Il visitatore si era fermato a cinque o sei metri dalla base della rampa e li aspettava, quando Horton e Nicodemus uscirono per riceverlo. Era alto come un umano, e bipede. Le braccia, che pendevano inerti lungo i fianchi, non erano concluse da mani, ma da grovigli di tentacoli. Non portava indumenti. Il corpo era ricoperto da un vello rado. Che fosse un maschio, era aggressivamente chiaro. La testa sembrava un teschio scarnito, senza capelli o pelame, e la pelle era tesa sulla struttura ossea. Le mandibole erano pesanti, allungate in un muso massiccio. Dalla mascella superiore sporgevano zanne aguzze, un po’ simili a quelle dell’antica tigre dai denti a sciabola della Terra. Le lunghe orecchie appuntite, incollate al cranio, sovrastavano rigide la testa calva, ed erano coronate da ciuffi rossovivi.
Quando i due arrivarono ai piedi della rampa, l’essere parlò con voce tonante. «Vi dò il benvenuto,» disse, «su questo schifo di pianeta.»
«Come diavolo,» proruppe Horton, sbalordito, «conosci la nostra lingua?»
«L’ho imparata tutta da Shakespeare,» disse l’essere. «Me l’ha insegnata Shakespeare. Ma adesso è morto, e mi manca terribilmente. Sono desolato senza di lui.»
«Ma Shakespeare è un uomo molto antico, e io non capisco…»
«Per nulla antico,» disse l’essere, «sebbene non era giovane, in verità, e aveva una malattia. Si diceva umano. Somigliava moltissimo a te. Deduco che anche tu sei umano, ma l’altro non lo è, sebbene ha aspetti umani.»
«Hai ragione,» disse Nicodemus. «Non sono umano. Sono la cosa migliore che esista dopo gli umani. Sono l’amico di un umano.»
«Allora va benissimo,» disse soddisfatto. «Va benissimo. Perché io lo ero per Shakespeare. Il migliore amico che aveva mai avuto, diceva. Sento molto la mancanza dello Shakespeare. Lo ammiro moltissimo. Sapeva fare tante cose. Una cosa che non poteva fare era imparare la mia lingua. Così, per forza, ho dovuto imparare la sua. Mi parlava dei grandi trasporti che viaggiano rumorosamente nello spazio. Perciò, quando vi sento arrivare, mi affretto molto rapidamente, sperando che è qualcuno della gente di Shakespeare.»
Horton disse a Nicodemus: «C’è qualcosa che non va. L’uomo non può essersi spinto tanto lontano nello spazio. Nave ha perso tempo, naturalmente, rallentando per esaminare i pianeti. Ma siamo quasi a mille anni-luce di distanza…»
«La Terra, a quest’ora,» disse Nicodemus, «può avere navi molto più veloci, che superano di parecchio la velocità della luce. È possibile che molte di queste navi ci abbiano superati, mentre noi procedevamo lentamente. Quindi, per quanto possa apparire strano…»
«Voi parlate di navi,» disse l’essere. «Anche Shakespeare ne parla, ma non ne ha bisogno. Shakespeare viene attraverso il tunnel.»
«Senti un po’,» fece Horton, irritato, «prova a parlare in modo razionale. Cos’è questa storia del tunnel?»
«Vuoi dire che non sapete del tunnel tra le stelle?»
«Mai sentito,» disse Horton.
«Torniamo indietro,» propose Nicodemus, «e ricominciamo daccapo. Immagino che tu sia indigeno di questo pianeta.»
«Indigeno?»
«Sì, indigeno. Questo è il tuo posto. Questo è il tuo pianeta. Sei nato qui.»
«Mai,» disse l’essere, in tono enfatico. «Non orinerei neppure su questo pianeta, se posso farne a meno. Non vi resterei neppure per la più piccola unità di tempo, se posso andarmene. Mi sono precipitato qui per contrattare un passaggio sulla vostra nave, quando ve ne andrete.»
«Sei venuto qui come Shakespeare? Attraverso il tunnel?»
«Certo, attraverso il tunnel. Altrimenti, come facevo ad arrivarci?»
«Allora dovrebbe essere semplice, andartene. Vai al tunnel e vattene per quella strada.»
«Non posso,» ululò l’essere. «Quel maledetto tunnel non funziona. È malfunzionante. Funziona in una direzione sola. Ti porta qui, ma non ti riporta indietro.»
«Ma hai detto che è un tunnel per le stelle. Ho avuto l’impressione che raggiungesse molte stelle.»
«Più di quante la mente può contare, ma ha bisogno di riparazioni. Shakespeare prova e riprova, ma non possiamo aggiustarlo. Shakespeare lo prende a pugni e a calci, grida, lo chiama con nomi terribili. E quello non funziona lo stesso.»
