia gli faceva male. Paura? La caccia? I salti da una roccia all’altra?)

(Qualcosa nel cibo?)


Duun mosse il supporto. Il tronco rotolò lungo il pendio sassoso. Era stato preparato in fretta ed era pieno di odori. Individuò anche la seconda trappola, il ramo curvato, e ritirò in tempo la mano.

Una doppia trappola.

(Bravo, pesce. Ben fatto. Ma non abbastanza.)

Thorn s’inginocchiò, appoggiando le mani a terra. Aveva raggiunto la strada e l’aveva attraversata lasciandoci le impronte; si fermò per mettere un sasso su un ramoscello, dove un piede avrebbe potuto appoggiarsi, nella fretta; poi si lanciò lungo il pendio, lasciando altre tracce e brandelli di pelle sulle rocce. Sbagliò ancora, dovette aiutarsi con le mani. La faccia gli si arrossò per la vergogna. Si rimise in piedi, dopo qualche passo si piegò su sé stesso, sudando, e resistendo alla tentazione di appoggiarsi a un albero.

(Non toccare nulla, non lasciare tracce…)

Duun gli avrebbe fatto male. Questo era niente. Era lo sguardo, l’espressione negli occhi grigi di Duun. Lo sguardo. Il disprezzo.

Thorn si piegò, prendendo fiato; e cominciò a far funzionare il cervello. Guardò in alto, la scarpata da cui era appena sceso.

(Prendimi adesso, faccia a faccia.)

(Le barriere sono cadute, pesciolino. Cosa farai?)

(Duun aveva dormito? Era riuscito a dormire più di lui, in quelle ultime notti nella casa?)

Forse Duun-hatani era rimasto sveglio ogni notte,… pensando che un pesciolino poteva coglierlo di sorpresa? Aspettandoselo?

Era tanto quanto lui, Duun?

(Prepara la colazione, pesciolino. Hai sentito?)

Trucchi hatani. Un hatani decide cosa farà il suo nemico.

Un sasso nel tè. (Prepara la colazione, pesciolino.)

E ciò che crede il suo nemico.

La rabbia s’impadronì di lui. Se ne liberò.

(Usa la rabbia; altrimenti non serve a nulla.)

(Serve la paura?)


Duun si arrestò, senza uscire allo scoperto. Sotto c’erano le cime degli alberi, nere e verdi. Oltre gli alberi c’era la grande pianura dove scorreva il fiume Oun.

E un pensiero gelido lo colse.

Profetico. Il suo cuore raddoppiò i battiti. Aveva scelto la parte del cacciatore. Era la parte abituale per lui; Thorn raramente si rivoltava, cercava solo di evitare i suoi attacchi, di difendersi… metteva delle trappole. Era saggio da parte di Thorn.

(Faccia a faccia con me. No, Thorn non ha voluto quando gli ho offerto di combattere.)

La tattica della fuga, costantemente. Sottrarsi al confronto.

(Trovami, Duun-hatani. Trovami se ci riesci. Trovami dove voglio io.)

In un posto diverso: un nuovo terreno.

Duun non osava correre. Questo era sempre il rischio dell’inseguitore. Le trappole di Thorn erano fatte senza molta convinzione, simboliche. Ma non c’era niente di simbolico in una scarpata. Thorn immaginava che lui fosse sufficientemente cauto.

E Thorn era più veloce. Più giovane. Aveva fiato.

Duun si rimise in marcia, rapido. La rabbia sorse dentro di lui, ma svanì all’istante.

(Ben fatto, pesciolino, se era questo il tuo piano. Non mi vergogno. Non di te.)

Duun vedeva il suo pericolo. Ed essendo stato educato come un hatani, forse il giovane pazzo sapeva cosa faceva.

Forse.


Thorn sentiva ancora male. I primi crampi l’avevano fatto piegare in due. (Oh dei, dei, dei, la pancia.) S’inginocchiò sulla riva di un torrente lungo cui non aveva mai cacciato e si bagnò la faccia. Livhl. Conosceva quell’erba. Ne conosceva altre, e masticò le foglie; un sapore orribile, ma gli interruppero le contrazioni dell’intestino. Aveva lasciato dei segni e fatto diversi errori, quando era stato assalito del dolore. Masticò le foglie amare che aveva trovato, le inghiottì e si bagnò la faccia con l’acqua gelida. Aveva le mani bianche, scosse dei brividi.

