— Buon giorno — disse Sagot.
Thorn attraversò la stanza fino a dove sedeva Sagot, come aveva fatto la prima volta che l’aveva vista.
Si sedette sul rialzo di fronte a lei, con i piedi penzoloni e le mani intrecciate in grembo. La faccia di Sagot era come quella di un’estranea, che nascondeva tutto dentro gli occhi: una maschera di vecchia, spolverata di bianco.
— Come stai, Thorn?
(Come se ricominciassimo da capo.) — Sto bene, Sagot. Duun dice che domani dovrò tornare là. Sarà lo stesso?
— Non posso parlarne, Thorn.
Lui rimase un momento in silenzio. — Voglio sapere, Sagot. Cosa stanno facendo?
— Non posso parlarne. Possiamo riprendere le nostre lezioni?
— Verrai con me domani? — (Ti prego, Sagot).
Un lungo silenzio. — Non credo che cambi molto. Non lasceranno che ti porti a casa; ti faranno restare là; pensano di averti svegliato troppo presto. Non gli ha fatto piacere che ti abbia portato via; eri in piedi, e parlavi in maniera ragionevole… — La bocca di Sagot assunse un’espressione ironica. — Ma con un hatani ubriaco non si discute. Domani sai cosa aspettarti, e non discuterai con i medici, d’accordo?
— Lo so. Ma preferirei che tu restassi.
— Thorn…
— Non parlarne con Duun. So che direbbe di no. Fallo e basta, Sagot. Non mi fido dei medici. Non mi sono mai piaciuti.
— Ci sarò. — Sagot lisciò la stoffa pesante del suo kilt, e appoggiò le mani sulle caviglie. — Parliamo del tempo… Nel senso dell’atmosfera. Dell’interazione degli oceani con le masse d’aria. Quando ero al polo nord, nell’87, ci sono arrivata in aereo, ma poi me ne tornai via con una nave da esplorazione; Uffu Non si chiamava. Chiedimi degli hothonin, qualche volta.
— Cosa sono gli hothonin?
— Dei pesci, grandi all’incirca come uno shonun. Si nutrono di uccelli. Proprio così. Sulla testa hanno un punto bianco che assomiglia a un piccolo pesce a fior d’acqua, quando nuotano appena sotto la superficie del mare; un uccello si tuffa per catturarlo, l’hothun fa un balzo… e snap, addio uccello. Vedi a cosa porta presumere? Comunque, partimmo dal porto di Eor, diretti in mare aperto…
— È ancora sano di mente — disse Duun. Ellud era di fronte a lui, con le mani sulle ginocchia e la confusione di sempre sulla scrivania. Duun sedeva al solito posto. — Non tiriamo troppo la corda, Ellud.
— Non sto tirando la corda — disse Ellud. — È il concilio che lo sta facendo. Betan è riemersa. È viva.
Duun lasciò che la sua faccia sì rilassasse, per la sorpresa. — Non è una buona notizia. Dov’è?
— È reclusa. In casa di Shbit, naturalmente. L’ho saputo da un consigliere, che ha parlato con un consigliere che a sua volta ha parlato con lei. Non metterci il naso, Duun. Per amore degli dei, non cercare di farlo, a questo punto. Va tutto come vogliamo noi, e Shbit non ha altro per le mani che un agente bruciato.
— Gli agenti dell’ufficio devono dormire nel letto di Shbit, se sono così sicuri di quello che non ha. Non mi piace la loro compiacenza. Diglielo.
— Stanne fuori, Duun. Per gli dei, se ti metti contro Shbit rischi di riportare l’intera faccenda sotto gli occhi dell’opinione pubblica, e già ci siamo stati abbastanza. Il concilio se ne sta tranquillo, adesso. I fondi arrivano regolarmente.
— So quando Shbit si muoverà. Shbit non lo sa ancora. — Duun decise di prendersi il tè e se ne versò una tazza. — Bisogna supporre che tenga prigioniera Betan; ma io preferisco non supporre niente. Che notizie da Gatog? Qualche particolare?
— Hanno risolto il problema. Si è scopèrto che era un guasto nel software. Si sono annullati a vicenda.
Duun aggrottò la fronte. — Lo immaginavo. Falso allarme. Maledizione, Ellud. Un altro errore del genere, e avremo i consiglieri addosso.
