Horton si accosciò davanti al fuoco, per sorvegliare il pezzo di carne che arrostiva sui carboni. Carnivoro sedeva di fronte a lui, e dilaniava con i denti il pezzo crudo che stringeva fra i tentacoli. Il sangue gli macchiava il muso, gli scorreva dalle mascelle.
«Non ti dispiace?» chiese. «Il mio stomaco invoca prepotentemente di essere riempito.»
«Fai pure,» disse Horton. «La mia parte sarà pronta fra un minuto.»
Il sole del tardo pomeriggio gli scaldava la schiena. Il calore del fuoco gli investiva il volto. Si accorse di provare una sorta di esultanza. Il fuoco era di fronte all’edificio niveo, e il teschio di Shakespeare pareva guardarli sogghignando. Nel silenzio si udiva il ciangottio del ruscello che scendeva dalla sorgente.
«Quando abbiamo finito,» disse Carnivoro, «ti mostro la roba dello Shakespeare. Ho messo tutto in ordine nei sacchi. Ti interessa?»
«Sì, certo,» disse Horton.
«Sotto molti aspetti,» disse Carnivoro, «lo Shakespeare era un umano esasperante, sebbene io gli voglio bene. In verità non ho mai saputo se gli ero simpatico o no, ma credo di sì. Andavamo d’accordo. Lavoriamo molto bene insieme. Parliamo molto. Ci diciamo tante cose. Ma non riesco mai a cancellare l’impressione che mi prendeva in giro, anche se non capisco perché lo faceva. Mi trovi buffo, Horton?»
«No, affatto,» rispose Horton. «Devi averlo immaginato.»
«Vuoi dirmi cosa significa maledetto? Lo Shakespeare lo diceva spesso e io prendo l’abitudine da lui. Ma non ho mai saputo cosa significa. Lo chiedo a lui e lui non voleva dirlo. E ride di me, segretamente.»
«Non ha un vero significato. Normalmente, voglio dire. Lo si usa per enfasi, senza una vera intenzione. È solo un modo di dire. Molti non lo usano, d’abitudine. Solo certuni lo fanno. Altri l’usano di rado, e solo in caso di provocazione emotiva.»
«Allora non significa niente. Solo un modo di dire.»
«Infatti,» disse Horton.
«Quando io parlo di magia, lui la chiama maledetta sciocchezza. Allora non vuol dire sciocchezza particolare.»
«No, voleva dire sciocchezza e basta.»
«Tu pensi che la magia sia una sciocchezza?»
«Non saprei dirtelo. Il fatto è che non ci ho mai pensato molto. Forse, la magia usata con leggerezza potrebbe essere una sciocchezza. Forse la magia è qualcosa che nessuno capisce. Tu hai fede nella magia? La pratichi?»
«La mia gente ha grande magia, nel corso degli anni. Qualche volta funziona, qualche volta no. Io dico allo Shakespeare, mettiamo insieme la nostra magia, forse servirà ad aprire il tunnel, e allora Shakespeare dice che la magia è una maledetta sciocchezza. Diceva che lui non ne aveva. Diceva che la magia non esiste.»
«Sospetto,» disse Horton, «che parlasse così per pregiudizio. Non si può condannare qualcosa di cui non si sa niente.»
«Sì,» disse Carnivoro. «Lo Shakespeare farebbe una cosa simile. Però credo che mi mentiva. Credo che usava una sua magia. Aveva una cosa che chiamava libro, diceva che era il libro di Shakespeare. Il libro poteva parlargli. Che cos’è, se non magia?»
«Noi lo chiamiamo leggere,» disse Horton.
«Lui teneva il libro, e il libro gli parlava. Poi lui parlava al libro. Gli fa su piccoli segni con un bastoncino speciale. Io gli domando cosa fa e lui grugnisce. Mi grugniva sempre dietro. Voleva dire di lasciarlo in pace, di non seccarlo.»
«L’hai tu il suo libro?»
«Te lo mostro dopo.»
La bistecca era cotta, e Horton si mise a mangiarla.
«È buona,» disse. «Che animale era?»
«Non troppo grosso,» disse Carnivoro. «Non difficile da uccidere. Non cerca di lottare. Scappa e basta. Ma gustoso. Molti animali da carne, ma questo è il più saporito di tutti.»
Nicodemus salì pesantemente dal sentiero, stringendo la cassetta degli utensili. Sedette accanto a Horton.
«Prima che me lo domandiate,» disse, «non l’ho riparato.»
«Ma fatto progressi?» chiese Carnivoro.
«Non lo so,» disse Nicodemus. «Credo di sapere come potrei staccare il campo di forza, anche se non ne sono sicuro. Vale la pena di tentare. Ho cercato soprattutto di capire cosa c’è dietro il campo di forza. Ho fatto una quantità di disegni, ho provato alcuni diagrammi per cercare di capire di cosa si tratta. Ho qualche idea, ma non servirà a niente se non riesco a eliminare lo schermo di forza. E naturalmente, posso avere sbagliato tutto.»
