Nicodemus svegliò Horton, scuotendolo. «Abbiamo una visita.»
Horton si raddrizzò nel sacco a pelo. Si soffregò gli occhi incrostati dal sonno per essere sicuro che non lo ingannassero. Una donna stava a qualche passo dal fuoco. Indossava un paio di calzoncini gialli e stivali bianchi che le arrivavano quasi al ginocchio. E nient’altro. Su un seno nudo aveva tatuata una rosa rossoscura. Era alta e snella come un ramo di salice. Alla vita aveva allacciata una cintura che reggeva una strana pistola. Su una spalla portava appeso uno zaino.
«È venuta dal sentiero,» disse Nicodemus.
Il sole non si era ancora levato, ma c’era già la prima luce dell’alba. Era un mattino umido, vaporoso, dolce.
«Sei venuta dal sentiero,» disse Horton, confuso, non ancora perfettamente sveglio. «Vuoi dire che sei arrivata dal tunnel?»
La donna batté le mani, soddisfatta. «Meraviglioso,» disse. «Anche tu parli la lingua antica. Che gioia trovarvi tutti e due. Avevo studiato la vostra lingua, ma finora non avevo mai avuto occasione di servirmene. Come sospettavo, adesso mi rendo conto che la pronuncia che ci hanno insegnato aveva perduto qualcosa, nel corso degli anni. Sono rimasta sbalordita, e felice, quando l’ha parlata il robot, ma non osavo sperare di trovare qualcun altro che la conoscesse.»
«È stranissimo, quello che dice,» fece Nicodemus. «Carnivoro parla la stessa lingua, e l’ha imparata da Shakespeare.»
«Shakespeare,» disse la donna. «Shakespeare era un antico…»
Nicodemus indicò il teschio con il pollice. «Le presento Shakespeare,» disse. «O quel che resta di lui.»
La donna guardò il teschio e batté di nuovo le mani. «Meravigliosamente barbarico!»
«Sì, non è vero?» fece Horton.
La donna aveva il viso scarno, quasi ossuto, ma dai lineamenti aristocratici. I capelli argentei erano pettinati all’indietro e annodati in una piccola crocchia alla nuca. Quella pettinatura poneva in risalto la magrezza del volto. Gli occhi erano d’un azzurro penetrante, le labbra sottili ed esangui, senza traccia di sorriso. Anche quando batteva le mani per la gioia, non c’era ombra di un sorriso. Horton si chiese se poteva sorridere.
«Viaggi in strana compagnia,» disse lei a Horton.
Horton si guardò intorno. Carnivoro stava uscendo dalla porta, e sembrava un letto sfatto. Si stirò, levando le braccia sopra la testa. Sbadigliò, mettendo in mostra tutto lo splendore delle zanne lucide.
«Preparerò la colazione,» disse Nicodemus. «Ha appetito, signora?»
«Una fame tremenda,» disse lei.
«Abbiamo carne,» disse Carnivoro, «sebbene non uccisa di fresco. Mi affretto a darti il benvenuto nel nostro piccolo accampamento. Io sono Carnivoro.»
«Ma un carnivoro è una cosa,» obiettò la donna. «Una classificazione. Non un nome.»
«È un carnivoro, e se ne vanta,» disse Horton. «E si chiama così.»
«Mi ha chiamato così Shakespeare,» disse Carnivoro. «Io ho un altro nome, ma non ha importanza.»
«Io mi chiamo Elayne,» disse la donna. «E sono lieta di conoscervi.»
«Io mi chiamo Horton. Carter Horton. Puoi chiamarmi con un nome o con l’altro, o con tutti e due.»
Uscì dal sacco a pelo e si alzò in piedi.
«Carnivoro ha detto ‘carne’,» fece Elayne. «Diceva sul serio?»
«Sicuro,» disse Horton.
Carnivoro si batté il petto. «La carne fa bene,» disse, «Dà sangue e ossa. E tono ai muscoli.»
