Si smarrì due volte, sbagliando a svoltare per il sentiero, ma finalmente arrivò allo stagno, scendendo l’erta ripida, mentre la luce della torcia elettrica si rifletteva sulla dura levigatezza della superficie.
Nella notte c’era un silenzio di morte. Lo Stagno era piatto e spento. Una manciata di stelle sconosciute impolverava il cielo. Guardandosi intorno, Horton scorse il bagliore del fuoco che illuminava la cima di un albero altissimo.
Piantò i tacchi sul gradino di pietra che portava allo Stagno e si chinò.
«Bene,» disse parlando con la voce e con la mente. «Sentiamo.»
Attese, e gli parve che vi fosse un lieve movimento nello Stagno, un’increspatura che non era un’increspatura, e dalla riva opposta giunse un bisbiglio, come un vento che spirasse dolcemente tra le canne. Horton sentì un moto nella sua mente, l’impressione che qualcosa vi prendesse forma.
Attese, e poi la cosa non fu più nel suo cervello, ma nello spostamento di coordinate di cui non sapeva nulla, solo che dovevano esservi in gioco delle coordinate, e si sentì spiazzato. Aleggiava, o almeno così gli pareva, come un essere disincarnato, in un vuoto sconosciuto contenente un solo oggetto, una sfera azzurra brillante nella luce del sole che scendeva sopra la sua spalla sinistra, o dove doveva essere la spalla sinistra, perché non era neppure certo di avere un corpo.
La sfera si muoveva verso di lui, oppure era lui che precipitava verso la sfera… non riusciva a capirlo. Comunque, stava diventando più grande. E mentre cresceva, l’azzurrità della superficie si chiazzava di screziature bianche irregolari, ed egli comprese che la sfera era un pianeta, oscurato in parte dalle nubi mascherate fino a quel momento dall’azzurro intenso della superficie.
Ormai non c’era dubbio: stava precipitando attraverso l’atmosfera del pianeta, e tuttavia la caduta sembrava così controllata che egli non provava apprensione. Non era esattamente una caduta: era veleggiare verso il basso, come un pappo di cardo che fluttuasse nell’aria. La forma della sfera era scomparsa, il suo disco era divenuto così immane da riempire e superare la sua visuale. Sotto di lui stava ora la grande pianura azzurra spennellata del bianco delle nubi. Le nubi e nient’altro, nessuna traccia di una massa continentale.
Ora si muoveva più rapidamente, nel precipitare, ma continuava ad avere la sensazione di essere un seme di cardo. Quando fu più vicino alla superficie, vide che l’azzurrità era increspata… acqua mossa dall’infuriare del vento che la spazzava.
Non era acqua, gli disse qualcosa. Liquido, ma non acqua. Un mondo di liquido, un talassopianeta, un mondo fluido senza continenti né isole.
Liquido?
«Dunque è così,» disse, parlando con la bocca del corpo che stava accovacciato sulla riva dello Stagno. «È di là che vieni. È questo che sei.»
E tornò ad essere un seme lanuginoso di cardo librato su un pianeta, intento a osservare, sotto di lui, un grande movimento nell’oceano, con il liquido che si aggobbiva e saliva, arrotondandosi e modellandosi in una sfera, forse di parecchi chilometri di diametro, ma per il resto simile a quella che era venuta in visita all’accampamento. Vide che la sfera si sollevava, si innalzava nell’aria, dapprima lentamente, e poi accelerando, fino a quando la vide venire verso di lui come una gigantesca palla di cannone. Non lo colpì, ma non lo mancò di molto. Il suo essere di seme-di-cardo venne afferrato e sbatacchiato dallo spostamento d’aria causato dal passaggio della sfera liquida. Molto più indietro, udiva il lungo rombo di tuono, mentre l’atmosfera lacerata si riprecipitava scrosciando nel vuoto creato dal passaggio del globo.
Si voltò e vide che il pianeta si allontanava rapidamente, ripiombava nello spazio. Era strano, pensò… che al pianeta accadesse questo. Ma quasi subito si rese conto che non era il pianeta a spostarsi, ma lui. Era stato catturato dall’attrazione della massiccia palla da cannone liquida e, rimbalzando, trascinato dalla sua gravità, la seguiva negli abissi dello spazio.