— Potrebbe essere peggio.
— Credimi: questo non lo dimentico mai. — Duun prese la tazza con le due dita della destra, e la fece girare con la sinistra, sentendo sotto i polpastrelli il disegno inciso sulla creta naturale: la costosa casualità dell’arte ubo, che era come Ellud; raffinata ma priva di un piano. I paradossi di quell’uomo lo rendevano perplesso da una vita. — Voglio vedere i rapporti su Shbit. Voglio sapere quando respira e quanto tempo tiene il fiato. Secondo per secondo. Dillo ai tuoi agenti.
— …nel 1582 il primo reattore entrò in funzione nella provincia di Toghot…
— … nel 1582 la Lega Dsonan fondò il concilio internazionale. La motivazione immediata era la siccità ciclica a Thogan, che quell’anno aveva creato grandi difficoltà per i diciassette milioni di abitanti della regione, che si stende da…
— … nel 1593 venne lanciato il primo satellite dalla costa di Dardimuur…
(Satellite?)
— … nel 1598 fu Botan, e non Gelad, il primo shonun ad andare nello spazio.
— Sagot. — Il cuore di Thorn batteva molto veloce. Alzò gli occhi dal monitor, e guardò la faccia vecchia e tranquilla vicino a lui. — Sagot, noi siamo nello spazio.
— Ero una bambina quando Nagin mise piede sulla luna. Ricordo che venne mio fratello maggiore, mi portò davanti alla televisione, dicendomi che quella era la luna e che lo shonun ci camminava sopra. Nagin, Ghotisin e Sar. Uscii al buio… era primavera, ed era una notte serena; guardai la luna cercando di vedere dov’erano. Naturalmente non potevo vederli. Guardai e riguardai, poi mio fratello mi venne vicino. “Un giorno o l’altro ci andrò anch’io” disse. E fu così. Volò fino a Dothog, e camminò su un altro mondo. Mi mandò una fotografia dove c’era lui, davanti a un mare di dune rosse. Non si capisce che è lui perché ha addosso una tuta ingombrante, e la visiera scura abbassata, ma io so che è lui. Ho ancora la foto.
(Macchine nel buio. Cose che ruotano.)
(“Il mondo è grande, pesciolino, più grande di quanto tu sappia.”)
— Posso vederla? Posso conoscere tuo fratello?
— È morto. È morto… quarant’anni fa. Ebbe un guasto alla tuta, nel deserto di Yuon, su Dothog. L’aria uscì. Ma ho la fotografia. Te la porterò.
— Mi dispiace, Sagot.
— Ragazzo, uno prova dolore, ma poi passa. Adesso, appena lo ricordo mio fratello. Non la sua fine, ma lui vivo. Hai presente il porto delle navette, appena fuori da Dsonan? Le avrai sentite le navi quando partono, e al momento dell’atterraggio… come un tuono, anche attraverso i muri…
— È quello il rumore che si sente? - (“Duun, cos’è?” “No lo so, nelle case si sentono tanti rumori. Pensa a quello che devi fare, pesciolino.”)
— … ogni cinque giorni circa. Portano i carichi fino alla stazione e riportano giù ciò che vi viene fabbricato, medicine e roba del genere. C’è ancora la base di Dothog, è una piccola città adesso, fatta di cupole e di tunnel. Tutti scienziati. All’incirca una volta all’anno ci si può andare, dalla stazione, però è terribilmente costoso; fa parte del genere di cose che solo i ricchi possono permettersi, e nello stesso tempo è un viaggio troppo duro per piacere alla maggior parte della gente ricca; ma ci sono lo stesso alcuni visitatori. Ci ho pensato: mi piacerebbe andare, ma ci vuole un anno per l’andata e altrettanto per il ritorno; e c’è sempre stato qualcosa che me l’ha impedito. Non so… — Sagot si guardò le mani, poi alzò gli occhi. — Credo, in fondo in fondo, di essere superstiziosa. Penso che mio fratello sia ancora là, che si arrampica sulle dune, spassandosela; ma se ci andassi per me sarebbe solo un posto. Vedrei la città cresciuta e i dannati turisti; uscirei nel deserto, e lui non ci sarebbe. Allora sarebbe morto per me, veramente morto… oh, dei. Scusami ragazzo, parlo come una vecchia. Mi volevi chiedere dello spazio.
