Ma addormentarsi era difficile. Mentre stava lì, sdraiato, a guardare l’oscurità, la stranezza e la solitudine si riversavano su di lui, la stranezza e la solitudine che fino a quel momento aveva tenuto lontane.
Solo ieri, aveva detto Nicodemus. È stato solo ieri che sei entrato in ibernazione, perché tutti i secoli che sono passati da allora per te significano meno di niente.
Era stato solo ieri, pensò, con un po’ di stupore e di amarezza. E adesso era solo, a ricordare e a rimpiangere. A rimpiangere, lì nell’oscurità di un pianeta lontanissimo dalla Terra, raggiunto, per quanto lo riguardava, in un batter d’occhio, per scoprire che la sua patria e la gente di ieri erano sprofondati negli abissi del tempo.
Helen morta, pensò. Morta, posta a giacere sotto lo scintillio d’acciaio di stelle ancora più estranee, sul pianeta sconosciuto di un sole non registrato, dove i ghiacciai d’ossigeno solido si levavano contro lo sfondo nero dello spazio e la roccia primordiale stava incorrosa da millenni e millenni, un pianeta immutabile come la stessa morte.
Loro tre, insieme… Helen, Mary, Tom. Mancava soltanto lui… mancava perché era stato nel cubicolo numero uno, perché uno stupido robot piedipiatti e pasticcione non sapeva pensare ad altro sistema che procedere in ordine numerico.
Nave, sussurrò mentalmente.
Dormi, disse Nave.
Vai al diavolo, disse Horton. Non puoi trattarmi come un bambino. Non puoi dirmi cosa devo fare. Dormi, tu dici. Apri una falla, tu dici. Dimentica tutto, tu dici.
Non ti diciamo di dimenticare, disse Nave. È un ricordo prezioso, e finché devi rimpiangere, tienilo stretto. Quando rimpiangi, sappi che piangiamo con te. Perché anche noi ricordiamo la Terra.
Ma non vi ritornerai. Hai intenzione di andare avanti. Dopo questo pianeta, hai intenzione di andare avanti. Cosa prevedi di trovare? Cosa stai cercando?
Non possiamo saperlo. Non facciamo previsioni.
Ed io vengo con te?
Naturalmente, disse Nave. Siamo una collettività, e tu ne fai parte.
E il pianeta? Dedicheremo un po’ di tempo a esplorarlo?
Non c’è fretta, disse Nave. Abbiamo tutto il tempo.
Cos’abbiamo percepito, questa sera? Fa parte dell’ignoto verso cui andremo?
Buonanotte, Carter Horton, disse Nave. Parleremo ancora. Pensa a cose piacevoli, e cerca di dormire.
Cose piacevoli, pensò. Sì, era stato piacevole, là dove il cielo era azzurro, ricco di bianche nubi fluttuanti, con un oceano da cartolina illustrata che faceva scorrere le lunghe dita su e giù per una spiaggia perfetta, con il corpo di Helen più candido delle sabbie su cui era adagiato. C’erano stati i fuochi del picnic, e il vento della notte che si aggirava tra gli alberi appena intrawisti. C’era stata la luce delle candele su una tovaglia nivea, con le stoviglie lucenti e i bicchieri scintillanti sul tavolo, e una musica in sottofondo e la gioia dovunque.
Là fuori, nell’oscurità esterna, Nicodemus si muoveva goffamente cercando di non far rumore, e dall’oblò aperto giungeva il lontano sviolinare stridente di quelli che dovevano essere insetti. Se pure c’erano insetti, lì, si disse Horton.
Cercò di pensare al pianeta che stava oltre l’oblò, ma sembrava impossibile riuscirvi. Era troppo nuovo ed estraneo, perché potesse pensarci. Ma si accorse di poter evocare il concetto spaventoso dell’immenso abisso silenzioso che stava tra quel luogo e la Terra, e con la mente vide il puntolino minuscolo della Nave fluttuare in quella tremenda immensità di niente. Il niente si trasformò in solitudine: e con un gemito, Horton si girò e si strinse il cuscino sulla testa.