Tutto appariva assurdo. Gli pareva di aver perduto ogni senso d’orientamento. Ad eccezione della palla da cannone liquida e delle stelle lontane, non c’erano punti di riferimento, e anche quelli esistenti avevano scarso significato. Gli sembrava di aver perduto la misura del tempo, e lo spazio non era più misurabile: e sebbene egli conservasse qualcosa dell’identità personale, si era ridotta a una minuscola fiammella. Ecco cosa succede, si disse, compiaciuto, quando non hai corpo. Un milione d’anni-luce possono essere un passo, e un milione d’anni solo lo scandire di un secondo. La sola cosa di cui era conscio era il suono dello spazio, simile allo scroscio di un oceano che precipitasse da una cascata alta mille miglia… e un altro suono, una cantilena, un frinire di grilli, quasi troppo acuto perché il suo udito lo captasse: e quello, si disse, era il sospiro del lampo di calore balenante al di qua dell’infinito, e il bagliore di quel lampo, lo sapeva, era l’emblema del tempo.
All’improvviso, mentre distoglieva un attimo lo sguardo, si accorse che il globo lanciato nello spazio aveva trovato un sistema solare, e sfrecciava attraverso una densa atmosfera, per girare intorno ad uno dei pianeti. Mentre guardava, il globo si deformò, da una parte, si aggobbì formando un’altra sfera più piccola, che si staccò e cominciò ad orbitare intorno al pianeta, mentre la sfera madre, più grande, descrisse una curva per avventarsi di nuovo nello spazio. Nel curvare, lo sganciò e lo lanciò lontano, ed egli si ritrovò, libero, a precipitare verso la superficie scura del pianeta sconosciuto. La paura affondò gli artigli nel suo essere: aprì la bocca per urlare, e si stupì di avere ancora una bocca.
Ma prima che potesse lanciare l’urlo, non ebbe più bisogno di urlare, perché era ritornato entro il suo corpo, accosciato in riva allo Stagno.
Aveva gli occhi chiusi e li aprì, con la sensazione di dover forzare le palpebre. Riusciva a vedere abbastanza bene, nonostante l’oscurità della notte. Lo Stagno giaceva placido nella sua conca rocciosa, uno specchio senza increspature che rifletteva la luce delle stelle sparpagliate lassù in cielo. Sulla destra si levava la collina, un’ombra conica nell’oscurità, e sulla sinistra, il dorsale su cui sorgeva la città in rovina sembrava un’enorme bestia nera accovacciata.
«Dunque è così,» disse, parlando sottovoce allo Stagno, non più di un mormorio, come se fosse un segreto che doveva restare tra loro. «Una colonia del pianeta liquido. Forse una tra molte colonie. Ma perché? Cosa ci guadagna, il pianeta, dalle colonie? Un oceano vivente che lancia piccoli segmenti di se stesso, per seminare altri sistemi solari. E quando li ha seminati, cosa ci guadagna? Cosa spera di guadagnare?»
Tacque, accosciato nel silenzio, un silenzio così profondo da risultare snervante, così profondo e incontaminato che gli pareva ancora di udire la cantilena acuta, sibilante del tempo.
«Parlami,» implorò. «Perché non mi parli? Puoi mostrare e spiegare; perché non puoi parlare?»
Perché questo non bastava, si disse. Non bastava per sapere cosa poteva essere lo Stagno e come era finito lì. C’era soltanto un inizio, un fatto fondamentale, che non chiariva il movente e la speranza e lo scopo, e questi erano importanti.
