Pace. Una pace misteriosa, e un silenzio, in cui muoversi costava poco, e respirare ancora meno. Un leggero soffio d’aria sfiorò la faccia di Thorn e gli accarezzò la guancia.
Duun galleggiava sopra di lui, tenendosi follemente in equilibrio su un braccio che stringeva lo schienale. Thorn sbatté le palpebre, e Duun gli slacciò le cinture. Un piccolo movimento del braccio contro il sedile lo fece staccare dalla poltroncina.
— Siamo nello spazio — mormorò Thorn. — Siamo nello spazio.
— Dove il mondo gira, sì. Possiamo prendercela calma per un po’, pesciolino. Sei arrivato in un grande oceano. È facile muoversi, fluttuare di qua e di là. — Duun gli sorrise. (Riesce a sorridere dopo tutto questo? Può essere così felice? Potrebbe chiunque, dopo quello che è successo?)
Duun gli tirò delicatamente il polso. — Tieni il braccio rigido. Non occorre che ti attacchi. — Gli slacciò la tuta. Quella di Duun galleggiava nell’abitacolo, slacciata sul petto, ai polsi e alle caviglie. Duun lo liberò e cominciarono a roteare nell’aria, insieme.
Thorn fluttuava libero, con gli occhi chiusi, esausto.
Socchiuse le palpebre e osservò Duun andare e venire attraverso un portello che prima non aveva visto, sopra di loro. Nel suo lento roteare, Duun distinse una luce bianca, corpi di shonunin che si muovevano nell’aria, intenti alle loro faccende. Duun sparì oltre il portello, poi ne ridiscese come un elegante tuffatore. Le sue orecchie erano ritte; gli occhi vivaci e brillanti.
(È al corrente di tutto, ha già fatto questo viaggio più di una volta.)
— Dove stiamo andando, Duun.
— Zitto. Riposa. La gente ha da fare.
— Cosa è successo al mondo?
— È ancora al suo posto. I combattimenti si sono concentrati soprattutto attorno ai porti delle navette, ad Avenen e a Suunviden. Ma adesso stanno diminuendo… adesso che ce ne siamo andati, e non possono più farci nulla.
— Ma perché? E dove andiamo?
— Perché, perché… C’è una doccia a bordo. Adesso la uso. Poi ti metterò un po’ di plastica sulle mani, e ti terrò compagnia. — Duun scivolò via. Thorn si voltò a mezz’aria, e lo vide sparire al di là di un altro portello. Cercò di muoversi, roteò e finì contro il sedile, ricordandosi solo all’ultimo momento di non usare le mani; rimbalzò, e si ritrovò a galleggiare impotente.
Un aspiratore si mise in azione, nella doccia, e Thorn osservò le goccioline scorrere lungo le pareti, finché non sparirono. Si asciugò sotto la lampada, aprì con il gomito la maniglia, e uscì. Si voltò a mezz’aria, in una lenta rotazione, prima che Duun lo afferrasse e lo avvolgesse in un kilt blu, e gli allacciasse la cintura in vita con un tocco familiare; stringendola esattamente come faceva molti anni prima. Thorn guardò la faccia di Duun, da adulto adesso, e Duun finì con mollargli quella pacca sul fianco che gli dava quando lui era piccolo. Il tempo corse avanti e indietro, roteando come la cabina.
— Vieni — disse Duun, dando un calcio alla parete con gli armadietti e scivolando con grazia e precisione nella piccola apertura.
Anche Thorn si diede una spinta con i piedi. Piegò il corpo con quanta grazia poteva, e volò nella scia di Duun, verso una luce, nella mente e nel cuore del traghetto, dove gli uomini andavano e venivano.
Lo fissavano… (sono turbati; vogliono essere cortesi; non sanno se guardare o no, se guardare è un gesto sincero o maleducato.) Duun si fermò e Thorn imitò i suoi movimenti, ignorando gli sguardi. (Il mondo è in fiamme. Dovrebbero odiarmi. Non posso fargliene una colpa. Sono nato per questo.) Ma si sentiva stranamente libero, accogliendo tutto il loro biasimo, ignorando i loro sguardi sulla sua pelle pallida e liscia, e sopportando la stretta di Duun sul braccio che lo guidava verso la finestra.