Pazzo a sfidare Duun. A offrirgli clemenza. Ad avere cambiato gioco. Niente era ormai sicuro. Balzò in piedi, e si mise a correre lungo il torrente…

… Un vecchio trucco. Un trucco antico, avrebbe detto Duun. Fai qualcosa di originale.

Non gli restavano più forze. Le ginocchia gli facevano male, a forza di lottare contro l’acqua e le rocce; le ossa gli dolevano per il freddo; le giunture gli cedevano nello sforzo di adattarsi alle pietre irregolari del torrente. Il gelo gli penetrò nelle ossa, e lo fece tremare.

(Può morire uno per avere ingoiato del livhl? Ma era livhl?)

Gli cedette una caviglia; si salvò da una caduta nell’acqua gelida e tornò a riva con le braccia e le gambe che si contraevano come sotto gli spasmi di una droga. (O Duun, sleale.)

Nessuna clemenza.

Nessuna.

Ancora verso il basso.


Il sole superò lo zenit. La droga aveva dato i suoi effetti. Duun sentì l’odore di livhl, anche se Thorn era stato attento, e aveva usato il torrente per nasconderlo. Era nel suo sudore, nelle cose che le sue mani avevano toccato. Aveva seguito il torrente… senza cercare minimamente di mascherare il punto di uscita. Se la mente di Thorn non fosse stata frastornata, lì ci poteva essere una trappola. Duun girò attorno al posto e trovò la pista senza difficoltà, anche se l’acqua aveva in parte attutito l’odore. (Ben pensato, pesciolino; i cespugli sono fitti, la possibilità di un’imboscata grande. Devo seguirti dove potresti tirarmi una pietra o farmi cadere in una trappola?)

(Dov’è il punto di rottura, Thorn? Il punto per uccidere? Il punto in cui ti volterai?)

(O cadrai prima? Quanto tempo ancora, Thorn?)

Duun accelerò il passo. La gamba lo tradiva e gli faceva male un fianco. (Vecchio, vecchio… ti hanno rimesso insieme; avresti dovuto lasciare che ti sostituissero il ginocchio, che ti facessero ricrescere la mano…) Adesso ti penti, troppo tardi.

Trovò un’altra strada. Volle indovinare quale strada avesse preso Thorn, e sbagliò.

(Ha imparato bene la lezione. È capace di leggermi nei pensieri? Fa le scelte a caso? Conoscenza o scelta di un pazzo?)

Quanti anni ha, per la sua razza? Non è ancora uomo. Non ancora cresciuto. Ma quasi.)

(Thorn-che-ho-portato. Haras. Thorn che ferisce le mani che lo portano e il piede che lo calpesta; che confonde i sentieri e produce germogli amari e frutti avvelenati.)


Le ombre si moltiplicavano nel sole calante. Thorn boccheggiò e mentre scendeva lungo la valle trattenne le mani dalla loro istintiva ricerca di un sostegno, ora un tronco, ora un masso. Sospirò per una pietra e andò nella sua direzione perché sentiva che le gambe gli vacillavano. Sospirò per la successiva e si diresse verso di essa. Queste piccole mete lo spingevano avanti.

(Spingiti oltre i confini, su sentieri sconosciuti a entrambi. Duun conosce le montagne troppo bene… troppo bene.)

(Vai dove Duun non ti farebbe andare… Fallo arrabbiare… la rabbia del mio nemico è mia amica, mia amica…)

Sentì odore di fumo. Era lontano, nella valle, ma si diresse verso di esso. (Che Duun si preoccupi, adesso. Che venga lui a cercarmi. Qui fra i contadini. Fra gli altri. L’altra gente.)

(Corri e corri. Fermati a prendere fiato. Giochiamoci la partita in luoghi estranei, fra gente estranea che non sa nulla del gioco.)

… Dev’esserci cibo, cibo da prendere con trucchi hatani. (“Sono pastori” aveva detto Duun. “Bovari. No, pesciolino, non sono hatani. Ci rispettano troppo per venire qui. Ecco tutto. Una volta vivevano qui.”)