La donna rabbrividì, delicatamente. «Avete solo la carne?»
«Potremmo combinare qualcosa d’altro,» disse Horton. «I viveri che avevamo con noi. Quasi tutti disidratati. Non hanno un sapore ideale.»
«Oh, al diavolo,» disse Elayne. «Mangerò la carne con voi. È solo il pregiudizio che mi ha impedito di assaggiarla in tutti questi anni.»
Nicodemus, che poco prima era entrato nella casa di Shakespeare, ne uscì, tenendo un coltello in una mano e nell’altra un grosso pezzo di carne. Ne tagliò una robusta fetta e la porse a Carnivoro. Carnivoro si accoccolò sui talloni e cominciò a dilaniarla, mentre il sangue gli scorreva sul muso.
Horton vide l’espressione d’orrore sul viso della donna. «La nostra la faremo cuocere,» disse. Andò a un mucchio di legna da ardere e sedette, indicando il posto accanto a lui. «Vieni a farmi compagnia,» aggiunse. «Nicodemus cucinerà. Ci vorrà un po’.» Poi, a Nicodemus: «La sua bistecca falla ben cotta. La mia al sangue.»
«Prima metterò a cuocere quella della signora,» disse Nicodemus.
Esitando, Elayne si avvicinò al mucchio di legna e sedette accanto a Horton.
«Questa,» disse, «è la situazione più. strana che abbia mai incontrato. Un uomo e il suo robot che parlano la lingua antica. Un carnivoro che la parla quasi altrettanto bene, e un teschio umano inchiodato sopra una porta. Voi due dovete provenire dai pianeti arretrati.»
«No,» disse Horton. «Veniamo direttamente dalla Terra.»
«Ma non è possibile,» disse Elayne. «Ormai nessuno viene più direttamente dalla Terra. E dubito che anche là non parlino più la lingua antica.»
«Ma noi sì. Abbiamo lasciato la Terra nell’anno…»
«Nessuno ha lasciato la Terra da più di un millennio,» disse Elayne. «La Terra, ormai, non ha una base per i lunghi viaggi. Senti, a che velocità andavate?»
«Quasi alla velocità della luce. Con qualche sosta qua e là.»
«E tu? Eri ibernato?»
«Certo. Ero ibernato.»
«Quasi alla velocità della luce,» disse lei. «È impossibile fare un calcolo. So che c’erano calcoli matematici primitivi, ma erano approssimazioni grossolane, e la razza umana non ha viaggiato alla velocità della luce per un periodo abbastanza lungo per determinare esattamente l’effetto della dilatazione del tempo. Furono lanciate solo poche navi interstellari che volavano alla velocità della luce, o un po’ meno, e ne sono ritornate pochissime. E prima che tornassero, erano stati scoperti sistemi migliori per viaggiare; nel frattempo, la Vecchia Terra era precipitata in una situazione economica catastrofica, e c’era la guerra… non un conflitto generale, ma molte piccole guerre. La civiltà terrestre andò virtualmente distrutta. La Vecchia Terra c’è ancora. La popolazione rimasta forse sta risalendo la china. Sembra che nessuno lo sappia, e per la verità non importa a nessuno. Nessuno torna mai alla Vecchia Terra. Mi accorgo che tu non sai niente di tutto questo.»
Horton scosse il capo. «Niente.»
«Quindi eri a bordo di una delle prime navi che volavano alla velocità della luce.»
«Una delle prime,» disse Horton. «Nel 2455. O giù di lì. Forse all’inizio del secolo ventesimosesto. Non lo so, esattamente. Ci ibernarono; poi ci fu un ritardo.»
«Vi misero in aspettativa.»
«Immagino che si possa dire così.»
