26.

Stagno gridò di terrore.

Udendolo con i margini della sua mente, Horton si mosse nel tepore e nella vicinanza, l’intimità e la nudità, aggrappandosi alla presenza di un altro umano… una donna, ma l’umanità aveva importanza quanto la femminilità, perché in quel luogo erano i due unici umani.

Stagno gridò di nuovo, un’ondulazione stridula di allarme, che gli affondò nel cervello. Horton si levò a sedere sulla coperta.

«Che c’è, Carter Horton?» chiese insonnolita Elayne.

«È Stagno,» disse lui. «È successo qualcosa.»

Il primo rosseggiare dell’aurora saliva il cielo orientale, spargendo una mezza luce spettrale in cui spiccavano nebulosamente gli alberi e la casa di Shakespeare. Il fuoco si era ridotto a un mucchio di braci che ammiccavano con occhi rossosangue. Oltre il fuoco stava ritto Nicodemus, rivolto in direzione dello Stagno. Era eretto e rigido, all’erta.

«Ecco i tuoi calzoni,» disse Elayne. Horton tese la mano per prenderli.

«Cosa c’è, Nicodemus?» chiese.

«Qualcosa ha urlato,» disse il robot. «Non si udiva. Ma si percepiva l’urlo.»

Infilandosi i calzoni, Horton rabbrividì nel freddo dell’alba.

Il grido si ripeté, più disperato di prima.

«Guardate cosa sta arrivando dal sentiero,» disse Elayne, con voce tesa.

Horton si voltò a guardare e deglutì. Erano tre. Erano bianchi e lisci e sembravano lumache, erette, untuose e ripugnanti, come si possono trovare sotto una pietra rovesciata. Avanzavano rapidamente, balzellando sull’estremità inferiore affusolata. Non avevano piedi, ma sembrava che non ne avessero bisogno. Non avevano né braccia né volti… erano solo grasse lumache felici, che saltellavano rapidamente su per il sentiero che proveniva dal tunnel.

«Altri tre naufraghi,» disse Nicodemus. «Qui si sta formando una vera colonia. Come mai, secondo voi, ne arrivano tanti, attraverso quel tunnel?»

Carnivoro uscì incespicando dalla porta della Casa di Shakespeare. Si stirò e si grattò.

«Che diavolo sono, loro?» chiese.

«Non si sono presentati,» disse Nicodemus. «Sono appena comparsi.»

«Buffi, no?» fece Carnivoro. «Non hanno piedi. Saltellano.»

«Sta succedendo qualcosa,» disse Elayne. «Qualcosa di tremendo. L’ho sentito ieri sera, ricordatelo, che stava per accadere qualcosa.»

Le tre lumache avanzarono per il sentiero, senza badare a coloro che stavano intorno al fuoco, e quasi sfiorandoli li superarono, per prendere il sentiero che conduceva allo Stagno.

La luce ad oriente s’era ravvivata, e lontano, nella foresta, qualcosa emise un suono, come se qualcuno facesse strusciare un bastone lungo una staccionata.

Un altro grido di Stagno lacerò la mente di Horton. Si lanciò a corsa giù per il sentiero che portava alla conca, e il Carnivoro lo raggiunse, a grandi balzi.

«Vuoi rivelarmi,» chiese, «cos’è accaduto per causare eccitazione e tanto correre?»

«Stagno è nei guai.»

«E come può essere nei guai? Qualcuno gli tira sassi?»

«Non lo so,» disse Horton, «ma sta urlando disperatamente.»

Il sentiero s’incurvava, superando il costone. Sotto di loro stava lo Stagno, e più oltre la collina conica. Stava succedendo qualcosa alla collina. Si sollevava e si squarciava, e da essa si stava levando qualcosa di scuro, di orribile. Le tre lumache erano rannicchiate vicine vicine, sulla riva.

Carnivoro accelerò, scendendo a balzi rapidi il sentiero. Horton gli gridò: «Torna indietro, sciocco! Torna indietro, pazzo!»

«Horton, guarda!» gridò Elayne. «Non la collina. Sul dorsale della città.»

Uno degli edifici, vide Horton, si era frantumato, i muri erano crollati, e ne stava uscendo un essere che scintillava al sole mattutino.

«È il nostro essere nel tempo,» disse Elayne. «Quello che abbiamo trovato noi.»

Vedendolo nel blocco di tempo congelato, Horton non aveva potuto discernere la forma: ma adesso, liberato dalla sua prigione, appariva come uno splendore.