— Ci sei stata?
— Sono stata sulla stazione. È un posto desolato, tutto tubi e tunnel…
(Tunnel. Tunnel metallici. Senza fine, che piegano verso l’alto, quando ci si cammina dentro…)
— … e ciascuna parte è uguale a tutte le altre. E, cosa strana, non si vedono molto le stelle. Le puoi vedere dalla navetta, se vai davanti. Ti lasciano. È bellissimo. Il mondo è bellissimo. Non l’hai visto in fotografia?
(Il globo scuro con il fuoco che viene su di esso, il posto roteante…)
— No, naturalmente no, non l’hai visto. Ho un bellissimo nastro per finestra. L’ho comprato alla stazione. È la terra vista dallo spazio. Credo che potrò trovartene una copia. Si può vedere il sole spuntare dietro la curva del mondo; i mari e le nuvole a spirale…
— Si sta risvegliando… si sta risvegliando. Aspetta a fargli l’iniezione. Sta rinvenendo.
— Quello l’ha scosso. È successo qualcosa.
— Zitti. Ci sente. Portiamolo fuori di qui.
— Ci senti, Thorn? Muovi la mano se ci senti.
— Aaaaaaaaiiiiii!
Era la sua voce. Era Thorn quello che gridava. Uscì combattendo dal buio, e il buio era attorno a lui, con le stelle che splendevano a vertiginosa distanza.
La luce brillò, bianca e terribile, Thorn si gettò giù dal letto, accecato, e colpì il muro con la schiena, prima di scorgere Duun sulla soglia, contro il buio del corridoio; Duun nudo, appena uscito dal letto, lì che lo guardava. — Tutto bene, Thorn?
Thorn si appoggiò alla superficie fredda del muro. Le sue membra cominciarono a tremare, per una reazione. — Mi dispiace, Duun.
Duun continuava a guardarlo. Aveva le orecchie appiattite. Thorn si staccò dal muro. Le finestre mostravano il sorgere del sole su una prateria. Duun aveva scombussolato il timer. Il condizionatore d’aria immetteva odore d’erba e di rugiada fresca. Thorn rabbrividì ancora, sentendone il soffio sulla pelle. Lembi di coperte sfioravano la sabbia là dove cominciavano le impronte della sua fuga.
— È stato un incubo — disse Thorn. — Ho sognato… — (Facce, suoni.) Ricominciò a tremare. — Facce come la mia, Duun… Non mi hanno fabbricato!
Duun non disse niente. Aveva quell’espressione da maschera che indicava come non avesse intenzione di dire niente.
— È così? — insistette Thorn.
— Chi dice che non abbiano fabbricato i nastri?
— Non farmi questo, Duun!
— Non hai un’aria assonnata. Vuoi una tazza di tè, qualcosa da mangiare?
Thorn si arrese. Duun era gentile. Duun lo stava distogliendo di nuovo dal problema. Thorn conosceva i suoi trucchi. Strappò dal letto le coperte piene di sabbia e le buttò sul pavimento. Il materasso aveva bisogno comunque di esser voltato e battuto, e le lenzuola di essere lavate. Duun era uscito, lasciando aperta la porta. Thorn aprì l’armadietto sul lato del rialzo e prese i vestiti indossati il giorno prima; doveva però ancora fare il bagno.
Duun era in cucina quando entrò. Stava appoggiando la teiera sul rialzo. — Sobasi?
— Va bene. — Il forno a microonde era acceso. Appena si spense, Thorn ne tirò fuori i piatti e li appoggiò sul tavolo. (Facce. Facce. La stazione. Navi che andavano e venivano. Punti e simboli. Chimica. Il valore del pi greco. Numeri.) Thorn si sedette lasciando dondolare le gambe incrociate. Duun fece lo stesso, e si versò il tè. — Ne bevo troppo — disse. — Non mi fa dormire.
— Anch’io. Duun, possiamo parlarne… una volta?
Le orecchie di Duun erano piatte.
— Per favore, accidenti!
Duun gli porse la teiera, con espressione mite. — Una domanda. L’ascolterò. Solo una, Haras-hatani. Non devi farla ora, se vuoi pensarci. I pensieri affrettati non sono mai giusti.
