«C’è qualcosa che non va,» disse Elayne. «Qualcosa fuori posto. No, forse non si tratta di questo. Ma c’è un qualcosa che non abbiamo scoperto. Qui c’è una situazione che attende… forse non noi, ma attende.»
Era tesa, quasi irrigidita, e Horton ricordò il vecchio setter con cui, qualche volta, era andato a caccia di quaglie. Un senso di attesa, sapere e non sapere, alzarsi in punta di piedi con acuta consapevolezza.
Aspettò e finalmente, con uno sforzo, lei si rilassò.
Elayne lo guardò con occhi imploranti, supplicandolo di crederle. «Non ridere di me,» disse. «Io so che c’è qualcosa, qui… qualcosa di straordinario. Non so cosa.»
«Non rido di te,» disse Horton. «Ti credo sulla parola. Ma come…»
«Non so,» disse lei. «Una volta, in una situazione simile, avrei diffidato di me stessa. Ma adesso no. È già accaduto molte volte. È quasi una certezza. Una premonizione.»
«Tu pensi che potrebbe essere pericoloso.»
«Non c’è modo di saperlo,» disse Elayne. «Solo quel senso di qualcosa.»
«Finora non abbiamo trovato nulla,» disse Horton: ed era vero. Nei tre edifici che avevano esplorato non c’era altro che la polvere, i mobili corrosi, le ceramiche ed i vetri. Per un archeologo, avrebbero potuto avere un significato, si disse Horton: ma per loro due era soltanto una vecchiaia, muffita, polverosa, ripetitiva, nel contempo futile e deprimente. Chissà quando, nel lontano passato, lì erano vissuti esseri intelligenti: ma ai suoi occhi inesperti, niente indicava lo scopo della loro presenza lì.
«Ci ho pensato spesso,» disse Elayne. «Perché non sono l’unica ad averlo. Ve ne sono altri. Una facoltà nuova, un istinto acquisito… impossibile dirlo. Quando gli uomini andarono nello spazio ed atterrarono su altri pianeti, furono costretti ad adattarsi — come diresti? — all’inverosimile, forse. Dovettero sviluppare nuove tecniche di sopravvivenza, nuove abitudini di pensiero, nuove intuizioni e nuovi sensi. Forse è questo che noi abbiamo: un senso nuovo, una nuova coscienza. I pionieri della Terra, quando si spinsero in aree sconosciute, svilupparono qualcosa del genere. E forse l’aveva anche l’uomo primitivo. Ma sulla vecchia Terra, assestata e civile, venne un tempo in cui non ce ne fu più bisogno, e andò perduto. In un ambiente civile vi sono poche sorprese. Si sa abbastanza bene quello che ci si può aspettare. Ma quando andò alle stelle, l’uomo riscoprì il bisogno della vecchia coscienza.»
«Non guardare me,» disse Horton. «Io sono uno di coloro che appartenevano a quella che tu chiami la Terra civile.»
«Era civile?»
«Perché ti possa rispondere, devi definire il termine. Che cos’è civile?»
«Non saprei,» disse Elayne. «Non ho mai visto un mondo completamente civile, nel senso in cui lo era la Terra. O almeno, credo di non averlo visto. Di questi tempi n’on si può mai essere sicuri. Tu ed io, Carter Horton, veniamo da epoche diverse. Forse vi saranno momenti in cui dovremo avere molta pazienza l’una con l’altro.»
«Parli come se avessi visto molti mondi.»
«Li ho visti,» disse lei. «Con questo lavoro di rilevamento. Arrivi in un posto, resti un giorno o due… be’, magari di più, ma non a lungo. Solo quanto basta per fare qualche osservazione, buttar giù qualche appunto, farti un’idea di che tipo di mondo è. In modo da poterlo riconoscere, capisci, se per caso ci ritorni. Perché è importante sapere se il sistema dei tunnel ti riporta in un luogo dove sei già stato. In certi posti vorresti fermarti per qualche tempo. Di tanto in tanto, trovi un posto veramente piacevole. Ma sono pochi. Quasi sempre, sei ben contento di andartene.»