(Dove ci sono case c’è cibo, rifugio; dovrà cercare, non potrà sapere se mentono, questi contadini, o mi nascondono… forse lo farebbero.)

C’era un sentiero, e un odore che perfino il suo naso riusciva a individuare: sterco vecchio e ammuffito, il passaggio frequente di animali.

Thorn lo seguì, di buon passo. Quell’odore nascondeva bene il suo. Per confondere il naso di Duun. Tracce per nascondere le sue tracce. Provasse pure a indovinare, Duun. Thorn corse più veloce, lungo il sentiero. C’era sapore di sangue nella sua bocca.

(“… Non danno mai fastidio” diceva Duun dei contadini. “Non vogliono essere infastiditi, e noi non scendiamo da loro.”)

(“Non potremmo vederli, Duun-hatani? Non potremmo andare a trovarli?”) Thorn si chiese se erano come i medici ed Ellud; se c’erano…

(… O dei, se ci fossero alcuni come me.)

In tutto il grande mondo di cui Duun parlava, doveva esserci qualcuno come lui.


Era come Duun aveva pensato. Pazzo! Si maledisse. Pazzo! Manovrare il nemico e non accorgersene… questa era la più grande follia del mondo. Cieco agli odori e con lo stomaco sconvolto dal livhl, Thorn era alla ricerca di un luogo dove nascondersi, un posto pieno di odori, di fumo, di tracce e confusione. Cercava rifugio nell’odore di shonun.

Thorn si dirigeva verso l’unico posto proibito. Aveva cambiato le regole e sconvolto il gioco, aggiungendoci degli estranei e innalzandolo a un livello superiore.

(Duun, cosa c’è di sbagliato in me?)

(Liscio, disse il bambino fregandosi lo stomaco).

Facce nello specchio.

(Duun, i miei orecchi cresceranno?)

Duun appiattì le orecchie e corse, rischiando tutto, anche la vergogna che un pesciolino potesse prenderlo in trappola.

Ma Thorn l’aveva già fatto.


C’era una casa… non grande come la loro, sulla montagna: più che altro una baracca, parte in metallo e parte in legno. C’erano inoltre dei recinti, costruiti tutti a.llo stesso modo, con pezzi eterogenei. Recinti… Thorn indovinò la parola. I recinti, diceva Duun, impedivano al bestiame dei contadini di sconfinare nei boschi; e il bestiame Thorn l’aveva visto dalla cima della montagna: puntini bianchi e marroni che si muovevano sulla pianura, nella foschia estiva. (“La carne della città viene da qui” aveva detto Duun. E Thorn: “Non possiamo andare a caccia di quelle bestie?” “Non c’è niente da cacciare” aveva detto Duun. “Sono domestici. Sono stupidi. Rimangono lì a farsi uccidere. Guardandoti. Si fidano degli shonunin.”)

(“E loro li uccidono, Duun?”)

Era il crepuscolo. Gli animali si stringevano nei loro recinti e delle luci ardevano vicino alla casa, su un alto palo. Thorn vide i cavi elettrici che andavano da una parte alla casa, dall’altro verso la pianura. (Allora la fonte di energia è lontana. Ci sono altre case nei paraggi?) Passò accanto a dei cespugli e si avvicinò fino ad avere una vista migliore della casa, del cortile polveroso e dei recinti. Lungo i bordi crescevano gli hiyi, senza fiori ma pieni di foglie in quella stagione. Sentì delle voci e una porta che si chiudeva. — Ti prendo — urlò qualcuno, con una risata nella voce. — Ti prendo, Mon!

Altre grida. Thorn si avvicinò, lungo la strada. Sotto le luci, davanti alla veranda, due piccole figure giocavano a rincorrersi.

— Entrate! — risuonò una voce attraverso la porta aperta. — È pronto da mangiare.

Erano bambini. S’inseguivano e gridavano…

Appartenevano alla razza di Duun. Il cuore di Thorn si fermò. Rimase lì sulla strada, immobile, guardando oltre il recinto; anche i bambini, che avevano immediatamente smesso di giocare, si misero a guardare. Loro da una parte e lui dell’altra.

Erano come Duun. Come lui, con il pelo più grigio e più chiaro. Con orecchie, faccia e occhi come quelli di Duun… con tutto quello che era di Duun.