Thorn prese la teiera, ricompose il viso e versò il tè. (Lo odio. Lo odio. Non ha nervi in corpo.) — Te lo dico io quando ti faccio la domanda; non voglio che tu prenda la prima che mi capita di fare, e dica che è quella. Hai un’amante?
(L’ho beccato.) Le orecchie di Duun guizzarono; gli occhi si dilatarono e si contrassero, — Era questo l’incubo?
— No. Sono soltanto curioso.
— Nessuna adesso. Ho avuto per un po’ una compagna. L’ho mandata via. — Duun si riempì la bocca e inghiottì.
— Perché?
(Un altro colpo. Non avevo pensato a questo.) — Mi voleva sposare e io no.
— Quanti anni hai?
— Pesciolino, quando abbiamo cominciato c’era in ballo una domanda. Cosa c’entra l’età?
— Ieri te la sei presa con me perché sto sempre sulla difensiva; attacca qualche volta, hai detto. Si può fare anche fuori dalla palestra. Sto attaccando. Pensi di essere vecchio?
Duun sogghignò. — Fra poco ti spingerai troppo in là, Haras-hatani, e io porrò fine al gioco. Pensi che io sia vecchio?
— Qual è stata la tua soluzione per il governo?
— Farti hatani. È quello che ho fatto.
— Perché non volevi che imparassi com’è il mondo?
— Adesso l’hai imparato, no? — Duun alzò le spalle. (Dei, neanche un tremito.) — In effetti, abbiamo parlato troppo di Sheon e troppo poco del mondo. Quando siamo venuti qui, con due anni d’anticipo rispetto ai miei piani, dovresti ricordare — (contrattacco e affondo) — tu eri piuttosto scosso, e sapevi anche troppo di essere diverso. — (Colpito ancora. Dei, non ha pietà!) — Cosa devo fare? Buttarti addosso il mondo in un solo giorno? Ascolta, pesciolino, avevo un problema da risolvere: allevare un ragazzo senza televisione, senza fotografie delle città e senza alcun indizio di come fosse la vita fuori da Sheon, perché qualsiasi immagine ti avrebbe mostrato che tutta la gente è come me, e nessuno come te. Dovevo educarti senza educarti, non so se mi spiego, perché non volevo che soffrissi per la tua differenza. Volevo darti un’infanzia, e ti ho dato la migliore che conoscevo: ti ho dato la mia.
(Sta lavorando su di me. Dice la verità. Qual era l’esperimento? Non hanno ancora finito.) Thorn sentì il sudore raccogliersi fra le pieghe dietro il ginocchio e sotto le ascelle.
— Devi ammettere — disse Duun — che negli ultimi due anni ti sono state versate nella testa un sacco di cose, un sacco di fatti. Sei andato dal passato al presente. Ti dico una cosa: quando ho cominciato non sapevo quale poteva essere la tua capacità intellettuale, se era normale, oppure no. Non sapevo se avrei potuto fare quello che avevo in mente. Dovevo saperlo prima di permettere a qualcun altro di mettere le mani su di te… Se potevi essere hatani. Ricordati della figlia di Ehonin.
— Perché è importante che io sia hatani?
— È questa la tua domanda?
— Ti ho detto che ti avrei avvisato quando fosse stata la mia domanda.
— Bene, risponderò a questo un giorno o l’altro.
— Questa è la mia domanda: perché le cose che mi fanno vedere hanno la stazione, e la stazione è piena di gente come me?
— Sono due domande.
— È una sola. Un hatani dovrebbe vederne l’unità.
— Bene, la considererò una sola. La stazione è piena di gente normale, e io ti ho detto la verità: sei unico. Probabilmente i test ti fanno sognare in una strana maniera: ci sono delle implicazioni psicologiche che senz’altro interessano i medici.
— L’esperimento continua, vero? — (Dei, mi ha distorto un’altra volta. Tutto. Tutto è un’illusione, come le finestre.) — Non è così, Duun?
— Questa è un’altra domanda. Ti ho detto che non volevo parlarne qui dentro; pensavo che ti avrebbe fatto piacere avere un posto dove la gente non ti fa a pezzi il cervello, e gioca con quello che conosci.
— Dei, dimmi dov’è questo posto!