«Noi non ne siamo assolutamente sicuri,» disse Elayne, «ma pensiamo che sia l’anno 4784. In realtà, non si può esserne certi. La storia si è confusa. La storia umana, cioè. Vi sono molte altre storie, oltre quella terrestre. Vi fu un periodo di confusione, un’epoca della corsa allo spazio. Quando ci fu un sistema ragionevole per andare nello spazio, nessuno di quelli che potevano permettersi di andare decise di restare sulla Terra. Non occorreva un grande acume analitico per capire cosa stava succedendo alla Terra. Nessuno voleva trovarsi nella morsa. Per moltissimi anni non vi furono troppe documentazioni. Quelle che esistevano forse erano errate; altre andarono perdute. Come puoi immaginare, la razza umana attraversò una crisi dopo l’altra. Non solo sulla Terra, ma anche nello spazio. Non tutte le colonie sopravvissero. Alcune ci riuscirono, ma poi per una ragione o per l’altra non poterono stabilire contatti con le altre, e furono considerate perdute. Alcune sono perdute tuttora… perdute o estinte. Gli umani si avventuravano nello spazio in tutte le direzioni… molti non avevano neppure un piano preciso, speravano che con l’andar del tempo avrebbero trovato un pianeta dove stabilirsi. Non si avventuravano soltanto nello spazio, ma anche nel tempo, e nessuno capiva i fattori temporali. Ancora oggi non li comprendiamo. In condizioni simili, era facile guadagnare o perdere un secolo o due, nel conteggio. Quindi non chiedermi di giurarti che anno è. E la storia. È anche peggio. Noi non abbiamo una storia: abbiamo leggende. Una parte delle leggende, probabilmente, è storia, ma non possiamo sapere che cosa sia storico e che cosa non lo è.»
«E sei venuta qui attraverso il tunnel?»
«Sì. Faccio parte d’una squadra che traccia le mappe dei tunnel.»
Horton guardò Nicodemus, che stava accosciato accanto al fuoco e sorvegliava la cottura delle bistecche. «Glielo hai detto?» chiese Horton.
«Non ne ho avuto la possibilità,» disse Nicodemus. «Non me ne ha data l’occasione. Era così emozionata nel sentirmi parlare quella che lei chiama la lingua antica.»
«Dirmi che cosa?» chiese Elayne.
«Il tunnel è chiuso. Non funziona.»
«Ma mi ha portata qui.»
«Ti ha portata qui. Non ti riporterà indietro. È guasto. Funziona in un’unica direzione.»
«Ma è impossibile. C’è il quadro dei comandi.»
«Lo so che c’è il quadro dei comandi,» le disse Nicodemus. «Ci sto lavorando. Cerco di ripararlo.»
«E come te la cavi?»
«Non troppo bene,» disse Nicodemus.
«Siamo prigionieri,» disse Carnivoro, «a meno che quel maledetto tunnel viene riparato.»
«Forse posso aiutarvi,» disse Elayne.
«Se puoi,» disse Carnivoro, «t’imploro di fare del tuo meglio. Avevo la speranza che, se il tunnel non viene riparato, potevo andare con la nave insieme a Horton e al robot, ma ci penso sopra e non mi sembra così. Quel sonno di cui parlate, quell’ibernazione mi spaventa. Non voglio essere congelato.»
«Ce ne siamo preoccupati,» gli disse Horton. «Nicodemus se ne intende, d’ibernazione. Ha un transmog da tecnico specialista. Ma lui sa solo ibernare gli umani. Tu potresti essere diverso, avere una chimica organica differente. E non possiamo accertare quale sia.»
«Dunque è escluso,» disse Carnivoro. «Dunque bisogna riparare il tunnel.»
Horton disse ad Elayne: «Non mi sembri troppo sconvolta.»
«Oh, credo di esserlo,» disse lei. «Ma la mia gente non lotta contro il destino. Accettiamo la vita come viene. Il bene e il male. Sappiamo che c’è un po’ dell’uno e un po’ dell’altro.»