Le grandi ali si spiegavano, e la luce vi si rifrangeva in un arcobaleno, come se fossero fatte di innumerevoli, minuscoli prismi. La testa dal becco rapace era sorretta da un lungo collo: e sembrava, pensò Horton, che quella testa fosse coperta da un elmo incastonato di gemme. Lunghi artigli scintillanti si estendevano dalle zampe pesanti, e la coda era irta di spine aguzze e lucenti.

«Un drago,» disse Elayne, sottovoce. «Come i draghi delle vecchie leggende terrestri.»

«Forse,» disse Horton. «Nessuno sa cosa fossero i draghi, ammesso che esistessero.»

Ma il drago, se era un drago, era in difficoltà. Liberato dalla solida casa di pietra in cui era stato imprigionato, cercava di lanciarsi nell’aria, sbattendo goffamente le ali enormi per sollevarsi. Svolazzava goffamente, pensò Horton, quando avrebbe dovuto volteggiare nel cielo con ali forti e sicure, salendo la scalinata dell’aria, come un essere agile potrebbe correre gioiosamente su per una collina, esultando della potenza delle zampe, della capacità dei polmoni.

Ricordò Carnivoro che era sceso correndo lungo il sentiero, e girò la testa per vedere dove poteva essere. Non lo ritrovò subito, ma vide che la collina oltre lo Stagno era stata frantumata, spezzata, frammentata dall’essere che ne usciva. Grandi lastre e pezzi di collina rotolavano giù per i fianchi ripidi, ed ai suoi piedi si era accumulata una grande quantità di detriti, pietre e terriccio. La base, ancora intera, era segnata da crepe zigzaganti, simile a quelle che potrebbe causare un terremoto.

Ma sebbene egli vedesse tutto questo, ciò che incatenava la sua attenzione era l’essere che ne usciva.

Sgocciolava sozzura, e grandi scaglie di sudiciume se ne staccavano. La testa era un grumo, ed anche il resto… un enorme grumo che aveva una parvenza di umanoide, ma non lo era. Era un’orrida parodia dell’umanità che qualche stregone barbaro, sbavando veleno, avrebbe potuto foggiare con argilla e paglia e letame per raffigurare un nemico da torturare e da annientare… tozza, deforme, sghemba, ma con un’alone di malvagità, la malvagità perversa e bavosa presa a prestito da colui che l’aveva fatta, e ingigantita dall’inettitudine. Il male se ne irradiava come un vapore velenoso poteva levarsi da una palude putrescente.

Ormai la collina era quasi spianata, e mentre Horton osservava, affascinato, il mostro si liberò e spiccò un balzo in avanti, coprendo più di tre metri in un unico passo.

Horton abbassò la mano per cercare la pistola, e nello stesso istante ricordò che non l’aveva… era rimasta all’accampamento; aveva dimenticato di agganciarla alla cintura, ed imprecò contro se stesso per la dimenticanza, perché non c’era ombra di dubbio, una cosa maligna come l’essere uscito dalla collina non aveva il diritto di vivere.

Solo in quel momento vide Carnivoro.

«Carnivoro!» urlò.

Perché quel pazzo stava correndo verso l’essere, correva a quattro zampe per procedere più in fretta. Caricava a testa bassa, e dal punto in cui si trovava, Horton poteva vedere il guizzare agile dei muscoli poderosi.

Poi balzò verso il mostro, si arrampicò su quel corpo massiccio, trasportato dallo slancio della carica verso il collo tozzo che univa il grumo della testa al grumo che era il corpo.

«NO! NO!» stava gridando Nicodemus, dietro di lui. «Lascialo a Carnivoro.»

Horton si voltò di scatto e vide che Nicodemus stringeva con una zampa d’acciaio il polso della mano con cui Elayne impugnava la sua arma.

Poi girò di nuovo la testa, e vide Carnivoro avventare la testa di tigre in un colpo lacerante. Le zanne lucenti affondarono nella gola del mostro e la dilaniarono. Un fiotto di nerume scaturì dalla gola, coprendo il corpo di Carnivoro d’una sostanza scura che, per un istante, parve fonderlo con la massa del mostro. Una delle mani a clava si alzò, come per un riflesso istintivo, e si chiuse attorno a Carnivoro, staccandolo dal corpo, sollevandolo e scagliandolo via. Il mostro mosse un altro passo e cominciò a barcollare, crollando in avanti lentamente, come un albero all’ultimo colpo d’ascia, riluttante, sforzandosi fino all’ultimo di restare eretto.