Aiiii! - urlò uno. Anche l’altro gridò. Si abbracciarono e gridarono di nuovo… per spaventarlo, pensò Thorn. Lui rimase fermo, tremando, mentre apparivano altri della razza di Duun.

I bambini erano come Duun. I bambini non nascevano senza peli; lui non era un bambino cresciuto male, in maniera sbagliata…

…Era…

(Duun!)

Si ritrasse. Un uomo era corso fuori dalla casa. — Entrate! Dentro! — Thorn pensò che dicesse a lui, ed esitò. — Ili! Ili! Prendi il fucile!

(O dei! Fucili! Duun!)

Girò sui tacchi e si mise a correre. Sentì delle porte sbattere, gente che correva verso il recinto e delle voci alle sue spalle. — Dei, è lui! — gridò una, e altre la imitarono. — È quella cosa… quella cosa!

Era una trappola. L’aveva preparata Duun. Duun aveva messo trappole su tutti i sentieri, in tutto il mondo; non c’era via di scampo che Duun non avesse già previsto, e sulla quale non avesse messo una trappola.

(Ti ho preso, pesciolino, ti ho preso ancora una volta…)

Thorn lasciò la strada e s’infilò nel sottobosco sentendo alle sue spalle ululati di animali e urla… — La cosa sulla montagna! È lui, è venuto!

(O dei, Duun… dei…) Respirare gli procurava delle fitte al fianco. I rami lo graffiavano. Correva. Qualcosa dentro di lui si era spezzato e dolorosamente gli si gonfiava in gola…

Gli davano la caccia. Tutti. E non poteva invocare aiuto.

Nessuna clemenza.

Diverse foglie s’incendiarono vicino a lui. Un’arma a raggi. Sentì il gemito dei proiettili.

Alcune schegge gli scoppiarono in faccia. Alzò le mani, e andò a sbattere in un albero o in qualcosa del genere; il colpo gli paralizzò un braccio e lo fece girare su se stesso. Il terreno si alzò verso di lui. Sentì i rami trafiggergli la mano, e terra e foglie graffiargli il polso. Cercò di rimettersi in piedi. Aveva gli occhi che lacrimavano e il braccio paralizzato che gli penzolava a fianco. Sentì altri proiettili sibilare intorno a lui.

Eccolo!

Si ributtò a terra, si trascinò e si rimise sulle ginocchia consapevole dello shock. Una volta, quando era caduto dalle rocce, era rimasto così: intorpidito dalla testa ai piedi, spaventato e senza fiato. Si era allora alzato, aveva ricominciato a camminare e a correre, e solo dopo si era reso conto di dove fosse. Poi all’improvviso, aveva visto Duun che lo guardava, dall’alto delle rocce.

Abbandonando il gioco, Duun era sceso da lui; gli aveva preso la faccia nella mano mutilata e gli aveva stretto la mascella fra il pollice e l’indice.

— Mi senti pesciolino? Mi senti?

Duun!

Thorn cadde su un ginocchio, si rialzò. Appoggiò la schiena a un tronco. C’erano luci, ululati di animali e forme dietro le luci: gente che indirizzava i fasci di luce da una parte e dall’altra, fra i cespugli, sopra di lui.

— Prendetelo! Di là!

Thorn mise il tronco tra sé e gli inseguitori e si rimise a correre, con il braccio sinistro che dondolava come una cosa morta al suo fianco. (Mi hanno colpito. È stato un colpo che mi ha fatto cadere. Mi hanno sparato. Posso usare il mio coltello?) Corse e corse, scivolando lungo le scarpate, graffiandosi fra i rovi. (È vero? O è un gioco? Duun… Sei stato tu a organizzare questa partita? Devo uccidere? Duun, ho paura!)

Scivolò fino in fondo a una scarpata e si mise a correre lungo il torrente.

Un’ombra si alzò davanti a lui. Si gettò di fianco per evitarla. Ma era lì, odorava di shonun, e gli bloccava il braccio destro che aveva alzato per colpire. Una voce disse: — Thorn! — prima che una morsa con due dita lo prendesse per la gola e lo facesse cadere in una stretta soffocante. Thorn afferrò con una mano il braccio e cercò di atterrare il suo avversario. La nausea lo sconvolse dalla testa ai piedi. Incespicando fra le foglie fu tirato indietro da una stretta che gli torse il braccio ferito. — Scappa! — gli sibilò Duun in un’orecchia. — Thorn, Thorn… sono io! Scappa! Torna a casa!