«Se non sei di questo pianeta,» disse Horton, «potresti spiegarci cosa sei.»
«È molto semplice. Sono un carnivoro. Conosci i carnivori?»
«Sì. Divorano altri esseri viventi.»
«Io sono un carnivoro,» disse l’essere. «E soddisfatto di esserlo. Fiero di esserlo. Tra le stelle vi sono alcuni che guardano i carnivori con sdegno ed orrore. Dicono, erroneamente, che non è giusto mangiare gli altri esseri. Dicono che è una crudeltà, ma io vi assicuro che non lo è. Una morte rapida. Una morte pulita. Nessuna sofferenza. Meglio delle malattie e della vecchiaia.»
«Sta bene,» disse Nicodemus. «Non occorre che tu insista. Non abbiamo nulla contro i carnivori.»
«Shakespeare dice che anche gli uomini sono carnivori. Ma non quanto me. Shakespeare divideva la carne che io uccidevo. Avrebbe ucciso anche lui, ma non era bravo come me. Ero contento di uccìdere per Shakespeare.»
«Ci avrei scommesso,» disse Horton.
«Sei solo, qui?» chiese Nicodemus. «Sei l’unico della tua specie, sul pianeta?»
«L’unico,» disse il Carnivoro. «Sono arrivato di nascosto. Non l’ho detto a nessuno.»
«E questo Shakespeare,» disse Horton. «Anche lui era venuto di nascosto?»
«C’erano esseri amorali che volevano scovarlo, affermando che aveva causato loro mali immaginari. Non voleva che lo ritrovavano.»
«Ma ora Shakespeare è morto?»
«Oh, è morto, sicuro. L’ho divorato io.»
«Che cosa?»
«Solo la carne,» disse il Carnivoro. «Ho avuto cura di non mangiare le ossa. E non mi faccio scrupolo di dirvi che era duro e tiglioso e aveva un sapore che non mi piaceva. Aveva un gusto strano.»
Nicodemus sì affrettò a intervenire per cambiare argomento. «Saremmo lieti,» disse, «di venire al tunnel con te a vedere se si può riparare.»
«Lo farete davvero, in spirito d’amicizia?» chiese garbatamente il Carnivoro. «Lo speravo. Potete riparare quel maledetto tunnel?»
«Non so,» disse Horton. «Possiamo dargli un’occhiata. Non sono un ingegnere.»
«Io posso diventare ingegnere,» disse Nicodemus.
«Col cavolo che puoi,» disse Horton.
«Gli daremo un’occhiata,» disse spensierato il robot.
«Allora è tutto sistemato?»
«Puoi contarci,» disse Nicodemus.
«Molto bene,» disse il Carnivoro. «Io vi mostro l’antica città e poi…»
«C’è un’antica città?»
«Io esagero,» disse il Carnivoro. «Mi lascio trasportare dall’entusiasmo per la riparazione del tunnel. Forse non è una vera e propria città. Forse solo un avamposto. Molto vecchio e molto rovinato, ma interessante, forse. Ma adesso debbo andare. La stella sta per tramontare. È meglio essere al riparo, quando scende l’oscurità. Sono lieto di avervi conosciuti. Lieto che è venuta la gente di Shakespeare. Salve e addio! Ci vediamo domattina e ripariamo il tunnel.»
Si girò di scatto e si avviò trotterellando verso le colline, senza soffermarsi per guardare indietro.
Nicodemus scosse il capo. «Qui ci sono molti enigmi,» disse. «Molte cose su cui riflettere. Molti quesiti da formulare. Ma prima debbo prepararti il pranzo. Sei uscito dall’ibernazione da un tempo sufficiente per poter mangiare senza pericoli. Buon vitto sostanzioso, ma non troppo, all’inizio. Devi frenare l’avidità. Devi mangiare lentamente.»
«Aspetta un momento, dannazione,» disse Horton. «Devi darmi qualche spiegazione. Perché mi hai interrotto, quando sapevi che volevo chiedere come e perché ha divorato questo Shakespeare, chiunque sia? Perché hai detto che puoi diventare ingegnere? Sai benissimo che non puoi.»
«Tutto a suo tempo,» disse Nicodemus. «Come hai osservato tu, devo darti spiegazioni. Ma prima tu devi mangiare, e il sole è quasi tramontato. Hai sentito cos’ha detto quell’essere? È meglio essere al riparo, quando il sole se ne va.»
Horton sbuffò. «Superstizioni. Chiacchiere da vecchie comari.»
«Vecchie comari o no,» disse Nicodemus, «è meglio lasciarsi guidare dalle consuetudini locali, fino a quando non si è sicuri.»