Duun sorrise, o forse era la cicatrice. — Mangia. Mi hai svegliato. Tanto vale che ti mangi la colazione che ho preparato.
— È una lingua, Sagot. Perché non me lo dicono e basta?
— Taci. Non posso parlarne.
— Cosa mi stanno facendo?
— Thorn, non posso discuterne in nessun modo. Per favore.
— Mi sento male quando esco di là. Mi sento come se mi avessero rivoltato dentro. Vedo cose nel sonno. Ho fatto cambiare le finestre. Prima c’erano le stelle. Mi svegliavo e non sapevo dov’ero, e mi sembrava di cadere, come a volte accade nei sogni, ma molto peggio. Adesso ci sono boschi, e qualche volta i boschi di Sheon con la pioggia. Non posso dormire senza. Vorrei che cambiassero quell’orribile deserto nel laboratorio.
— Vorrebbe essere distensivo.
— C’è troppo cielo. È morto. Mi sogno di un posto come quello, e non mi piace.
— Gli chiederò di cambiarlo. Sono sicura che lo faranno. Cercano davvero di essere gentili con te, lo sai.
— Mi odiano.
— Ragazzo, sono dei professionisti. Devono essere freddi. Le loro menti sono concentrate su quello che devono fare, e sono come tutti i professionisti: trattano la gente come se schiacciassero dei bottoni, e si aspettano che le cose funzionino nella maniera giusta. Si dimenticano che c’è una persona attaccata a quella gamba e a quel braccio, perché nella loro mente la vedono a un livello differente, per esempio come vene e nervi. A quel livello, il tuo corpo è solo una mappa con dei sentieri; e loro li seguono senza pensare che da qualche parte di quel sistema c’è un cranio con un cervello dentro e un giovane molto ansioso che vive lì dentro e osserva e ascolta quello che si dicono tra loro.
(Sagot, stai distraendo la mia attenzione. Conosco il trucco. Sono un ragazzo tra due adulti esperti, che mi tengono costantemente in sospeso. Mi stanco di combattere contro la bufera. Voglio solo lasciarmi andare e finirla, qualche volta.)
— Sto pensando di uccidermi.
Panico. Sagot lo guardò turbata. Thorn fece una smorfia, sentendo un dolore dentro.
— Stavo scherzando. Sei molto brava a cambiare argomento. Ho pensato di farlo anch’io.
— Non scherzare su una cosa del genere, ragazzo. Ho avuto un marito che l’ha fatto. Penso che non ci sia niente di divertente.
— Non parlarmi dei tuoi mariti! Ci stai provando un’altra volta. Non ti ascolterò! — Scese di scatto dal rialzo e uscì dalla stanza. Sagot rimase immobile, in silenzio. Thorn arrivò fino alla porta d’ingresso, nella stanza con il vaso e i ramoscelli: la porta era chiusa. Schiacciò il pulsante. Batté i pugni sulla porta. — Aprite! Voglio uscire!
Non c’era possibilità di fuga. Alla fine dovette tornare indietro (come Sagot si aspettava). Ma si sedette sul rialzo più lontano, accavallò le gambe e si studiò le vene delle mani e delle caviglie, che erano gonfie per l’ira. Mappe. Sentieri. Il marito di Sagot probabilmente si era suicidato davvero, non se lo stava inventando. Se ne stava seduta di fronte a quel ragazzo maleducato, ingrato e scontroso; che l’aveva colpita in maniera hatani. Aveva colpito Cloen. Aveva colpito Sagot. Entrambe le volte aveva pervertito ciò che gli era stato insegnato.
Alla fine si alzò e andò a sedersi di fronte a Sagot. — Puoi sgridarmi, Sagot. Per favore.
— Non ne ho bisogno.
(Colpito. Abile e mortale come il sarcasmo di Duun quando era arrabbiato.) Thorn sentì una stretta allo stomaco. — Perdonami, Sagot Sagot, non odiarmi.
— Cattivo. E astuto. Si vede che sei uscito dalle mani di Duun. Torniamo ai medici, allora?
— Non dirmi che non mi odiano. So leggere i gesti; so leggere gli occhi, Sagot. Mi odiano e hanno paura di me, e sono stati loro a farmi quello che sono. È ragionevole?