La mano di Duun lo lasciò e gli diede una spinta brutale in mezzo alla schiena. Thorn corse. Corse e scivolò sulle foglie. Si rimise a correre.

Il fianco gli faceva male, era in fiamme. E anche il braccio gli doleva: ogni passo era una fitta.

(Torna a casa!)

(Devo crederti, Duun… devo fare quello che mi dici? È una trappola, Duun?)

Un colpo di fucile. Altri. Sentì l’eco rimbalzare sulle colline. Grida, voci, ululati di animali.

(Ma Duun è laggiù.) Thorn si arrestò barcollando. Andò a sbattere in un albero e ci si appoggiò con la schiena. Aveva la vista annebbiata. Il dolore adesso era come un grande battito, al di là del dolore; forse gli era arrivato al cuore. Sbatté le palpebre schiarendo la notte quanto poteva. C’erano delle luci. Altre voci si levarono… grida e ululati e ancora colpi di fucile.

(Duun!)

Thorn cominciò a correre in giù, tenendo il braccio fermo quanto poteva. I rami gli sbattevano in faccia e lui continuava a scostare la testa correndo alla cieca e usando l’inclinazione del terreno per distinguere il basso dall’alto. Alla fine si fece strada tra i cespugli con la destra, e lasciò che il braccio sinistro strisciasse fra i rovi in un immenso, freddo tremito. Sentì il proprio respiro, il petto che si spezzava. Non c’era più la notte, non c’era più il mondo: si era ristretto alle dimensioni del suo corpo, e gli unici suoni erano quelli del suo respiro e del suo cuore.

(Lo uccideranno come il bestiame! Duun!)

Un ramo si mise in mezzo al suo cammino, gli si avvolse attorno come vivo, lo tenne stretto. — Thorn! Maledizione… Pazzo!

Thorn rimase aggrappato al braccio di Duun. La stretta forte di Duun lo fece girare su se stesso, poi lo afferrò per tutte e due le braccia e lo scosse, gettandogli la testa indietro.

— Pazzo! Dove stavi andando?

Non poté rispondere. Il dolore gli venne addosso a ondate. Duun lo scosse ancora. Era Duun. Odorava di Duun. (Cieco agli odori. Pazzo cieco agli odori.)

— Ho dovuto ferire qualcuno — disse Duun. Era rabbia. Duun lo scosse. — Mi senti, pazzo! Ho dovuto ferire qualcuno per te.

— Penso… penso… — Sopravvenne lo shock: mandibola e mascella si chiusero e cominciarono a battere l’uria contro l’altra. Duun lo appoggiò a terra. (- Quante volte ti hanno preso? Dei, dei. Lo vedo… -) Lo fece stendere sul pendio della foresta e gli tastò il braccio, mentre lui perdeva e riacquistava conoscenza.

— Perché — chiese a Duun. — Perché l’hanno fatto? — Mentre i muscoli delle mascelle si contraevano spasmodicamente e il dolore andava e veniva. — Duun, dovevano farlo?

— Sta’ zitto — disse Duun. E gli fece male, forse di proposito o per caso. Thorn perse di nuovo conoscenza, per qualche secondo; quando rinvenne, Duun gli schiaffeggiava adagio la faccia. — Riesci a muovere le dita? Gli ho messo sopra la pellicola di gelatina. Muovi le dita. Mi senti?

Thorn provò. Gli sembrò che si muovessero. Strinse i denti con forza perché Duun se l’era issato su una spalla e l’aveva rimesso in piedi. Il mondo si rovesciò quando la spalla di Duun gli si appoggiò alla pancia e lo sollevò. Dolore. Il braccio dondolò. Ogni passo di Duun era una fitta di dolore. Il mondo diventò nero e rosso di bagliori luminosi che gli attraversavano le pupille, nel buio. I rami gli graffiavano la schiena. Non osava muoversi; temeva di sbilanciare Duun su per quel pendio. Ma il dolore, il dolore…

Buio. Duun lo mise giù, sulle ginocchia, tenendolo stretto a sé. Thorn sentiva il fiato di Duun sulla faccia.