Guardando oltre il mare d’erba ondeggiante, Horton vide che l’orizzonte piano aveva bisecato il sole. La distesa d’erba pareva una coltre d’oro scintillante. Mentre lo guardava, il sole calò ancora di più nella caligine dorata e, intanto, il cielo ad occidente si colorò di un viscido giallo limone.
«Strano effetto di luce,» disse.
«Vieni, torniamo a bordo,» lo esortò Nicodemus. «Cosa vuoi mangiare? Vichyssoise, magari… cosa te ne pare? Costolette, patate al forno?»
«Hai preparato un buon menù,» disse Horton.
«Sono un abile chef,» rispose il robot.
«Che cosa non sei? Ingegnere e cuoco. Che altro?»
«Oh, molte cose,» disse Nicodemus. «Io posso fare molte cose.»
Il sole se ne era andato, ed una foschia purpurea pareva scendere a refoli dal cielo. Il pulviscolo aleggiò sul giallo dell’erba, divenuto ormai del colore del vecchio bronzo levigato. L’orizzonte era nero come il giaietto, e aveva lasciato come un barlume di luce verdolina, il colore delle foglie tenere, dov’era calato il sole.
«È molto gradevole all’occhio,» disse Nicodemus, contemplandolo.
Il colore sbiadiva rapidamente, e via via che svaniva, un soffio freddo alitava sulla terra. Horton si voltò per risalire la rampa. Mentre si girava, qualcosa scese volteggiando su di lui, afferrandolo e stringendolo. Non lo strinse veramente, perché non c’era nulla: era una forza che l’afferrava e lo sommergeva, impedendogli di muoversi. Tentò di resistere, ma non riuscì a muovere un muscolo. Cercò di gridare, ma aveva gola e lingua impietrite. All’improvviso fu nudo… o si sentì nudo, privato non tanto degli indumenti quanto di tutte le difese, esposto fino alle profondità più remote del suo essere. C’era la sensazione di essere osservato, esaminato, sondato e analizzato. Spogliato e scuoiato e squarciato, affinché l’osservatore potesse scavare fin al suo ultimo desiderio, alla sua speranza finale. Era, disse un pensiero fuggevole nella sua mente, come se Dio fosse venuto e lo stesse valutando, forse per giudicarlo.
Avrebbe voluto fuggire e rintanarsi, ributtarsi addosso la pelle scuoiata e stringersela sul corpo, coprendo la cosa squarciata che era divenuto, nascondendosi di nuovo dietro i brandelli laceri della sua umanità. Ma non poteva fuggire, e non c’era un posto per nascondersi, e perciò rimase lì, irrigidito, a lasciarsi scrutare.
Non c’era nulla. Non era apparso nulla. Tuttavia qualcosa lo aveva afferrato e spogliato, ed egli cercava di protendere la mente per vederlo, per scoprire cos’era. E mentre lo tentava, gli parve che il cranio gli si aprisse, scricchiolando, e la sua mente si liberasse, affacciandosi e schiudendosi in modo da abbracciare ciò che nessun uomo, prima, aveva mai compreso. In un momento di panico cieco, la sua mente parve espandersi e riempire l’universo, aggrappandosi con esìli dita a tutto ciò che stava entro i confini dello spazio gelido e del tempo fluente, e per un istante, ma solo per un istante, immaginò di vedere nel profondo del nucleo del significato supremo, celato nei recessi più remoti dell’universo.
Poi la sua mente ricadde, il cranio si richiuse e si ricompose, la cosa lo lasciò andare; e barcollando, Horton si afferrò alla ringhiera della rampa, per reggersi.
Nicodemus gli stava accanto e lo sosteneva, e la sua voce ansiosa chiese: «Cosa succede, Carter? Cosa ti ha preso?»
Horton si aggrappò alla ringhiera in una stretta mortale, come se quella fosse l’ultima realtà rimastagli. Il suo corpo doleva per la tensione, ma la mente conservava ancora un po’ della lucidità innaturale, sebbene la sentisse dileguare. Si raddrizzò, con l’aiuto di Nicodemus. Scrollò il capo e sbatté le palpebre per schiarirsi la vista. I colori, sul mare d’erba, erano cambiati. La foschia purpurea s’era offuscata in un crepuscolo fondo. Il bagliore bronzeo dell’erba s’era appiattito in una sfumatura plumbea, e il cielo era nero. Una ad una, uscirono le prime stelle.
«Che succede, Carter?» chiese ancora il robot.
«Vuoi dire che non l’hai sentito?»
«Qualcosa,» disse Nicodemus. «Qualcosa di spaventoso. Mi ha colpito, ed è guizzato via. Non il mio corpo, ma la mente. Come se qualcuno avesse sferrato un pugno mortale e avesse mancato il colpo, sfiorandomi appena la mente.»