«Dimmi una cosa,» fece Horton, «Mi stavo chiedendo… Tu stai partecipando a questa spedizione ricognitiva. Tu la chiami così. A me sembra una caccia alle farfalle. Non puoi avere più di una probabilità su un milione, eppure…»
«Ti ho detto che ci sono anche gli altri.»
«Ma anche se foste un milione, uno solo di voi avrebbe la probabilità di ritornare ad un mondo che è stato visitato prima. E sarebbe tempo sprecato, se uno solo trovasse la via del ritorno. Dovreste essere in parecchi a riuscire, prima che vi fosse la probabilità statistica di realizzare la mappa dei tunnel, o almeno di cominciare a realizzarla.»
Elayne lo fissò freddamente. «Dal luogo da cui provieni, di certo, avrai sentito parlare della fede.»
«Certo che ho sentito parlare della fede. Fede in se stessi, nel proprio paese, nella propria religione. E questo che c’entra?»
«La fede è spesso tutto ciò che uno possiede.»
«La fede,» disse lui, «è pensare che sìa possibile qualcosa quando sei ben sicura che non lo è.»
«Perché sei così cinico?» chiese lei. «Così miope? Così materialista?»
«Non sono cinico,» disse Horton. «Ma tengo conto delle probabilità. E non eravamo miopi. Fummo noi, ricordalo, i primi ad andare alle stelle; e ci andammo, ci convincemmo ad andare, grazie al materialismo che tu hai l’aria di disprezzare tanto.»
«È vero,» riconobbe Elayne. «ma non è di questo che sto parlando. La Terra era una cosa; le stelle un’altra. Quando vai tra le stelle, i valori cambiano, i punti di vista si modificano. C’è un’antica frase… ‘è un altro gioco’. Sai dirmi cosa significa?»
«Immagino alluda a un evento sportivo.»
«Vuoi dire quegli sciocchi esercizi che si eseguivano un tempo sulla Terra?»
«Non li eseguite più? Non ci sono più sport?»
«C’è troppo da fare, troppo da imparare. Non abbiamo più bisogno di cercare divertimenti artificiali. Non ne abbiamo il tempo e, anche se lo avessimo, non interesserebbero a nessuno.»
Elayne indicò un edificio semisepolto da cespugli ed alberi. «Credo sia quello,» disse.
«Quello?»
«Quello dov’è la stranezza. La cosa strana di cui ti ho parlato.»
«Dobbiamo andare a vedere?»
«Non so bene,» disse lei. «Per dirti la verità, ho un po’ paura. Di quel che potremmo trovare, capisci?»
«Non ne hai idea? Dici di percepire questo qualcosa. La tua percezione arriva almeno a darti qualche accenno?»
Elayne scosse il capo. «Solo che è strano. Qualcosa di straordinario. Forse spaventoso, anche se non provo un vero spavento. Solo un’agitazione della mente, la paura dell’insolito, dell’inaspettato. Solo quel terribile senso di stranezza.»
«Sarà faticoso entrare,» disse Horton. «La vegetazione è molto fitta. Dovrei tornare all’accampamento a prendere un machete. Mi pare che l’abbiamo portato.»
«Non è necessario,» disse Elayne. Estrasse l’arma dalla fondina che portava alla cintura.
«Questo brucerà la vegetazione e aprirà un passaggio,» disse. Era un’arma più grossa di quanto apparisse nella fondina, con la canna ad ago, un po’ ingombrante.
Horton la guardò. «Un laser?»
«Credo. Non lo so. Non è solo un’arma, ma anche un utensile. Sul mio pianeta d’origine, è normale. Lo portano tutti. Si può regolare, vedi…» Gli mostrò il quadrante inserito nell’impugnatura. «Un filo tagliente, un effetto a ventaglio, quello che vuoi. Ma perché me lo domandi? Ne hai uno anche tu.»