Il mondo, azzurro e luminoso… era lì. I suoi fuochi erano invisibili. La lontananza negava tutto… i fuochi divennero un’ulteriore illusione dietro una finestra; la sua vita si ridusse a proporzioni invisibili, vissuta su una montagna e in una città che bruciando non riusciva neppure a colorare le nuvole.
Guardò e riguardò, e le lacrime gli riempirono gli occhi, finché non le mandò via sbattendo le palpebre. Si asciugò gli occhi, e una goccia si staccò dalla punta delle sue dita, perfetta, una sfera tremolante, come il mondo nello spazio.
— Lo ami? — chiese Duun. — Lo ami, pesciolino?
— Sì — disse Thorn, quando gli riuscì di dire qualcosa… Si asciugò di nuovo gli occhi. — È ancora lì.
— Finché tu non ci sei sopra — disse Duun, ed era la verità; l’aveva visto. Thorn sentì un dolore al petto. Allungò una mano, e toccò il finestrino e il mondo.
La nave lasciò il mondo, mentre si allacciavano le cinture di sicurezza. I motori li schiacciarono duramente e a lungo.
Thorn chiuse gli occhi. Non riesco a dormire, non riesco mai a dormire, si disse. Le forze lo abbandonarono, e il dolore gli ricordò chi era e cosa gli costava, costantemente, come i battiti del cuore. — Bevi — disse Duun allungandogli una cannuccia. Ma dopo il primo sorso, Thorn non voleva più saperne. — Bevi. — Ancora, con quella voce che l’aveva spinto tutta la vita, e non gli lasciava scelta. Thorn bevve, e si addormentò. Quando si svegliò, Duun gli dormiva accanto, con il fianco non ferito verso di lui; quel fianco che forniva l’illusione di come Duun era stato una volta.
Thorn chiuse gli occhi. (Sagot è viva? Manan e l’altro pilota sono vivi? La Corporazione… i missili l’hanno difesa?)
(Bambini in piedi sulla roccia, a Sheon, che guardano soli rossi sbocciati sull’orizzonte. Il fumo ricopre il cielo. Il tuono scuote la terra.)
(Nei corridoi di Dsonan la gente corre senza sapere dove andare.)
Il sole gira dietro la calotta e gli uomini, simili a grandi insetti, manovrano i comandi. L’aereo è sospeso nel cielo e il tempo si ferma. La guerra prosegue in un momento raggelato per sempre, tutta la guerra, tutto il tempo.
Sagot siede nella sua stanza, da sola. C’è un tuono dopo l’altro. Siede fragile e solenne in fondo a quella stanza, aspettando, di fronte alle scrivanie vuote.
Un traghetto vola nello spazio, e l’universo gli corre incontro portando il mondo lontano.
C’erano le cose del mondo. Dovevano esserci. In primo luogo le necessità corporali, e Thorn si prendeva ostinatamente cura di se stesso, dopo che Duun gli ebbe mostrato come funzionavano le cose lì dentro. C’era, per esempio, una specie di colazione, e Thorn scoprì che le mani gli facevano un po’ meno male. L’equipaggio passava attraverso il loro compartimento, spinto da analoghe necessità, dando vita a un certo viavai. C’era inoltre qualcosa di surreale nel loro fluttuare nell’aria, nei loro movimenti lenti, come in un sogno.
— Dove stiamo andando, Duun.
— A Gatog.
— È la stazione? — Thorn non aveva mai sentito chiamarla cosi.
— Una delle stazioni.
(Ne esiste più d’una?) Gli insegnamenti di Sagot manifestarono delle crepe, si frantumarono in dubbi. (Non c’è verità assoluta?)
— Abbiamo ricevuto un rapporto — disse Duun — secondo cui i ghotanin hanno mandato un messaggero da Tangan, offrendo di negoziare. La Corporazione kosan inizialmente ha rifiutato, ma dovrà ammorbidire la sua posizione.
— Fa parte della tua soluzione? — chiese Thorn. La sua mente aveva ricominciato a lavorare. Duun lo squadrò con un penetrante sguardo hatani, simile a quello che gli aveva appena rivolto Thorn.
— L’equilibrio è la mia soluzione — rispose Duun. — Non è mai stata mia intenzione distruggere i ghotanin.