«Non scoraggiato, però?»
«No, continuerò a tentare.»
«Così va bene,» disse Carnivoro.
Trangugiò l’ultimo boccone del suo pezzo di carne sanguinolento.
«Vado giù alla fonte,» disse, «e mi lavo la faccia. Mi sporco tutto quando mangio. Vuoi che ti aspetti?»
«No,» disse Horton. «Io andrò giù dopo. Ho mangiato solo metà bistecca.»
«Vi prego di scusarmi,» disse Carnivoro, alzandosi. Gli altri due lo seguirono con lo sguardo, mentre scendeva il sentiero a grandi passi.
«Com’è andata?» chiese Nicodemus.
Horton si strinse nelle spalle. «C’è un villaggio abbandonato, poco più ad est di qui. Costruzioni di pietra, soffocate dagli arbusti. A giudicare dall’aspetto, nessuno è stato lì da secoli. Non c’è niente che indichi perché fossero qui, o perché se ne andarono. Carnivoro dice che secondo Shakespeare poteva essere una colonia penale. Se è così, era un bellissimo sistema. Con il tunnel inattivo, non c’era bisogno di preoccuparsi di eventuali evasioni.»
«Carnivoro sa di che specie si trattava?»
«Non lo sa. E credo che non gli interessi. Non ha una vera curiosità. A lui interessa solo il presente. E poi, ne ha paura. Sembra che il passato lo terrorizzi. Io credo che fossero umanoidi… non necessariamente del tipo che possiamo immaginare. Sono entrato in uno degli edifici e ho trovato una sorta di bottiglia. In un primo momento ho pensato che fosse un vaso, ma credo sia una bottiglia.»
Allungò una mano e porse la bottiglia a Nicodemus. Il robot la rigirò tra le mani.
«Molto rozza,» disse. «Le figure possono essere solo molto approssimative. È difficile dire cosa rappresentino. Certi segni sembrano scritte.»
Horton annuì. «Verissimo, ma significa che avevano un’idea dell’arte. Potrebbe indicare una cultura in cammino.»
«Non è un’arte abbastanza evoluta,» disse Nicodemus, «per spiegare la tecnologia sofisticata dei tunnel.»
«Non intendevo sottintendere che fu questo popolo a costruire i tunnel.»
«Carnivoro ha parlato ancora di voler venire con noi, quando partiremo?»
«No. A quanto pare, è sicuro che tu possa riparare il tunnel.»
«Forse sarà meglio non dirglielo, ma non ci riesco. Non ho mai visto un pasticcio come quel quadro dei comandi.»
Carnivoro stava risalendo il sentiero.
«Tutto pulito, adesso,» disse. «Vedo che hai finito. Ti è piaciuta la carne?»
«Era ottima,» disse Horton.
«Domani avremo carne fresca.»
«Seppelliremo noi gli avanzi, mentre tu andrai a caccia,» disse Horton.
«Non c’è bisogno di seppellirla. Buttatela nello stagno. Però tappatevi il naso quando lo fate.»
«È così che te ne sbarazzi?»
«Sicuro,» disse Carnivoro. «Modo facile. C’è qualcosa nello stagno che se la mangia. Probabilmente è contento che io gli butto la carne.»
«L’hai mai visto, l’essere che la mangia?»
«No, ma la carne sparisce. La carne galleggia sull’acqua. Ma quella che butto nello stagno non galleggia mai. Qualcosa deve mangiarla.»
«Forse è la carne che fa puzzare lo stagno.»
«No,» disse Carnivoro. «Puzza sempre così. Anche prima di buttare la carne. Lo Shakespeare era qui prima di me e lui non buttava carne. Ma diceva che puzza fin dal suo arrivo.»
«L’acqua stagnante può avere un gran brutto odore,» disse Horton, «ma non avevo mai sentito un fetore simile.»
«Forse non è proprio acqua,» disse Carnivoro. «È più densa. Scorre come acqua, lo sembra, ma è più densa. Shakespeare la chiamava broda.»
Lunghe ombre, estendendosi dai filari degli alberi verso occidente, si erano insinuate sul campo. Carnivoro piegò la testa e guardò il sole socchiudendo gli occhi.
«È quasi l’ora di Dio,» disse. «Andiamo dentro. Sotto un robusto muro di pietra non è troppo brutto. Non come all’aperto. Si sente ancora, ma la pietra filtra via il peggio.»
L’interno della casa di Shakespeare era semplice. Il pavimento era lastricato. Non c’era soffitto: l’unica stanza arrivava fino al tetto. Al centro stava un grosso tavolo di marmo, e tutto intorno un ripiano di pietra, alto come un sedile.