«È diverso,» disse Horton. «Un’arma piuttosto rozza, ma efficiente, se si sa come usarla. Lancia un proiettile. Una pallottola. Calibro quarantacinque. È un’arma, non un utensile.»
Elayne aggrottò la fronte. «Ho sentito parlare del principio,» disse. «Un concetto molto antico.»
«Può darsi,» disse Horton, «ma era il meglio, al tempo in cui lasciai la Terra. Nelle mani di un uomo che sa farla funzionare, è precisa e mortale. Alta velocità, enorme potenza di arresto. Attivata a polvere… nitrato, credo, forse cordite. Non ne conosco bene la chimica.»
«Ma la polvere… ma nessun composto avrebbe potuto durare per tutti gli anni che hai passato a bordo della nave. Con il tempo si sarebbe decomposto.»
Horton le lanciò un’occhiata sbigottita, sorpreso di scoprire che lei sapesse tante cose. «Non ci avevo pensato,» disse. «Ma è vero. Il convertitore di materia, naturalmente…»
«Hai un convertitore di materia?»
«Nicodemus mi ha detto di sì. In realtà non l’ho visto. Non ne ho mai visto uno, per dire la verità. I convertitori di materia non esistevano, quando venni ibernato. Vennero realizzati più tardi.»
«Un’altra leggenda,» disse Elayne. «Un’arte perduta…»
«Per niente,» disse Horton. «Tecnologia.»
Lei scrollò le spalle. «Qualunque cosa sia… è perduta. Noi non abbiamo convertitori di materia. Come ho detto, un’altra leggenda.»
«Bene,» disse Horton, «andiamo a vedere cos’è quella tua stranezza, oppure…»
«Andiamo a vedere,» disse Elayne. «Lo regolerò alla potenza minima.»
Spianò l’utensile, ed una foschia celeste se ne irradiò. Il sottobosco si dileguò con uno sbuffo ed un bizzarro mormorio, la polvere fluttuò nell’aria.
«Attenta,» ammonì Horton.
«Non preoccuparti,» rispose Elayne, con voce tagliente. «So adoperarlo.»
Ed era evidente. Aprì un sentiero, stretto e regolare, aggirando un albero. «È inutile bruciarlo. Sarebbe uno spreco.»
«La senti ancora?» chiese Horton. «La stranezza. Riesci a capire cos’è?»
«C’è ancora,» disse lei. «Ma non ho idea di cosa sia, come non l’avevo prima.»
Rinfoderò la pistola; e Horton, accendendo la torcia elettrica, la precedette nell’edificio.
L’interno era buio e polveroso. Lungo i muri c’erano mobili semisgretolati. Un animaletto lanciò uno squittio di terrore e attraversò correndo la stanza, un guizzo di movimento nell’oscurità.
«Un topo,» disse Horton.
Imperturbata, Elayne disse: «Probabilmente non era un topo. I topi appartengono alla Terra, o almeno così dicono le vecchie filastrocche. Ce n’è una che dice ‘Topolino, topolino, cosa fai di buon mattino?’»
«Allora le filastrocche per bambini sono sopravvissute?»
«Alcune sì,» disse lei. «Non tutte, credo.»
Si trovarono davanti ad una porta chiusa, e Horton tese una mano, la spinse. La porta crollò, sfasciandosi sulla soglia.
Horton alzò la torcia, proiettando il raggio nell’altra stanza. E la stanza sfolgorò, un bagliore di luce dorata venne ributtato loro in faccia. Indietreggiarono vacillando di un passo, e Horton abbassò la lampada. Cautamente la rialzò e questa volta, nel bagliore della luce riflessa, videro che cosa l’aveva causata. Al centro della stanza che riempiva quasi completamente, c’era un cubo.
Horton abbassò la torcia elettrica per ridurre il riflesso, e muovendosi lentamente entrò nella stanza.