— Ti chiamano sey Duun.
— È una formula di cortesia dei nostri giorni.
— Hai guidato i kosanin?
— Una volta.
Nient’altro. Duun non aveva intenzione di dire più di quanto voleva.
Ancora sonno, pasti, corpi, mentre la gelatina aveva cominciato a staccarglisi dalle mani. Cominciò a conoscere l’equipaggio: Ghindi, Spart, Mogannen, Weig. Mezzi nomi. Soprannomi. Ma bastavano. Duun li conosceva, e parlava con loro con voce tranquilla; talvolta parlava invece alla radio, con voci provenienti da un capo o dall’altro del loro viaggio.
Nessuna di queste cose riguardava Thorn. E tutte lo riguardavano. Ascoltò, con un’angoscia mortale, e non capì altro che nomi di città, quello di Gatog, e termini specialistici.
Intercettazione, sentì una volta, e il suo cuore sussultò. Guardò Duun, e continuò a guardarlo anche dopo che la conversazione radio era terminata.
— Pesciolino — gli disse Duun, volando verso di lui. E gli fece cenno di seguirlo.
Duun si diresse alla cabina dove dormivano e si fermò con un movimento elegante. Arrivando dietro a lui, Thorn allungò un piede e la mano mezza guarita, e si arrestò quasi altrettanto bene. — Ci sono dei ghotanin, qui? — chiese Thorn.
— Forse ci sono — rispose Duun. — Non è nostro compito combatterli.
— È un gioco? — chiese Thorn irritato. — Devo scoprire cosa faremo? Dove sono? È finita, Duun?
Duun lo guardò in maniera strana, con distacco. — È appena cominciata. Non è questa la domanda giusta, Haras-hatani. Nessuna di queste è la domanda giusta.
Thorn si calmò.
— Pensaci — disse Duun. — Dimmi quando lo saprai.
Il vuoto dentro cui correvano si ridusse a una dimensione familiare (“Ancora”, disse Duun, in piedi sopra di lui, sulla sabbia, “Ancora.”)
Thorn respirò profondamente e guardò Duun che scivolava attraverso il portello illuminato, come un grigio pesce di dimensione umana.
(Mi aspettava. Dov’ero? Dov’era la mia mente? Era commiserazione quella che provava per me.)
(Lui è di casa qui. È il suo elemento, come Sheon. La torre in città, e la sala della Corporazione non lo sono mai state.)
Thorn spinse coi piedi, stendendo il corpo come aveva fatto Duun, con la stessa grazia. Sbucò nella luce del compartimento superiore, trovò con sicurezza un appoggio, e rimbalzò fino al punto di ancoraggio che cercava, da dove poteva vedere Duun e gli altri.
Stavano ricevendo e mandando messaggi. Duun ascoltò e rispose, in quel gergo incomprensibile. — È normale — chiese Thorn quando ci fu una pausa — parlare in questo modo, o è perché abbiamo dei nemici?
— È questa la tua domanda? — chiese Duun.
— Te lo dirò quando vorrò farla. — Thorn si teneva aggrappato a un bancone, e sentiva le bruciature fargli ancora un po’ male. — Se questo è un oceano, questo pesciolino dovrà imparare a nuotare. Avrebbe dovuto imparare giorni fa.
Duun lo guardò, piegando indietro le orecchie in un’espressione che Thorn gli aveva visto migliaia di volte. — Ci sono nemici. Gli stessi che abbiamo incontrato sulla terra. Le compagnie che hanno miniere e fabbriche quassù, usano ghotanin come guardie. E alcune hanno navi. Non come il traghetto, che non è costruito per quello che stiamo facendo. Queste navi si stanno muovendo, alcune amiche, altre nemiche. Abbiamo bruciato tutto il carburante che avevamo per staccarci dal campo gravitazionale terrestre. Non era un lancio in programma. Abbiamo usato la navetta di riserva: ce n’è sempre una pronta al lancio. Le compagnie vogliono che vengano rispettati i tempi. E averla pronta senza che Shbit e i ghotanin potessero risalire a me… non è stato facile.
