Per un momento, Horton venne scagliato nell’universo, con lo stesso senso nauseante d’infinito che aveva già provato: poi i frammenti dispersi si ricomposero e l’universo si restrinse, e la sensazione di estraneità cessò. C’erano di nuovo il tempo e lo spazio coordinati, nettamente, ed egli sapeva dov’era: tuttavia gli pareva di essersi sdoppiato, sebbene quella duplicità sembrasse non fastidiosa, persino naturale.
Si accovacciò sul grasso terriccio nero e tepido, tra due filari di piante. Davanti a lui, i filari continuavano, due linee verdi con una striscia nera in mezzo. A sinistra e a destra, c’erano innumerevoli altre linee verdi parallele, inframmezzate da strisce nere… ma le strisce nere doveva immaginarle, perché le linee verdi si fondevano e, da entrambi i lati, c’era soltanto uno scuro tappeto verde.
Accovacciato, con il tepore del suolo sotto i piedi nudi, girò la testa e dietro di lui il tappeto verde finiva, molto lontano, ai piedi d’una struttura torreggiante, così alta che la cima si perdeva in una bianca nube fioccosa, contro lo sfondo azzurro del cielo.
Tese le sue mani di bambino e raccolse i fagioli che pendevano, pesanti, dalle piante, usando la sinistra per scostare i rametti, per arrivare ai baccelli aggrovigliati nel fogliame, cogliendoli con la destra e lasciandoli cadere in un cesto semipieno posato sulla striscia di terra nera, proprio davanti a lui.
Poi vide ciò che prima non aveva notato: a intervalli regolari, tra i filari, più avanti, attendevano altri cesti vuoti, in attesa di essere riempiti, piazzati lì in base ad un calcolo approssimativo che stabiliva quando un cesto sarebbe stato pieno, e ne sarebbe divenuto necessario un altro. E dietro di lui c’erano altri canestri, già riempiti, in attesa del veicolo che più tardi sarebbe passato tra i filari a ritirarli.
C’era qualcosa d’altro che prima non aveva osservato: non era solo, nel campo, ma c’erano molti altri con lui, quasi tutti bambini, sebbene vi fossero anche vecchi, uomini e donne. Alcuni erano più avanti di lui, perché erano raccoglitori più svelti, o forse meno scrupolosi, e altri erano più indietro.
Le nubi screziavano il cielo, pigre nubi lanose, ma in quel momento nessuna copriva il sole, e il sole brillava con un calore ardente che lui sentiva attraverso la camicia sottile. Strisciava lungo il filare, raccogliendo, coscienziosamente, lasciando i baccelli più piccoli a maturare per un altro paio di giorni, e spiccando tutti gli altri… con il sole che gli batteva sulla schiena, il sudore che sgorgava dalle ascelle e scorreva giù per le costole, e sotto i piedi la morbidezza e il tepore del suolo ben coltivato. La sua mente era sul neutro, aggrappata al presente, non avanzava né arretrava nel tempo, contenta del momento attuale, come se lui fosse un organismo semplice che assorbiva il calore e, in qualche strano modo, traesse nutrimento dal suolo, come lo avevano tratto i fagioli che raccoglieva.
Ma c’era qualcosa di più. C’era il ragazzino, che aveva nove o dieci anni, e c’era anche il Carter Horton attuale, una seconda persona apparentemente invisibile, che si teneva in disparte, od era situata altrove, ed osservava il ragazzino che era stato un tempo, e sentiva e pensava e provava ciò che aveva conosciuto un tempo, quasi fosse quel bambino. Ma sapeva più del bambino, sapeva ciò che quello non poteva neppure immaginare, poiché era conscio degli anni e degli eventi che stavano tra quell’ampio campo di fagioli e un tempo lontano nello spazio mille anni-luce. Sapeva, come il ragazzino non poteva sapere, che uomini e donne, nel grande edificio lontano in fondo al campo, e in molte altre strutture simili sparse nel mondo, avevano riconosciuto i semi di un’altra crisi e già allora preparavano la soluzione.
Strano, pensò, che pur avendo una seconda occasione, la razza umana dovesse comunque precipitare verso le crisi e rendersi conto finalmente che l’unica soluzione stava in altri possibili pianeti di altri ipotetici sistemi solari, dove gli uomini avrebbero potuto partire di nuovo da zero, e alcuni tentativi sarebbero falliti, alcuni, forse, sarebbero riusciti.
Meno di cinque secoli prima di quel mattino nel campo di fagioli, la Terra si era bloccata, non in una guerra, ma in un collasso economico mondiale. Quando il sistema del profitto e della libera iniziativa s’era sfasciato per le crepe già apparse all’inizio del ventesimo secolo, e una larga parte delle risorse fondamentali era stata ormai consumata, e la popolazione aumentava, e l’industria introduceva sempre nuove macchine che permettevano di fare a meno della mano d’opera, e le scorte di viveri non bastavano più a nutrire gli abitanti del mondo… erano venute la carestia, la disoccupazione, l’inflazione, e la mancanza di fiducia nel governo del mondo. Il governo era scomparso; l’industria, le comunicazioni e il commercio si erano arrestati e, per diverso tempo, c’erano stati l’anarchia ed il caos.
Da quell’anarchia era nato un altro modo di vivere, realizzato, non dai politici e dagli statisti, ma dagli economisti e dai sociologi. Dopo pochi secoli, però, quella società nuova aveva presentato i sintomi che avevano indotto gli scienziati a chiudersi nei laboratori, gli ingegneri ad impegnarsi ai tavoli da disegno per progettare le astronavi destinate a trapiantare la razza umana nello spazio. I sintomi non erano stati interpretati erroneamente, si disse il secondo Horton, l’Horton invisibile, perché proprio quel giorno (che giorno? quello o un altro?) Elayne gli aveva detto dello sfacelo finale del modo di vita che i sociologi e gli economisti avevano costruito con tanta meticolosità.