La luce della lampada, non più riflessa dal cubo, pareva venirne assorbita, risucchiata e irradiata nel suo interno, così che il cubo pareva luminoso.
Nella luce stava sospeso un essere. Un essere… era l’unica descrizione che poteva venire in mente. Era enorme: riempiva quasi il cubo, ed il corpo si estendeva oltre la loro visuale. Per un momento, vi fu un senso di massa, ma non una massa qualunque. C’era un senso di vita, un flusso che istintivamente annunciava che si trattava di una massa viva. Quella che pareva una testa era reclinata contro quello che poteva essere il petto. E il corpo… ma era un corpo? Era coperto da una complessa filigrana di incisioni. Come un’armatura, pensò Horton… come un esemplare costoso dell’arte orafa.
Al suo fianco, Elayne si lasciò sfuggire un grido soffocato di sbalordimento. «È bellissimo,» disse.
Horton si sentiva impietrito, in parte per lo stupore, in parte per la paura. «Ha una testa,» disse. «Quella maledetta cosa è viva.»
«Non si è mossa,» disse lei. «E si sarebbe mossa. Al primo tocco della luce, si sarebbe mossa.»
«Dorme,» disse Horton.
«Non credo che dorma,» ribatté Elayne.
«Deve essere viva,» disse lui. «Tu l’avevi sentita. Deve essere questa, la stranezza che sentivi. Non hai ancora idea di cosa sia?»
«No,» disse Elayne. «Non ho mai sentito parlare di niente di simile. Niente leggende. Niente storie antiche. Niente di niente. E così bella. Orribile, ma bellissima. Tutti quei disegni fini, intricati. È qualcosa che porta addosso… no, adesso vedo che non è un indumento. Le incisioni sono sulle scaglie.»
Horton cercò di seguire il contorno del corpo, ma senza riuscirvi mai. Cominciava bene, lo seguiva per un po’, e poi il contorno spariva, svaniva e si dissolveva nella foschia dorata che aleggiava nel cubo, e si perdeva nelle circonvoluzioni della forma.
Avanzò di un passo per vedere meglio e venne fermato… fermato da nulla. Non c’era nulla che lo fermasse; era come se avesse urtato un muro che non poteva vedere né toccare. No, non un muro, pensò. La sua mente cercò frenetica una similitudine capace di esprimere quello che era accaduto. Ma sembrava non ne esistessero, di similitudini, perché ciò che l’aveva fermato era un niente. Alzò la mano libera, la mosse a tentoni, in avanti. La mano non trovò nulla, ma venne arrestata. Non era una sensazione fisica, qualcosa che potesse sentire o percepire. Era, pensò, come se avesse incontrato la fine della realtà, come se avesse raggiunto un luogo oltre il quale non si poteva procedere. Come se qualcuno avesse tracciato una linea e avesse sentenziato che il mondo finiva lì, che oltre non c’era nulla. Ma se questo era vero, pensò Horton, allora c’era qualcosa che non andava, perché lui poteva vedere oltre la realtà.
«Non c’è niente,» disse Elayne. «Ma deve esserci qualcosa. Possiamo vedere il cubo e l’essere.»
Horton arretrò di un passo e, in quel momento, lo splendore dorato del cubo parve dilagare ed avvolgerli entrambi, facendoli divenire una parte dell’essere e del cubo. In quella nebulosità aurea, il mondo parve dileguarsi, e per il momento rimasero soli, separati dal tempo e dallo spazio.
Elayne gli stava vicina e, abbassando lo sguardo, Horton vide la rosa tatuata sul suo seno. Tese la mano e la toccò.
«Bellissima,» disse.
«Grazie,» disse lei.
«Non ti dispiace che l’abbia notata?»
Lei scosse il capo. «Cominciavo a sentirmi delusa perché non l’avevi notata. Avresti dovuto capire che è lì per attirare l’attenzione. La rosa ha la funzione di punto focale.»