(Allora sapevi tutto in anticipo. Maledizione, Duun…)
Forse Duun sorrise. Sul fianco ferito della sua faccia questi movimenti mimici erano ambigui, e difficili da capire: forse era stata una smorfia. — Giusto ora — disse — siamo in rotta verso Gatog. Manca ancora un po’. Non possiamo fermarci, naturalmente. Ma questo non è un problema grave. C’è una nave mineraria che è già partita per trovarsi sulla nostra rotta fra qualche settimana: un semplice intervento di salvataggio. Se non succede niente. Ci stiamo nuovendo molto lentamente. I nostri nemici ci stanno inseguendo a una velocità dieci volte superiore. Non abbiamo armi. Le loro navi sì. Fortunatamente anche i nostri amici le hanno. È una faccenda molto delicata, pesciolino, di ora in ora. Una nave consuma carburante; così pure l’avversario. Ogni mossa cambia punto e tempo d’intercettazione. Noi siamo la sola unità fissa, perché non possiamo manovrare, non più di un pianeta o di una luna. Siamo alla deriva. E ora dopo ora, quelle navi bruciano un po’ del loro carburante, fanno i loro calcoli, scoprono quello che sta facendo il nemico, rifanno i calcoli, manovrano, ne bruciano ancora un po’. Sempre più veloci. Dipende da quanto gli equipaggi sono disposti a rischiare la morte, e dalla causa a cui si sono votati. Per il più vicino dei nostri amici, la terra è prossima al punto di non ritorno; le loro navi non sono state costruite per atterrare, e se consumano troppo carburante non possono fare i necessari cambiamenti vettoriali per tornare: il pozzo gravitazionale è come una discesa insidiosa, e una nave che consuma tutto quello che ha, rischia di finirci irrimediabilmente dentro. Per i nostri nemici, il punto di non ritorno è l’infinito… o qualche stella distante centinaia di anni luce. E qualcuno potrebbe eventualmente andarli a prendere. Non è necessario che siano tanto coraggiosi. O tanto cauti.
— Cosa faranno i nostri amici?
— Alcuni di loro sono hatani.
— Dunque faranno quello che devono fare. — La casa della Corporazione. La risata che non aveva più un suono crudele, ma innocente e coraggioso. (Allora non sapevano di correre un pericolo così imminente. Anche gli hatani non erano riusciti a leggerlo. Avevano visto il ghota; sapevano che era giunto il pericolo, ma non potevano conoscerlo per intero.) — Sono armati?
— Sì.
Thorn guardò quegli uomini che lavoravano incessantemente, che parlavano calmi alla radio e che qualche volta scherzavano fra loro o facevano cose bizzarre; come buttare un boccone di cibo a qualche compagno che lo afferrava al volo. — Sono uomini coraggiosi — disse Thorn, come se stesse ai piedi di una grande montagna. Era un sentimento di riverenza che gli dava una quiete interiore. Pensò a Manan e al secondo pilota, all’aereo che correva davanti alla tempesta poi scatenata dalla navetta. Pensò inoltre alla donna del portello, che li chiudeva dentro rimanendo in un mondo prossimo a frantumarsi.
E Sagot che gli diceva addio con un bacio.
E Tangan che accettava il tradimento di un vecchio allievo, e accoglieva con gentilezza un nuovo ragazzo.
Le lacrime gli riempirono gli occhi, se le asciugò e si accorse che Duun lo guardava. — Mi dispiace, Duun. Non so perché lo faccio.
— Non sai che io non posso? — chiese Duun.
Thorn lo fissò, con le lacrime che gli si asciugavano sulla faccia.
— Duun — disse Weig. E Duun andò a vedere cosa voleva Weig.
— Mancano venti ore — aggiunse Weig.
Si allenò a indossare la tuta. — Se siamo colpiti, almeno avremo qualche possibilità — disse Duun, aprendo l’armadio su un lato del ponte, dove erano allineate una dopo l’altra le tute, come embrioni in un grembo. Duun ne tirò fuori una e gliela mostrò, completamente slacciata. — Provala.