Carnivoro, che aveva finito di mangiare, si alzò, soffregandosi con le mani il muso insanguinato. «Adesso io vado a caccia,» disse. «Porto a casa carne fresca.»
«Aspetta che abbiamo finito di mangiare,» propose Horton. «Verrò con te.»
«Meglio no,» disse Carnivoro. «Tu fai scappare la selvaggina.»
Si incamminò, e poi si voltò indietro. «Una cosa puoi farla,» disse. «Puoi buttare la carne vecchia nello stagno. Però tappati il naso.»
«Ce la farò,» disse Horton.
«Bene,» disse Carnivoro, e se ne andò, verso est, lungo il sentiero che portava al villaggio abbandonato.
«Dove l’hai trovato?» chiese Elayne. «E che cos’è, esattamente?»
«Ci stava aspettando quando siamo atterrati,» disse Horton. «Non sappiamo cosa sia. Ha detto di essere rimasto intrappolato qui, insieme a Shakespeare…»
«Shakespeare, a giudicare dal teschio, è umano.»
«Sì, ma di lui sappiamo poco più di quel che sappiamo di Carnivoro. Però forse riusciremo a scoprire qualcosa d’altro. Vedi, lui aveva portato con sé un volume delle opere complete di Shakespeare, e lo riempiva di annotazioni, scarabocchiando sui margini, in fondo ai testi, dovunque ci fosse spazio libero.»
«Hai letto un po’ di questi scarabocchi?»
«Un po’. Ma c’è ancora parecchio da leggere.»
«La carne è pronta,» disse Nicodemus. «C’è solo un servizio in argento… un piatto e le posate. Uno solo. Non ti dispiace, Carter, se lo dò alla signora?»
«Figurati,» disse Horton. «Mi arrangerò con le mani.»
«Bene, allora,» disse Nicodemus. «Io vado al tunnel.»
«Appena avrò mangiato,» disse Elayne, «verrò a vedere come te la cavi.»
«Mi farebbe un favore,» disse il robot. «Io non riesco a venirne a capo.»
«È abbastanza semplice,» disse Elayne. «Ci sono due quadri; uno è più piccolo. Il più piccolo controlla lo schermo del quadro più grande, il quadro dei comandi.»
«Non ci sono due quadri,» disse Nicodemus.
«Dovrebbero esserci.»
«Be’, non ci sono. C’è solo quello con lo schermo di forza.»
«E allora,» disse Elayne, «questo significa che non si tratta di un guasto. Qualcuno ha chiuso il tunnel.»
«Ci avevo pensato anch’io,» disse Horton. «Un mondo chiuso. Ma perché qualcuno dovrebbe averlo chiuso?»
«Spero,» disse Nicodemus, «che non lo scopriremo mai.» Prese la cassetta degli utensili e se ne andò.
«Oh, ma è buona!» esclamò Elayne. Si tolse il grasso dalle labbra. «La mia gente non mangia carne. Comunque, conosciamo popoli che lo fanno, e li abbiamo sempre disprezzati, ritenendolo un segno di barbarie.»
«Qui siamo tutti barbari,» disse Horton, in tono asciutto.
«Cos’era quella faccenda dell’ibernazione per il Carnivoro?»
«Carnìvoro odia questo pianeta. Vuole andarsene. Per questo desidera tanto che il tunnel venga aperto. Se il tunnel non si apre, vorrebbe partire con noi.»
«Partire con voi? Oh, sì, avete una nave. L’avete davvero?»
«L’abbiamo. Un po’ lontano da qui, sulla pianura.»
«Dov’è?»
«A pochi chilometri da qui.»
«Quindi ve ne andrete. Posso chiedere dove vi dirigerete?»
«Mi venga un accidente se lo so,» disse Horton. «È competenza di Nave. E Nave dice che non possiamo tornare alla Terra. Siamo lontani da troppo tempo, sembra. Nave dice che saremmo obsolescenti, se tornassimo. Che non ci vorrebbero, che saremmo causa d’imbarazzo per tutti. E a giudicare da quel che mi hai detto tu, penso che sia inutile tornare.»