«Senti,» disse, ancora supplichevole, «tu sei una vita, ed io un’altra vita. Per nostra natura non possiamo farci male a vicenda, non abbiamo neppure ragione di desiderarlo. Perciò non abbiamo nulla da temere. Senti, la metterò così… c’è qualcosa che posso fare per te? C’è qualcosa che vuoi fare per me? O in mancanza di questo, com’è possibile poiché operiamo su due piani tanto diversi, perché non cerchiamo di parlarci, di imparare a conoscerci meglio? Tu devi possedere un’intelligenza. Sicuramente questa seminagione dei pianeti non è solo un comportamento istintivo, l’azione di una pianta che lancia i semi perché mettano radici altrove, come la nostra venuta qui è qualcosa di più della cieca disseminazione del nostro seme culturale.»
Rimase in attesa, e vi fu di nuovo un fremito nella sua mente, come se qualcosa vi fosse penetrato e si sforzasse di formarvi un messaggio, di tracciarvi un’immagine. Lentamente, faticosamente, l’immagine crebbe e si strutturò, dapprima come un fremito, poi come una chiazza sfuocata, e infine, consolidandosi in una rappresentazione vignettistica che cambiava e cambiava e cambiava, divenendo più chiara e definitiva ad ogni cambiamento, fino a quando gli parve di essersi sdoppiato… due lui accosciati lì accanto allo Stagno. Ma uno dei due teneva in mano una bottiglia, la stessa che aveva preso nella città, e si chinava ad immergerla nel liquido dello Stagno. Affascinato, restò a guardare — i due lui restarono a guardare — mentre il collo della bottiglia gorgogliava, eruttando uno spruzzo di bollicine, l’aria estromessa forzatamente dal liquido dello Stagno che vi entrava.
«Va bene,» disse un Horton. «Va bene: e poi, che debbo fare?»
L’immagine cambiò, e l’altro lui, reggendo delicatamente la bottiglia, salì la rampa di Nave, anche se Nave era venuta male, era sghemba e storta, una rappresentazione mediocre di Nave come le incisioni della bottiglia erano raffigurazioni mediocri degli esseri che intendevano ritrarre.
Ormai l’altro se stesso era entrato nella Nave, e la rampa si sollevava e la Nave s’innalzava dal pianeta, puntando verso lo spazio.
«Dunque vuoi venire con noi,» disse Horton. «Per amor di Dio, c’è qualcosa su questo pianeta che non voglia venire con noi? Ma così poco di te, solo una fiasca.»
Questa volta l’immagine si formò rapida nella sua mente… un diagramma che mostrava quel lontano pianeta liquido e molti altri pianeti con globi di liquido che li raggiungevano o li lasciavano, e piccole gocce cadute delle sfere discendenti sui pianeti seminati. Il diagramma cambiò: apparvero linee che partivano da tutti i pianeti seminati e dal pianeta liquido, e si orientavano verso un punto dello spazio, unendosi là dove un cerchio era tracciato intorno alla congiunzione. Le linee sparirono, ma il cerchio rimase, e altre linee vennero tracciate rapidamente, per convergere al suo interno.
«Vuoi dire…?» chiese Horton, e l’immagine si ripeté.
«Inseparabile?» chiese Horton. «Vuoi dire che sei uno solo? Che non siete molti, ma uno solo? Che vi è un solo io? Non un ‘noi’, ma un unico ‘io’? Che tu, qui davanti a me, sei solo un’estensione di un’unica vita?»
Il riquadro del diagramma diventò bianco.
«Vuoi dire che è esatto?» chiese Horton. «È questo che intendevi?»
Il diagramma svanì dalla sua mente, e fu sostituito da uno strano sentimento di felicità, di soddisfazione per un problema risolto. Non una parola, non un segno. Solo la sensazione di aver ragione, di aver centrato il significato.
«Ma io parlo con te,» disse. «E tu sembri capire. Come mai mi capisci?»
Senti di nuovo il fremito nella mente, ma questa volta non si formò alcuna immagine. Vi furono guizzi, e figure vaghe, e poi tutto svanì.