Carnivoro era caduto sulla riva rocciosa dello Stagno e non si rialzava. Horton si precipitò correndo giù per il sentiero superando le tre lumache ancora accovacciate sulla sponda.

Carnivoro giaceva bocconi; inginocchiandoglisi accanto, Horton lo girò lentamente sulla schiena. Era inerte come un sacco. Gli occhi erano chiusi, e il sangue gli sgoragava dalle narici e dall’angolo della bocca. Il corpo era insozzato dalla viscida sostanza nera scaturita dalla gola squarciata del mostro. Dal petto sporgevano ossa scheggiate.

Nicodemus sopraggiunse al trotto e s’inginocchiò accanto ad Horton. «Come va?» chiese.

«È vivo,» disse Horton. «ma forse, non per molto. Non hai un transmog da chirurgo, nella tua serie?»

«Molto semplice,» disse il robot. «La conoscenza di malattie comuni, il modo per guarirle. Alcuni principi della medicina. Niente che possa rimediare una cassa toracica.»

«Non avresti dovuto trattenermi,» disse Elayne a Nicodemus, rabbiosamente. «Avrei potuto uccidere quel mostro prima che posasse una mano su Carnivoro.»

«Lei non capisce,» disse Nicodemus. «Per Carnivoro era necessario.»

«È assurdo,» disse lei.

«Vuol dire,» spiegò Horton, «che Carnivoro è un guerriero. È specializzato nell’uccisione dei mostri. Andava da un mondo all’altro in cerca delle specie più terribili. Una questione culturale. Otteneva una sorta di punteggio elevato, per questo. Stava per diventare il più grande uccisore tra il suo popolo. Questo, molto probabilmente, farà di lui il più grande uccisore di tutti i tempi. Gli assicurerà una specie d’immortalità culturale.»

«Ma a che serve?» chiese Elayne. «La sua gente non lo saprà mai.»

«Shakespeare aveva scritto qualcosa in proposito,» disse Nicodemus. «Aveva l’impressione che, chissà come, il suo popolo lo sapesse.»

Una delle lumache, balzellando delicatamente, venne ad acquattarsi di fronte a Horton, dall’altra parte del corpo giacente. Un tentacolo si estroflesse dal molle corpo polposo, e la punta tastò cautamente Carnivoro. Horton alzò gli occhi, per guardare in faccia la lumaca, senza ricordare che non aveva faccia. L’estremità superiore del corpo ricambiò il suo sguardo… lo ricambiò come se avesse gli occhi. Gli occhi non c’erano, ma c’era la sensazione di essere guardato. Horton provò un formicolio nel cervello, strano e fioco, come una debolissima corrente elettrica, un’impressione spiacevole e nauseante.

«Sta cercando di comunicare con noi,» disse Nicodemus. «Lo sentite anche voi?»

«Cosa vuoi?» chiese Horton alla lumaca. Quando parlò, il formicolio elettrico nel suo cervello ebbe una specie di sussulto — un riconoscimento? — e poi riprese. Non accadde altro.

«Credo sia inutile,» fece Nicodemus. «Sta cercando di dirci qualcosa, ma non è possibile. Non riesce a stabilire un contatto con noi.»

«Stagno poteva parlare con noi,» disse Horton. «Stagno ha parlato con me.»

Nicodemus scrollò le spalle, rassegnato. «Queste cose sono diverse. Una mente differente, un tipo di segnale differente.»

Carnivoro riaprì gli occhi.

«Sta rinvenendo,» disse Nicodemus. «Soffrirà. Torno al campo. Credo di avere una siringa…»

«No,» disse Carnivoro, con un filo di voce. «Niente ago nel deretano. Non sarà per molto. Il mostro è morto?»

«Morto,» disse Horton.

«Bene,» disse Carnivoro. «Gli ho tagliato la maledetta gola. Sono molto bravo a farlo. Sono molto bravo, con i mostri.»

«Dovrai metterti tranquillo,» disse Horton. «Fra un po’, cercheremo di muoverti, di riportarti all’accampamento.»

Carnivoro chiuse gli occhi, stancamente. «Niente accampamento,» disse. «Qui va bene.»

Tossì, soffocato da un nuovo fiotto di sangue che gli sgorgò dalla bocca e gli scorse sul petto.