Carnivoro lo indicò. «Per sedere e per dormire. Anche posto per mettere la roba.»
Il ripiano in fondo alla stanza era pieno di vasi e brocche, strani oggetti che sembravano statuette, ed altri cui era impossibile, a prima vista, assegnare un nome.
«Vengono dalla città,» disse Carnivoro. «Oggetti che Shakespeare portava dalla città. Curiosi, forse, ma di poco valore.»
Ad una estremità del tavolo c’era una candela sghemba, fissata alla pietra dai suoi sgocciolii. «Dà luce,» disse Carnivoro. «Shakespeare l’aveva fatta con il sego della carne che io uccidevo, e la usava per rimuginare sul libro… qualche volta era il libro che parlava a lui, e qualche volta lui parlava al libro con il suo bastoncino magico.»
«Era il libro che hai promesso di mostrarmi,» disse Horton.
«Certamente,» disse Carnivoro. «Forse tu puoi spiegarmi. Dirmi cos’è. Io chiedo allo Shakespeare molte volte, ma la spiegazione che mi dava lui non era una vera spiegazione. Io sto lì e mi rodo il cuore per la voglia di sapere, e lui non voleva mai dirlo. Ma dimmi una cosa, per favore. Perché aveva bisogno di una luce per parlare col libro?»
«Si chiama leggere,» disse Horton. «Il libro parla con i segni che ci sono sopra. Ci vuole la luce per vederli. Perché parli, i segni si debbono vedere chiaramente.»
Carnivoro scosse il capo. «Strane abitudini,» disse. «Voi umani siete strani affari. Lo Shakespeare, strano. Rideva sempre di me. Non apertamente, dentro. Io gli voglio bene, ma lui ride. Ride per essere più di me. Ride in segreto, ma mi fa capire che ride.»
Andò in un angolo e prese un sacco confezionato di pelle animale. Lo sollevò con un pugno e lo scosse: ne uscì un fruscio secco, uno struscio.
«Le sue ossa,» gridò. «Adesso ride solo con le ossa. Anche le ossa ridono ancora. Ascolta e le sentirai.»
Scosse rabbiosamente il sacco. «Non senti ridere?»
L’ora di Dio venne.
Era ancora mostruosa. Nonostante le spesse mura di pietra ed il soffitto, la sua forza non era molto attenuata. Ancora una volta, Horton si sentì afferrare, spogliare e squarciare ed esplorare; e questa volta, gli parve, non veniva soltanto esplorato, ma anche assorbito; mentre lottava per restare se stesso, sentì che diveniva una sola cosa con ciò che l’aveva afferrato. Si sentì fondere in esso, diventarne parte, e quando comprese che era impossibile opporsi alla fusione, nonostante l’umiliazione che gli dava l’essere reso parte di qualcosa d’altro, cercò di sondare a sua volta, di scoprire ciò che s’impadroniva di lui. Per un istante, credette di capirlo: per un istante fuggevole, la cosa da cui era stato assorbito, la cosa che lui era diventato, parve protendersi per abbracciare l’universo, tutto ciò che era stato ed era e sarebbe stato in futuro, mostrandolo, mostrandogliene la logica, o l’illogicità, lo scopo, la ragione ed il fine. Ma in quell’istante, la sua mente umana si ribellò all’implicazione della conoscenza, sbigottita e indignata al pensiero che potesse esservi una cosa simile, che fosse possibile rivelare l’universo e conoscerlo. La sua mente ed il suo corpo si ritrassero: preferivano non sapere.
Non aveva modo di calcolare per quanto durò. Era inerte in quella stretta, che pareva assorbire non soltanto lui ma anche il suo senso del tempo… come se potesse manipolare il tempo a modo suo e per i suoi fini; e Horton provò la sensazione fuggevole che, se poteva far questo, nulla era in grado di opporsi, perché il tempo era il fattore più elusivo dell’universo.
Poi finì, e Horton si stupì nel trovarsi accovacciato sul pavimento, con le braccia levate per coprirsi la testa. Sentì che Nicodemus lo sollevava, lo rimetteva in piedi e lo sosteneva. Infuriato della propria impotenza, scostò di scatto le mani del robot e si diresse barcollando verso il grande tavolo di pietra, vi si aggrappò disperatamente.
«È stato ancora brutto,» disse Nicodemus.
Horton scrollò il capo, cercando di schiarirsi il cervello. «Brutto,» disse. «Come l’altra volta. E tu?»
«Lo stesso, come prima,» disse Nicodemus. «Un colpo mentale di striscio, tutto lì. Si impone molto più brutalmente ad un cervello biologico.»
Come attraverso una nebbia, Horton sentì Carnivoro declamare «Qualcosa, lassù,» stava dicendo, «sembra si interessi a noi.»