— Devi camminare — disse Duun. — Mi senti? Mi senti, Thorn? Devi camminare adesso. — Duun gli mise un braccio sotto le ascelle e lo tirò su. — Cammina. Hai sentito?

Thorn aveva sentito. Ci provò. Sentì il respiro ansante di Duun e si appoggiò a lui cercando sostegno sulla pietra e sulla terra. — Arrampicati — aggiunse Duun. — Maledizione, arrampicati!

Alle loro spalle, nel bosco, si alzarono degli ululati. Insieme alle imprecazioni di Duun, quei versi ridiedero vigore a Thorn. Duun lo portò per un po’, poi lo gettò fra le foglie, con uno scossone che gli tolse il respiro e lo schiaffeggiò. — Respira, maledizione, respira.

Ci provò. Boccheggiò. E Duun si stese su di lui, ansimando. Le loro teste si urtavano e il dolore batteva all’unisono.

Un’altra salita. Duun l’aveva rimesso in piedi. Thorn non ricordava come. — La strada non è lontana — disse Duun. — Non si spingeranno oltre. Vieni.

Poi si trovò seduto, su una pietra piatta, ai margini della strada, dove Duun l’aveva fatto sedere. Duun lo teneva con una mano attorno alle spalle e l’altra contro il petto. Nel mondo erano tornati i colori. Era l’alba.

— Respira. Devi camminare ancora.

— Sì — disse. Non fece domande. Duun era Duun, fonte e forza. Come il sole e il vento. Rimase seduto ancora un momento, poi si alzò. Il cuore gli martellava e il corpo gli oscillava nell’altezza del mondo, con le cime degli alberi sottostanti che sussurravano come acqua nera.

Camminarono. Lui e Duun. La mano di Duun nella sua cintura; Duun gli tirò il braccio sano sul petto e lo tenne per il polso. Camminare sulla strada era più facile. I piedi di Thorn erano pieni di lacerazioni che le pietre tormentavano, a ogni passo. Aveva la bocca asciutta come polvere fine. Il vento era freddo sulla sua pelle nuda, e Duun era caldo.

Si fermarono di nuovo. — Siediti — disse Duun. — Siediti. — E lo tirò contro di sé, tenendolo per le braccia.

— Perché hanno sparato? — chiese Thorn. La risposta gli sfuggiva. — Perché, Duun?

— Li hai spaventati — disse Duun. — Credevano che gli volessi fare del male.

Spaventati. Spaventati. Thorn ricordò i bambini. Rabbrividì. Le braccia di Duun lo strinsero forte.

— Pazzo — disse Duun. Se lo meritava. Si vergognava.

Dormì. Aprì gli occhi e vide il soffitto della grande sala della casa, senza alcun ricordo di come c’era arrivato dalla strada. Sentì Duun che andava e veniva. (Attento quando dormi, pesciolino. Osava dormire?)

— Bevi — gli ordinò Duun, sollevandogli la testa e appoggiandogli una tazza alle labbra. Voltò la testa, non volendo essere due volte vittima. (Pazzo. Non impari mai?) — Bevi, accidenti a te, Thorn.

Lui sbatté le palpebre; era tutto indistinto. — Livhl…

— Maledizione, no. Ti dico di bere questa volta.

Bevve. Era tè dolce. Scese nel suo stomaco e rimase lì, inerte. Fu contento di avere la testa appoggiata sul cuscino prima che la bevanda gli potesse tornare su. — Ho perso — disse. — Mi hai battuto, Duun.

— Stai calmo. — La mano mutilata di Duun gli accarezzò i capelli. (Duun che lo stringeva, Duun che giocava, Duun che lo toccava in quella maniera, molto, molto tempo fa.) — I medici stanno arrivando. Li ho chiamati. Hai sentito?

— Non voglio i medici. — (Ellud in piedi nella stanza. Un vecchio amico, aveva detto Duun. Non essere maleducato.) — Duun, digli di non venire.

— Ssss. Stai calmo. — Di nuovo la mano gli accarezzò i capelli e la faccia. — Riposa. Dormi. Va tutto bene. Capito?

(Duun alla porta della camera da letto, di notte. Vai a dormire, pesciolino. Non c’erano fili neri sulla porta. Niente giochi. Vai a dormire, adesso, pesciolino.)

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