«Quindi,» disse Horton, «non sei in grado di dirmelo.» Ma, pensò, forse non ce n’era bisogno. Doveva saperlo lui stesso. Poteva parlare con Nave, tramite il congegno, qualunque cosa fosse, che era innestato nel suo cervello, e forse qui entrava in gioco un principio affine. Lui e Nave comunicavano a parole, perché entrambi conoscevano le parole. Avevano un mezzo di comunicazione comune, ma con Stagno quel mezzo non esisteva. Perciò Stagno, afferrando parte del significato dei pensieri da lui formati mentalmente mentre parlava, i pensieri fratelli delle sue parole, aveva ripiegato sulla forma più fondamentale di comunicazione, le immagini. Immagini dipinte sulla parete di una grotta, incise sul vasellame, disegnate sulla carta… immagini nella mente. L’espressione dei processi di pensiero.
Credo che non abbia importanza, si disse. Possiamo comunicare. Le idee possono varcare la barriera tra noi. Ma era così pazzesco, pensò… una struttura biologica di molti tessuti diversi che parlava con una massa di liquido biologico. E non solo con quei litri di liquido racchiusi nella conca rocciosa, ma con i miliardi e miliardi di ettolitri di liquido di quel pianeta lontano.
Si mosse, cambiò posizione: si sentiva i muscoli delle gambe aggranchiti.
«Ma perché?» chiese. «Perché vuoi venire con noi? Non per creare un’altra minuscola colonia… una colonia grande come un secchio su qualche altro pianeta che forse raggiungeremo, magari tra qualche secolo. Non ha senso. Devi avere sistemi molto migliori per creare le tue colonie.»
Rapidamente, l’immagine prese forma nella sua mente… il pianeta liquido lucente nella sua azzurrità devastante contro lo sfondo nero dello spazio, e le tante sottili linee irregolari che ne partivano, dirette verso altri pianeti. E mentre vedeva le linee serpeggiare attraverso il diagramma, Horton credette di capire che i pianeti verso cui si dirigevano erano quelli su cui il mondo liquido aveva creato colonie. Stranamente, pensò, quelle linee irregolari somigliavano un po’ al segno convenzionale con cui gli umani rappresentavano i fulmini, e si rese conto che Stagno aveva preso in prestito da lui certe convenzioni, per facilitare la comunicazione.
Uno dei molti pianeti del diagramma sfrecciò verso di lui, ingrandendosi più degli altri: e Horton vide che non era un pianeta, era Nave, ancora sghemba, ma riconoscibile; e uno dei fulmini le si infrangeva contro, rimbalzava e veniva sfrecciando verso di lui. Si chinò, istintivamente, ma non fu abbastanza svelto, e il fulmine lo colpì in mezzo agli occhi. Ebbe la sensazione di disgregarsi, di venire scagliato nell’universo, spogliato e squarciato. E mentre si disperdeva nel cosmo, una grande pace discese da chissà dove e lo avvolse dolcemente. In quell’istante vide e comprese. Poi tutto sparì e lui si ritrovò nel proprio corpo, sulla riva rocciosa dello Stagno.
L’ora di Dio, pensò… è incredibile. Eppure, ripensandoci, gli appariva più credibile e più logico. Il corpo umano, tutti i corpi biologici complicati, avevano un sistema nervoso che era in effetti una rete di comunicazione. E sapendo questo, perché doveva rifiutare il pensiero di un’altra rete di comunicazione, che operava attraverso gli anni-luce, per collegare i molti segmenti dispersi di un’altra intelligenza? Un segnale, per ricordare ad ogni colonia remota che era ancora e sarebbe rimasta parte dell’organismo.
L’effetto di una fucilata, si era detto prima… colto dalla rosa dei pallini sparati contro qualcosa d’altro. E adesso sapeva che quel qualcosa d’altro era Stagno. Ma se era stato solo un effetto secondario, perché adesso Stagno voleva includere lui e Nave nella rosa dei pallini dell’ora di Dio? Perché voleva che prendesse a bordo un secchio del suo liquido? Per fornire un bersaglio che avrebbe inserito lui e Nave nell’ora di Dio? Oppure aveva frainteso?