— Forse è dell’hatani che hanno paura. Ci hai pensato? Alla gente non piace essere letta. Un hatani chiede ospitalità; tu gli dai cibo e un posto per dormire, e cominci a pensare a ogni mossa che fai, perché sai che lui ti legge dentro, costantemente, attraverso ogni più piccolo gesto. Ci vorrebbe una persona molto stupida, o molto innocente, per essere sereni sotto lo stesso tetto con un hatani.
— Un hatani non giudica se non gli viene chiesto. Qualche volta neppure allora. Perché dovrebbero preoccuparsi?
— Senso di colpa. Ognuno è colpevole di qualcosa. Un hatani ti fa sapere di cosa sei colpevole.
— Anche gli hatani sono colpevoli, Sagot.
— Ma lo nascondono. Sanno come non farsi leggere dentro, vero? Se vogliono veramente. Qualche volta non vogliono. — Sagot si alzò, venne a sedersi vicino a lui e gli mise un braccio attorno alle spalle. — Qualche volta non vogliono, vero? Avanti, appoggiati a me, non lo dirò a nessuno.
— Parlami dei test, Sagot.
— Cattivo. — Con la mano gli premeva la spalla vicino al collo, e questo lo rendeva nervoso. Si mosse, e lei spostò la mano sulla schiena. — Hai proprio una mente hatani. Stai crescendo.
— Sento delle parole, Sagot; suoni nella testa, e parole nei suoni.
— Cosa dicono queste parole?
— Mi salutano, vogliono qualcosa, non so cosa; parlano del sole e della terra, della matematica, della chimica, dell’ossigeno, del carbonio, più e più volte, e parlano di cose senza importanza e degli elementi, delle reazioni dentro il sole, del ciclo di vita delle stelle…
I muscoli delle braccia di Sagot si erano tesi. Thorn si voltò a guardarla da vicino e vide i suoi occhi dilatarsi e contrarsi. — Ti ho spaventato? — chiese Thorn.
— Continua a parlare.
— Non dovrei parlarti di queste cose. Me lo dici sempre.
— Di questo puoi parlare. Vai avanti.
— Non c’è altro. Non riesco a ricordare altro. Vedo questo posto deserto, e un posto come una stazione spaziale. Vedo la terra nello spazio, con il sole che sorge, e facce… facce come la mia; la stazione spaziale ne è piena: persone come me che vanno e vengono, parlano… qualche volta sono arrabbiati, e riesco a leggere dentro di loro, anche se non so cosa dicono. C’è una donna che vuole qualcosa… Duun dice che me la immagino, ma non immaginerei mai una cosa così. Ha la bocca tutta rossa, i capelli lunghi, e gli occhi sono dipinti attorno ai bordi; vuole assolutamente qualcosa ed è arrabbiata con un uomo. Lui è spiacente, e loro continuano a incontrarsi in uno di quei posti dove la gente mangia, e hanno vestiti, vestiti per gente senza pelliccia. E lei ha una forma come… — Disegnò con le mani nell’aria la pienezza del suo petto. (Bianco, tutto bianco, e grande, strano.) — E poi, c’è di nuovo un sacco di gente che va e viene. Lei esce con un altro uomo, e vanno nella camera da letto di lui e si amano. Ma non è amore: lui non le piace nemmeno, e lui è arrabbiato per questo, e forse anche per qualcos’altro. Poi lei se ne va e ritrova il primo uomo, ma lui sta per andarsene da qualche parte e non vuole parlarle. Lei piange. Lui se ne va. Lei va nel posto dove la gente mangia, ed è molto infelice. Poi lui entra e va a sedersi vicino a lei, ma non ci sono dei mobili normali: hanno tutti le gambe. Lei fa finta di non essere felice di vederlo e continua a mangiare. Lui sa che fa finta, e dice qualcosa, e si guardano e dicono qualcosa a proposito di andare da qualche parte. Poi finisce e non so dove sono andati.
Sagot gli prese il viso fra le mani e Thorn era così perso che la lasciò fare. Dopo un po’ avvicinò la faccia a quella dell’allievo e gli lavò gli occhi con la lingua; questo, anche se Sagot era vecchia, lo fece sentire strano e amato.
— È quello che dovrei vedere?
Lei lo lasciò andare. — Vai a casa. Chiamo Ogot.
— Cosa dovrei vedere. È finita?
— Non lo so. Vai a casa.