Thorn si tirò su il kilt e infilò i piedi e le braccia nella tuta. Duun gli mostrò come allacciarla, poi glielo fece rifare molte volte, fino a quando le mani non gli fecero male. Duun gli mostrò come lo zaino s’infilava nello schienale del sedile, e come un meccanismo automatico avrebbe abbassato il casco, portandolo a portata di mano. — Così non dovrai tenertelo addosso per ore — disse Duun, e gli mostrò le valvole dell’aria del circuito d’emergenza della navetta, e come staccarle e usare lo zaino. — Prima il casco, poi stacchi i tubi e hai aria a sufficienza nella tuta per arrivare allo zaino e metterlo in funzione. — Duun gli fece provare e riprovare tutto quanto, finché non fu esausto.
— Dormi un po’ — disse alla fine. — Ne avrai bisogno.
Thorn rimase esterrefatto vedendo Duun addormentarsi subito, ancorato alla sua cuccetta, nella loro cabina; e ancor più lo era che potessero farlo lì di sopra, con tutta l’attività e la luce. Ghindi e Spart si agganciarono in un angolo, vicino agli armadi, e si fecero un rapido sonnellino, mentre Weig e Mogannen si dedicavano ai calcoli. Thorn si agganciò vicino a Duun e cercò di dormire; riuscì alla fine a riposarsi; ma nel dormiveglia continuarono ad apparirgli davanti l’aereo, il volo e Betan.
Al risveglio si sganciò e salì sul ponte; trovò Ghindi e Spart al lavoro, e gli altri due addormentati. Il computer ticchettava. Thorn si avvicinò silenziosamente dall’alto, sospeso a testa in giù sul posto di Ghindi, un po’ indietro, in modo da poter vedere lo schermo.
Ghindi si girò sulla poltrona e alzò lo sguardo. Aveva l’espressione tipica di quelli che lo guardavano da vicino; poi venne sostituita da un’altra, che Thorn non riuscì a comprendere bene. Stanchezza. Tristezza. O era amore? Non aveva senso. Thorn girò su se stesso, e si arrestò con la mano. Forse sarebbe riuscito a decifrare meglio l’espressione della donna dal diritto.
— Scusa — disse Thorn, intendendo dire che temeva di disturbarla. Voleva tornare di sotto, prima che Duun lo scoprisse.
Lei lo guardò, stupita. Erano tutti e due stanchi, e un po’ confusi. Non riuscivano a capirsi molto bene. — Ti faremo arrivare — disse lei.
(A Gatog?) Thorn era impaurito. Lo mostrò, come un bambino. Nasconderlo, gli sarebbe sembrato disonesto verso Ghindi. — Sei kosan? — chiese. Si ricordava dei piloti.
— Tanun. — La Corporazione dei naviganti. Gli parve appropriata.
— Ghindi — disse Spart, dal computer. — La Kandurn ha acceso di nuovo i razzi.
Ghindi si voltò, come se Thorn fosse improvvisamente sparito dall’universo.
— Ci resta poco tempo, vero?
— Davvero poco. Credo che sia meglio svegliare Weig e Mogannen.
Thorn si voltò, trovò un appoggio per il piede e si spinse verso il portello, lo attraversò penetrando nella penombra, si girò nell’aria e si fermò contro una parete. — Duun. Stanno svegliando l’equipaggio. Pare che ci resti poco tempo.
Duun si mosse e lo guardò. — Quanto?
— Non lo so. So solo che è molto meno di quello che avevamo: erano quaranta minuti, e adesso hanno acceso di nuovo i razzi.
Duun si spinse, e schizzò come un nuotatore verso la luce. Thorn lo segui.
Mogannen e Weig si stavano infilando le tute. C’erano tre poltroncine di riserva; Duun preparò le due che erano destinate a loro quando erano sul ponte. — In caso la faccenda si metta male — disse. — Adesso mettiti la tuta.
Tutto con molta calma. Sul ponte le cose continuarono sempre: la solita routine; solo che adesso indossavano le tute. Spart e Ghindi cominciarono il loro turno. Duun galleggiava, con la tuta, senza casco. L’attesa divenne noia. Il cuore di Thorn, che prima batteva per il panico, non poté reggere a lungo. Il panico si trasformò in fastidio. Voleva bere. Se l’avesse fatto, se ne sarebbe pentito? Fra questi piccoli fastidi passavano i momenti peggiori. Pensieri di pruriti inaccessibili. Il sudore dentro la tuta, che si raccoglieva senza evaporare. Thorn era sospeso nell’aria, in un lento strisciare del tempo, con il ronzio dei messaggi in arrivo che volevano ucciderlo. Le navi avevano cominciato a spingersi troppo oltre. Voci calme riportavano i fatti, chiamandoli con nomi come ritorno-zero e non-virata.