«Nave,» disse Elayne. «Parli come se la nave fosse una persona.»
«Be’, in un certo senso lo è.»
«Ma è ridicolo. Posso capire che, dopo tanto tempo, provi per lei un sentimento d’affetto. Gli uomini hanno sempre personalizzato le loro macchine e gli utensili e le armi, ma…»
«Accidenti,» disse Horton, «non mi hai capito. La Nave è veramente una persona. Tre persone, anzi. Tre cervelli umani…»
Elayne lese una mano unta di grasso e gli afferrò il braccio. «Ripetilo,» disse. «Ripetilo, molto lentamente.»
«Tre cervelli,» disse Horton. «Tre cervelli di tre persone diverse. Collegati alla nave. La teoria era che…»
Elayne gli lasciò il braccio. «Dunque è vero,» disse. «Non era una leggenda. Quelle navi esistevano veramente.»
«Diavolo, sì. Erano abbastanza numerose. Non so quante.»
«Prima parlavo delle leggende,» disse lei. «Dell’impossibilità di distinguere tra leggenda e storia. Dell’impossibilità di essere sicuri. E questa era una delle leggende… navi che erano in parte umane, in parte macchine.»
«Non c’era niente di meraviglioso,» disse lui. «Oh, sì, forse lo era, per la verità. Ma si inquadrava nel nostro tipo di tecnologia… una fusione tra meccanico e biologico. Era nell’ambito del possibile. Nel clima tecnologico dei nostri tempi, era possibile.»
«Una leggenda divenuta realtà,» disse Elayne.
«Mi dà un’impressione strana, essere definito una leggenda.»
«Be’, non tu,» disse lei. «Ma l’intera storia. A noi sembrava inverosimile: una di quelle cose che non si possono credere.»
«Eppure hai detto che furono trovati sistemi migliori.»
«Sistemi diversi,» lo corresse Elayne. «Navi più veloci della luce, basate su principi differenti. Ma parlami di te. Non sei l’unico umano a bordo della nave, ovviamente. Non avrebbero mai lanciato una nave con un uomo solo.»
«C’erano altri tre, ma sono morti. Un incidente, mi è stato detto.»
«Ti è stato detto? Non lo sapevi?»
«Ero ibernato,» disse Horton.
«In tal caso, se non riuscissimo a riparare il tunnel, a bordo ci sarebbe posto.»
«Per te,» disse Horton. «E anche per Carnivoro, credo, se dovessimo scegliere, portarlo con noi o abbandonarlo qui. Comunque, debbo dirti che non ci sentiamo molto a nostro agio, con lui. E poi c’è il problema della chimica del suo organismo.»
«Non so,» disse Elayne. «Se non si potesse fare altro, credo che preferirei partire con voi, piuttosto di restare qui per sempre. Non mi sembra un pianeta affascinante.»
«Anch’io ho la stessa impressione,» disse Horton.
«Ma dovrei rinunciare al mio lavoro. Forse ti chiederai perché sono arrivata attraverso il tunnel.»
«Non ho avuto il tempo di chiedertelo. Tu hai parlato di mappe. Dopotutto, è affar tuo.»
Lei rise. «Non è un segreto. Non c’è niente di misterioso. Siamo un gruppo che sta preparando le mappe dei tunnel… o meglio, sta tentando di farlo.»
«Ma Carnivoro ci ha detto che sono randomizzati.»
«Perché non ne sa nulla. Probabilmente, moltissimi esseri non informati li usano, ed è logico che a loro sembrino randomizzati. Il robot ha detto che c’è un solo quadro, vero?»
«È esatto,» disse Horton. «Una sola scatola rettangolare. Sembrava un quadro di comando. Con una specie di copertura. Nicodemus pensa che sia uno schermo di forza.»