«Che ne è stato del drago?» chiese Horton. «È ancora qui?»

«È caduto dall’altra parte dello Stagno,» disse Elayne. «Non andava. Non riusciva a volare. Ha cercato di volare ed è precipitato.»

«È rimasto troppo a lungo nel tempo,» disse Nicodemus.

La lumaca alzò il tentacolo e toccò la spalla di Horton per richiamare la sua attenzione. Indicò la riva dove giaceva il mostro, una massa nera sulla terra. Poi toccò tre volte Carnivoro e tre volte se stessa. Estroflesse un altro tentacolo, e con entrambi mimò il gesto di sollevare Carnivoro, di stringerlo a sé, di cullarlo con tenerezza.

«Sta cercando di dire grazie,» disse Nicodemus. «Di ringraziare Carnivoro.»

«Forse cerca di dirci che può aiutarlo,» disse Elayne.

Con gli occhi ancora chiusi, Carnivoro disse: «Non c’è niente che può aiutarmi. Lasciatemi qui. Non muovetemi fino a che sarò morto.»

Tossì ancora.

«E per gentilezza non ditemi che non sto per morire. Resterete con me fino alla fine?»

«Resteremo con te,» disse Elayne.

«Horton?»

«Sì, amico mio.»

«Se non succede questo, mi prendevate con voi? Non mi lasciate qui? Mi portavate via quando lasciavate il pianeta?»

«Ti avremmo portato con noi,» disse Horton.

Carnivoro richiuse gli occhi. «Lo sapevo,» disse. «Lo sapevo che mi portavate con voi.»

Ormai era giorno, e il sole era una spanna sopra l’orizzonte. I raggi obliqui si riflettevano sullo Stagno.

E ormai, pensò Horton, non aveva importanza che il tunnel fosse chiuso. Carnivoro non sarebbe più rimasto in quel luogo che odiava. Elayne sarebbe partita con la Nave, e non vi sarebbe stato bisogno di trattenersi ancora. Qualunque cosa doveva accadere sul pianeta, ormai era accaduta. E vorrei sapere, pensò Horton, magari non adesso, ma un giorno vorrei sapere cosa significa tutto questo.

«Carter, guarda!» disse Nicodemus con voce tesa e sommessa. «Il mostro…»

Horton rialzò di scatto la testa e guardò, reprimendo un conato di vomito. Il mostro, che giaceva a un centinaio di metri di distanza, si stava sciogliendo. Ricadeva su se stesso, in una poltiglia putrescente. Fremeva di una vita apparente mentre si afflosciava in una pozza fetida ed oscena, da cui scorrevano rigagnoli di sozzura fumigante.

Guardò, inorridito e affascinato, mentre quello si riduceva a una schiuma oleosa e nauseante, e gli passò per la mente il pensiero che ormai non avrebbe più potuto fissarsi nella memoria la forma che aveva avuto. L’unica impressione che aveva ricavato, nell’attimo prima che Carnivoro gli lacerasse la gola, era di un grumo massiccio e tortuoso che in realtà non aveva forma. Poteva darsi che il male fosse così, pensò… che non avesse forma. Era un grumo e una pozzanghera di sozzura, e non sapevi mai che cos’era, ed eri libero di immaginarlo, spinto dalla paura dell’ignoto ad attribuirgli l’aspetto che più ti sembrava orribile. E così il male poteva assumere tante forme quanti erano gli uomini… e il male di ogni uomo sarebbe stato un po’ diverso da quello di ogni altro.

«Horton.»

«Sì, Carnivoro, che c’è?»

La voce era bassa, rantolante, e Horton s’inginocchiò accanto a lui, chinandosi per poter udire.

«Quando è finita,» disse Carnivoro, «lasciatemi qui. Lasciatemi all’aperto, dove mi possono trovare.»

«Non capisco,» disse Horton. «Chi ti deve trovare?»

«I becchini. I pulitori. I piccoli animali affamati che ingeriscono di tutto. Insetti, uccelli, animaletti, vermi, batteri. Lo farai, Horton?»

«Certo che lo farò, se vuoi. Se lo vuoi davvero.»

«Una restituzione,» disse Carnivoro. «Una restituzione finale. Non devo negare la mia carne alle piccole cose affamate. Devo fare di me stesso un’offerta a molte altre vite. Una grande comunione finale.»

«Capisco,» disse Horton.

«Una comunione, una restituzione,» disse Carnivoro. «Queste sono cose importanti.»

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