(È strano, ma non si vedono molto le stelle. Si possono vedere dalla navetta, se si va davanti… È bellissimo.)
Una stella si accese, mentre Thorn guardava, divenendo sempre più luminosa. Il suo cuore batté all’impazzata. — Duun! Weig! — Poi la stella cominciò a trasformarsi in una sfera.
— Al tuo posto! — gridò Duun, e schizzò anche lui da quella parte. Thorn si tuffò, afferrò lo schienale di una poltroncina, e s’infilò dentro tenendosi al bracciolo, prese le cinture arrotolate e cominciò a legarle. Guardò davanti a loro, dove la stella era svanita. — Dov’è? — Non si erano girati, non potevano: la navetta non aveva più combustibile.
— Il casco — disse Duun. Thorn schiacciò il bottone sul bracciolo, prese il tubo dell’ossigeno e le spine del comunicatore e l’inserì, mentre il casco scendeva. Lo agganciò e selezionò il terzo canale radio. Il primo era unificato, il secondo soltanto per l’equipaggio, il terzo per i passeggeri: lui e Duun. Sentì il suo respiro, e quello di Duun, più calmo del suo.
(O dei, com’è possibile abituarsi a questo?)
Un’altra stella brillò. Nel silenzio. Solo il rumore del respiro, e quelli interni della navetta, attutiti dai caschi. Cambiò canale, sentì l’equipaggio parlare, e i messaggi in arrivo. Il sudore si raccoglieva sul suo corpo, e il braccio gli si stava intorpidendo. (“Queste maledette tute non sono mai della misura giusta”, aveva detto Duun.) Ma era meglio di quella per il volo. Meno stretta.
(Un’altra stella. Sono missili o sono navi? Sono navi che esplodono?)
I discorsi dell’equipaggio gli erano incomprensibili, pieni com’erano di parole in codice. Inserì il terzo canale. — Duun, cosa sta succedendo?
— Sono a portata reciproca. E alla nostra, con meno precisione. Gli hatani li hanno intercettati. Sono stati più abili nelle manovre. Basta che non gliene sfugga una. Se dovesse passare, non ci sarebbe una seconda possibilità, e noi non possiamo farci niente.
I lampi continuarono. Thorn chiuse gli occhi e li riaprì; avrebbe voluto togliersi il casco. L’aria era fredda, gli faceva male alla gola, al naso, agli occhi.
— Quella è la Ganngein - arrivò la voce di Weig, sul terzo canale. — Le hanno prese tutte. Incroceremo dei relitti, ecco tutto.
— Come va la Ganngein? — chiese Duun.
Una pausa.
— Ritorno-zero. Lo stesso per la Nonnet. La Ganngein ci augura buona fortuna e dice che si terrà in contatto. Stanno cercando di calcolare esattamente la rotta: sono stati deviati.
— Non possono mandare aiuti dalla stazione? — chiese Thorn. — Dalla terra?
— La stazione è in mano ai ghotanin — rispose Duun. — Sfortunatamente. Gli hatani erano troppo pochi. Ma ora non c’è più nessuna nave alla stazione…Gli hatani le hanno prese, grazie agli dei, altrimenti i ghotanin ci avrebbero sopraffatto. Erano navi ghota quelle che ci inseguivano. Alla stazione rimane una navetta e alcune sulla terra. Ma una navetta non può fermare la Ganngein. Non si tratta di rallentare una massa simile; non sarebbe possibile in ogni caso. Possono solo abbordarli. Ma non sono in grado di eguagliare la sua velocità.
(La voce di Sphitti: “Un’applicazione pratica. Se tu viaggiassi nel vuoto, senza frizione e senza gravità…”.)
(“Non è possibile.”)
(“Supponiamo che sia possibile.”)
(Angoli e linee su uno schermo, a scuola.)
Per lungo tempo l’equipaggio e le navi condannate parlarono, ma soltanto della navigazione.
— Ecco — Thorn sentì una voce. — Stiamo per cadere nel pozzo… ancora tre giorni, direi. Potrebbe essere peggio. Quattro.