«Di solito ci sono due quadri,» disse Elayne. «Per scegliere la destinazione, devi attivare la prima scatola. Bisogna inserire tre dita in tre fori e premere i pulsanti d’attivazione. Così quello che tu chiami campo di forza scompare dal quadro della selezione. Poi premi il pulsante della destinazione. Stacchi le dita dalla prima scatola e sul quadro riappare lo schermo protettivo. Per arrivare al quadro delle selezioni, devi attivare la prima scatola. E quando hai scelto la destinazione, passi attraverso il tunnel.»
«Ma come fai a sapere dove vai? Ci sono simboli, sul quadro, che ti indicano quale pulsante premere?»
«Lì sta il trucco,» disse Elayne. «Non ci sono simboli delle destinazioni, e non sai dove stai andando. Immagino che i costruttori dei tunnel conoscessero un modo per sapere dove andavano. Dovevano avere un sistema che permetteva loro di scegliere la destinazione esatta: ma se è così, noi non l’abbiamo scoperto.»
«Allora voi premete i pulsanti alla cieca.»
«La nostra idea,» disse lei, «è che sebbene vi siano molti tunnel, e molte destinazioni per ogni tunnel, né gli uni né le altre possono essere infiniti. Se si viaggia per un tempo sufficiente, alla fine un tunnel dovrà riportarti in un posto dove sei già stato; e se annoti scrupolosamente il pulsante che hai premuto su ogni quadro di ogni tunnel che hai usato, e se si è in molti a farlo, e ciascuno lascia una comunicazione accanto ad ogni quadro prima di passare per un altro tunnel, in modo che quando un compagno passerà di lì… Non mi sono spiegata bene, ma puoi capire che, dopo molti tentativi, è possibile ricostruire, in qualche caso, il rapporto tra tunnel e quadro.»
Horton la guardò, dubbioso. «Mi sembra abbastanza improbabile. Finora, sei mai tornata in un posto dov’eri già stata?»
«Non ancora,» disse lei.
«In quanti siete? Nella tua squadra, voglio dire.»
«Non so bene. Continuano ad aggiungersi nuovi membri. È una cosa patriottica. Nella misura in cui, naturalmente, noi siamo patriottici. Sono sicura che la parola non ha più il significato di un tempo.»
«E come fai pervenire le informazioni alla base? Al quartier generale? A quelli cui devi inviarle, insomma? Cioè, se riesci a trovare qualche informazione.»
«Mi sembra che tu non abbia capito,» disse Elayne. «Alcuni di noi, forse molti… non tornano mai indietro, con o senza informazioni. Quando abbiamo accettato l’incarico, sapevamo di essere sacrificabili.»
«Parli come se non t’importasse molto.»
«Oh, ci importa, certo. Almeno a me. Ma è un lavoro fondamentale. Non capisci? È un onore, venire autorizzati a partecipare alla ricerca. Non può andare il primo che capita. Vi sono requisiti che è necessario possedere, per venire accettati.»
«Per esempio, non preoccuparsi di tornare indietro.»
«No,» disse Elayne. «Ma un senso del valore personale abbastanza forte da farti resistere dovunque, in qualunque situazione possa venire a trovarti. Non aver bisogno di essere in patria per essere te stesso. Essere autosufficienti. Non dipendere da un ambiente o da un rapporto specifico. Capisci?»
«Credo di cominciare a capire.»
«Se riuscissimo a realizzare una mappa dei tunnel, se potessimo accertare le relazioni che li collegano, si potrebbero usare in modo intelligente, senza bisogno di entrarvi alla cieca, come dobbiamo fare adesso.»
«Ma Carnivoro se ne è servito. E anche Shakespeare. Tu hai detto che si deve scegliere una destinazione, anche se non si sa quale sia.»