«Ti ho frainteso?» chiese allo Stagno: e in risposta, provò di nuovo la dispersione, lo squarciamento e la pace. Strano, pensò, prima non aveva conosciuto la pace, ma solo paura, e confusione. La pace e la comprensione, anche se questa volta era venuta solo la pace, non la comprensione, ed andava bene così, pensò Horton, perché anche se l’aveva intuita, non si era fatto un’idea della comprensione, aveva avuto solo la conoscenza, l’impressione che la comprensione ci fosse e che, con il tempo, fosse possibile raggiungerla. Per lui la comprensione era stata sconcertante come tutto il resto. Ma non per tutti, si disse: Elayne, per un istante, aveva afferrato la comprensione, istintivamente, per poi smarrirla di nuovo.
Stagno offriva qualcosa, a lui ed a Nave, e sarebbe stato scortese vedere nell’offerta qualcosa di diverso del desiderio che spingeva un’intelligenza a dividere con un’altra un po’ della sua conoscenza e della sua intuizione. Come aveva detto a Stagno, non poteva esserci conflitto tra due forme di vita tanto dissimili. Data la natura delle differenze, non poteva esserci tra loro né concorrenza né antagonismo. Eppure, in fondo alla sua mente, udiva il tintinnio metallico dei campanelli d’allarme incorporati in ogni cervello umano. Era ingiusto, si disse rabbiosamente, era indegno: ma il tintinnio continuava e continuava. Non ti rendere vulnerabile, scandivano i campanelli, non esporre la tua anima, non fidarti di nulla fino a quando un’esperienza ripetuta non ti dia la triplice certezza che non te ne verrà alcun male.
Tuttavia, si disse, forse l’offerta di Stagno poteva non essere del tutto altruista. Poteva esservi qualcosa dell’umanità, qualche conoscenza, qualche prospettiva o punto di vista, qualche giudizio etico o valutazione storica, che Stagno poteva utilizzare. Provò uno slancio d’orgoglio al pensiero che l’umanità potesse donare qualcosa a quell’intelligenza insospettata, dimostrando che le entità intelligenti, per quanto dissimili, potevano trovare o crearsi una base comune.
A quanto sembrava, Stagno offriva, per chissà quale ragione, un dono molto prezioso nella sua scala dei valori… non un gingillo vistoso quale una civiltà arrogante e più grande poteva offrire a un barbaro. Shakespeare aveva scritto che l’ora di Dio poteva essere un meccanismo d’insegnamento: e avrebbe potuto esserlo, naturalmente. Ma poteva anche essere, pensò Horton, una religione. O semplicemente un segnale di riconoscimento, un richiamo del clan, una convenzione per ricordare a Stagno ed a tutti gli altri Stagni della galassia, l’unità, l’identità di tutti, tra loro e il pianeta che li aveva generati. Un segno di fratellanza, forse… e se era così, allora lui, e per suo tramite la razza umana, stavano ricevendo l’offerta di una partecipazione in prova alla confraternita.
Ma era più di un semplice segnale di riconoscimento, ne era certo. La terza volta che l’aveva investito, lui non era stato avviato nell’esperienza simbolica vissuta in precedenza, ma in una scena della sua infanzia e in un’umanissima fantasia in cui aveva parlato con il teschio di Shakespeare. Era stato soltanto un avvio, oppure era avvenuto perché il meccanismo (il meccanismo?) responsabile dell’ora di Dio si era aperto la strada nella sua mente e nella sua anima, esaminando e sondando e analizzando come aveva mostrato di fare quelle prime due volte? E qualcosa del genere, ricordò, l’aveva provato anche Shakespeare.
«C’è qualcosa che vuoi?» chiese. «Tu fai questo per noi… cosa possiamo fare per te?»
Attese la risposta, ma non venne. Stagno rimase scuro e placido, mentre la luce delle stelle ne screziava la superficie.
Tu fai questo per noi, aveva detto; cosa possiamo fare per te? L’aveva detto come se l’offerta di Stagno fosse qualcosa di grande valore, qualcosa di necessario. Ma lo era? si chiese. Era qualcosa di necessario, di voluto? O non era forse qualcosa di cui potevano fare a meno, felicemente a meno?