— Vi sentiamo — disse Weig.
C’era del dolore nella sua voce. Thorn ascoltava, e fissava i punti luminosi. Aveva le braccia e le gambe intorpidite. Nessuno si mosse per levarsi la tuta. Incroceremo dei relitti. Se lo ricordava. Le altre due navi parlarono ancora. Niente di nuovo.
(È più terribile degli aerei. Il silenzio. L’inevitabilità di queste navi, che s’incontrano così veloci, su distanze che richiedono giorni. Con Betan è stato rapido. Questi uomini e queste donne avranno tempo di parlare e di mangiare, di dormire e di svegliarsi tre volte prima di precipitare a terra. Prima d’infilarsi nel pozzo, e di essere trascinati via.)
— … pensiamo — disse la Nonnent - di avere l’angolo per il passaggio. Non sappiamo ancora.
— Ci mancherà la vostra compagnia — disse la Ganngein.
Una lunga pausa. — Sì, abbiamo sentito. — Dalla Nonnent.
— Non sentitevi imbarazzati. Non è un viaggio che siamo ansiosi di fare.
Hatani. O tanun.
Ci fu un lungo silenzio. Poi apparve un buco nello spazio, dapprima piccolo, che crebbe, ingoiando le stelle. — C’è qualcosa là davanti, Duun. Vero?
— Polvere — disse Duun. — Particelle. Non useremo le luci. Dobbiamo conservare tutta l’energia di cui disponiamo. E in ogni modo non possiamo evitarli.
(Quanto tempo ci vorrà? E se trovassimo sul nostro cammino una nave quasi intatta?)
(Domande da sciocco, Thorn).
Il tempo passò, lentamente. Tutte le stelle erano sparite. Le navi parlavano, ogni tanto. Parlavano della nuvola.
Cominciarono delle interferenze. Le trasmissioni si interruppero. Un rumore penetrò nel casco, un colpo lontano. Un altro. Poi cominciarono a susseguirsi a un ritmo continuo, come se grandinasse. Infine cessarono.
— Siamo ancora dentro — disse Weig. — Sarà… uhh!
Il colpo risuonò attraverso le strutture della nave e arrivò al ponte. Thorn strinse le mani attorno ai braccioli, e dimenticò il dolore.
Per un po’, ci fu silenzio.
— Se n’è andato un pezzo dell’alettone sinistro — disse Mogannen. — Abbiamo acquisito una leggera rotazione. Non…
Un altro urto. Poi un altro. Silenzio. Infine dei colpi leggeri.
(Pezzi di ghotanin. O di una delle nostre navi. Voliamo in mezzo a navi morte. Corpi. O pezzi di corpi. Il sangue, là fuori, si gela come neve.)
Le stelle riapparvero. — Ehi! — gridò Weig. — Siamo passati!
(Per me. Per me e Duun, la morte sulla terra. La Ganngein e la Nonnent. Navi ghota e hatani.)
— C’è una nave laggiù — disse Spart; e il cuore di Thorn si fermò. — È la Deva. Ci raccoglierà. Fra circa nove ore.
— Grazie agli dei — disse Mogannen.
— Dobbiamo uscire — spiegò Duun. — Non possono fermare la nostra rotazione per raccoglierci. È più facile se usciamo con le tute.
La Deva accese un faro. Il traghetto roteava lentamente, un’ombra a forma di cuneo contro il sole. Dei frammenti si staccavano dall’alettone sinistro e dalla coda. Qualcuno gli toccò la gamba, e Duun lo tirò per una mano. Vicino a loro, altri tre formavano una catena. Uno era ancora staccato, ma non correva pericolo. Il raggio della Deva brillava fra le stelle, come un sole bianco e accecante.
La Deva non era rifinita come il traghetto: all’interno era tutta metallo nudo e plastica; ma c’erano shonunin dentro. Era dunque la benvenuta.
— Duun-hatani — disse il capitano.
— È un piacere vederti, Ivogi-tanun — rispose Duun.
Thorn teneva il casco fra le mani, e gli occhi di tutto l’equipaggio erano puntati su di lui; come se guardassero uno strano pesce tirato su con le reti.
— Questo è Haras — disse Duun. — Corporazione hatani.
— Abbiamo sentito — disse Ivogi-tanun.