«Si possono usare i tunnel anche senza selezionare la destinazione. Ad eccezione del tunnel di questo pianeta, puoi semplicemente entrarvi, e andare dove ti portano. In questo caso, i tunnel sono veramente randomizzati. Secondo la nostra ipotesi, se non viene scelta una destinazione, vi è una casualità calcolata, prestabilita, in un certo senso. Tre individui, o magari anche cento, che usano un tunnel in questo modo, non arriveranno mai alla stessa destinazione. Noi riteniamo che fosse un sistema voluto, per scoraggiare l’uso dei tunnel da parte di individui non autorizzati.»
«E i loro costruttori?»
Elayne scosse il capo. «Nessuno ne sa niente. Né chi fossero, né da dove venissero, né come sono costruiti i tunnel. Non c’è nessuna indicazione dei principi basilari. Alcuni pensano che i costruttori esistano ancora, in qualche parte della galassia, e che una parte dei tunnel sia ancora in uso. Forse quelle che conosciamo noi sono soltanto porzioni abbandonate di un antico sistema di trasporto divenuti inutile. Come una strada abbandonata, che non viene più usata perché conduce in luoghi dove nessuno vuole più andare, dove non c’è più ragione di andare.»
«E niente indica che tipi di esseri fossero i costruttori?»
«Qualche indizio c’è,» disse lei. «Sappiamo che dovevano avere appendici simili a mani, con almeno tre dita, o comunque organi manipolatori equivalenti ad almeno tre dita. Sono necessari per azionare i quadri.»
«Nient’altro?»
«Qua e là,» disse Elayne, «ho trovato raffigurazioni. Dipinti, sculture, incisioni. Dentro vecchi edifici, sui muri, sul vasellame. Raffigurano molte specie di esseri viventi, ma si direbbe che una sia sempre presente.»
«Aspetta un momento,» disse Horton. Si alzò dal mucchio di legna ed entrò nella casa di Shakespeare, ne uscì portando la bottiglia che aveva trovato il giorno prima. Gliela porse.
«Come questa?» chiese.
Elayne fece girare lentamente la bottiglia, poi posò un dito su una figura. «È questa,» disse.
Aveva posato l’indice sull’essere che stava dentro il barattolo. «L’esecuzione è mediocre,» disse. «E l’angolazione è diversa. In altre raffigurazioni, il corpo si vede meglio, con più particolari. I cosi che spuntano dalla testa…»
«Somigliano alle antenne che i terrestri, anticamente, usavano per captare le trasmissioni televisive,» disse Horton. «Oppure potrebbero rappresentare una corona.»
«Sono antenne,» disse Elayne. «Antenne biologiche, ne sono sicura. Forse organi dei sensi. La testa, qui, sempre solo un grumo. Non ho mai visto altro. Niente occhi, né orecchie, né bocca o naso. Forse non he hanno bisogno. Forse le antenne forniscono tutti i dati sensoriali necessari. Può darsi che le teste siano soltanto grumi, supporti per le antenne. E la coda. Qui non si vede, ma la coda è ispida. Il resto del corpo, almeno da quanto ho potuto dedurre dalle altre raffigurazioni che ho visto, è sempre vago… una specie di corpo generalizzato. Naturalmente, non possiamo essere sicuri che abbiano proprio questq aspetto. Può darsi che sia solo una rappresentazione simbolica.»
«L’esecuzione artistica è mediocre,» disse Horton. «Rozza e primitiva. Tu non penseresti che un popolo capace di costruire i tunnel avrebbe dovuto lasciare immagini migliori di se stesso?»
«L’ho pensato anch’io,» disse Elayne. «Forse non furono i costruttori dei tunnel ad eseguire queste immagini. Forse non hanno neppure senso artistico. Forse queste opere d’arte sono state eseguite da altri popoli, magari inferiori, che hanno attinto non da una conoscenza diretta, ma dal mito. Forse il mito dei costruttori dei tunnel sopravvive in gran parte della galassia, condiviso da molti popoli diversi, da molte, diverse memorie razziali che hanno resistito nei secoli.»