E si vergognò. Il primo contatto, pensò. Poi capì di avere sbagliato. Primo contatto per lui e Nave, ma forse non per Stagno e i molti altri Stagni su molti altri pianeti, né per molti altri umani. Da quando Nave aveva lasciato la Terra, l’uomo si era sparso nella galassia, e quelle schegge d’umanità dovevano avere avuto molti altri contatti con esseri strani e meravigliosi.
«Stagno,» disse. «Ti ho parlato. Perché non mi hai risposto, Stagno?»
Un lieve fremito gli passò nella mente, un fremito soddisfatto, come il sospiro sommesso di un cucciolo che si accovaccia per dormire.
«Stagno!» disse Horton.
Non ebbe risposta. Il fremito non si ripeté. Ed era finito, era tutto? Forse Stagno era stanco. Gli sembrava ridicolo che una cosa come Stagno potesse essere stanca.
Si alzò in piedi e i muscoli aggranchiti delle gambe gridarono di sollievo. Ma non si mosse subito: restò lì ad ascoltare lo sbalordimento che tuonava dentro di lui.
Era rimasto deluso, lo ricordava, alla prima occhiata data al pianeta, deluso della sua mancanza di alienità, e l’aveva giudicato nient’altro che una Terra sciatta. A ben vedere, disse, difendendo quella prima impressione, era abbastanza sciatto.
Adesso che era il momento di andare, adesso che era stato congedato, provava una strana riluttanza ad allontanarsi. Era come se, avendo stabilito un’amicizia nuova, gli dispiacesse dire addio. Era un termine errato, e lo sapeva: non era un’amicizia. Cercò la parola esatta: ma non gliene venne in mente nessuna.
Poteva mai esistere una vera amicizia, si chiese, un’amicizia tra due intelligenze così completamente diverse? Potevano trovare quel terreno comune, quell’armonia, avrebbero mai potuto dirsi: Sono d’accordo con te… forse hai affrontato il concetto di un’umanità comune e di una comune filosofia di un punto di vista diverso, ma la tua conclusione coincide con la mia?
Era improbabile nei dettagli, si disse. Ma sulla base di vasti principi, forse era possibile.
«Buonanotte, Stagno,» disse. «Sono lieto di averti finalmente incontrato. Spero che ci andrà bene a tutti e due.»
Risalì lentamente la riva rocciosa e si avviò per il sentiero, usando la torcia elettrica per ritrovare la strada.
Quando aggirò una curva, il raggio di luce inquadrò una figura bianca. Spostò la lampada. Era Elayne.
«Ti sono venuta incontro,» disse lei.
Horton le si avvicinò. «È stata una sciocchezza,» disse. «Potevi smarrirti.»
«Non me la sentivo di restare,» disse lei. «Dovevo cercarti. Ho paura. Sta per accadere qualcosa.»
«Ancora quel senso di consapevolezza?» chiese Horton. «Come quando abbiamo trovato l’essere racchiuso nel tempo?»
Elayne annuì. «Immagino di sì. Mi sento inquieta, nervosa. Come se stessi da qualche parte, in attesa di spiccare un balzo, ma senza sapere da che parte saltare.»
«Dopo quello che è successo prima,» disse lui, «sono disposto a crederti. À credere alla tua intuizione. Oppure è più forte di un’intuizione?»
«Non so,» disse Elayne. «È così forte da spaventarmi… disperatamente. Mi domando… passeresti la notte con me? Ho una coperta grande. Vuoi dividerla con me?»
«Ne sarei lieto ed onorato.»
«Non solo perché siamo una donna e un uomo,» disse lei. «Anche se, credo, c’entra anche questo. Ma perché siamo due esseri umani… i soli esseri umani. Abbiamo bisogno l’una dell’altro.»
«Sì,» disse lui. «È vero.»
«Tu avevi una donna. Hai detto che gli altri sono morti…»
«Helen,» disse Horton. «È morta da centinaia d’anni, ma per me è stato solo ieri.»
«Perché eri ibernato?»
«Sì. Il sonno cancella il tempo.»
«Se vuoi, puoi fingere che io sia Helen. Non mi dispiacerà.»
Horton la guardò. «Non fingerò,» disse.