La Terra era troppo malata, pensò, troppo svilita, troppo sfruttata, troppo contaminata dagli errori dell’umanità, per poter sopravvivere.
Sentiva il suolo tra le dita dei piedi, e il lieve soffio di brezza che spirava sul campo e gli investiva la schiena intrisa di sudore e riscaldata dal sole. Lasciò cadere nel cesto la manciata di fagioli che aveva colto, e lo spinse avanti, aggobbendosi lungo il filare per raggiungere altre piante, e sembrava che quel filare non finisse mai. Il cesto, vide, era quasi pieno. Poco più avanti ce n’era uno vuoto.
Cominciava a sentirsi stanco. Guardò il sole e vide che mancava un’ora e più a mezzogiorno, quando sarebbe venuto il carro-cucina. Mezz’ora per il pranzo, pensò, e poi avrebbe ripreso la raccolta fino al calar del sole. Tese le dita della mano destra, flettendole per liberarle dai crampi e dalla stanchezza. E vide che aveva le dita macchiate di verde.
Era stanco e accaldato e cominciava ad avere fame, e la giornata era ancora lunga, ma doveva continuare la raccolta, come centinaia d’altri, i giovanissimi ed i vecchi, impegnati nei lavori che erano in grado di fare, lasciando disponibili per altri compiti i lavoratori più esperti e capaci. Si accosciò e guardò quel verde. Non soltanto i fagioli, ma molte altre colture stagionali, producono quello che, al momento giusto, deve essere raccolto per nutrire la gente della torre.
Nutrire la gente della torre, pensò Horton (l’invisibile, incorporeo Horton), nutrire la tribù, il clan, la comunità. La mia gente. La Nostra Gente. Uno per tutti e tutti per uno. La torre altissima, slanciata fin oltre le nubi, in modo che occupi poco spazio alla base, una città perpendicolare in modo che resti il terreno da coltivare, per sfamare gli abitanti. Gente affollata in una torre perché la torre, sebbene enorme, deve essere la più piccola possibile.
Usa con cura. Fai durare le cose. Impara a rinunciare. Coltiva e raccogli il cibo, con fatica, perché c’è poco carburate. Mangia carboidrati perché per ottenerli occorre meno energia che per produrre le proteine. Costruisci e fabbrica per la durata, non per l’obsolescenza; ora che il sistema del profitto non esiste più, l’obsolescenza è divenuta non soltanto criminosa, ma anche ridicola.
Poiché l’industria non c’era più, pensò, coltivavamo da soli il nostro cibo, ci lavavamo la nostra roba. Tiravamo avanti… tiravamo avanti. Eravamo tornati ai modelli tribali, vivendo in un monolito anziché in un gruppo di rozze capanne. Disprezzavamo i tempi andati, il sistema del profitto, l’etica del lavoro, l’iniziativa privata, e intanto c’era in noi un malessere… il malessere dell’umanità. Per quanto ci sforzassimo, si disse, c’era un malessere in noi. Forse la razza umana non può vivere in armonia con l’ambiente? Per sopravvivere, ogni dato numero di millenni deve avere pianeti nuovi da violentare? Siamo condannati a muoverci come uno sciame di locuste attraverso la galassia, attraverso l’universo? La galassia, il cosmo, sono destinati a subirci? Oppure verrà il giorno in cui l’universo si ribellerà, irritato, e ci schiaccerà… spinto non dall’ira ma dall’irritazione? C’è in noi una certa grandezza, pensò, ma è una grandezza distruttiva ed egoistica. La Terra è durata per due milioni d’anni dopo l’avvento della nostra specie, ma in quasi tutti quegli armi non eravamo efficienti quanto lo siamo ora… abbiamo impiegato molto tempo a realizzare il nostro pieno potenziale di distruzione. Ma ricominciando, come facciamo adesso, su altri pianeti, quanto tempo occorrerà per introdurre il virus mortale dell’umanità… quanto tempo impiegherà la malattia per compiere il suo corso?
Il bambino scostò i rametti e allungò la mano per cogliere i fagioli. Un verme aggrappato alle foglie perse l’equilibrio e cadde. Toccò il suolo e si raggomitolò come una palla. Quasi senza pensare, quasi senza interrompere il suo lavoro, il bambino spostò un piede, lo sollevò per schiacciare il verme, premendolo con forza nel suolo.
Una nebbia grigia cancellò il campo di fagioli, e il grande monolito che imcombeva, alto un miglio, in lontananza, e là, librato nel cielo, cinto dalla nebbia vaporosa che gli turbinava intorno in tentacoli sottili, c’era il teschio di Shakespeare, e guardava Horton… senza malignità, senza ghigni: lo guardava cameratescamente, come se esistesse ancora la carne, come se non esistesse la barriera della morte.
Horton si sorprese a parlare al teschio. «Come va, vecchio compagno?» Ed era strano, perché Shakespeare non era mai stato suo compagno, se non perché apparteneva all’umanità, perché entrambi appartenevano alla strana, terribile razza di esseri che era proliferata su di un pianeta e poi, spinta dalla disperazione più che dallo spirito d’avventura, si era lanciata tempestosamente nella galassia… andando chissà quanto lontano, perché in quel momento, nessun membro della razza sapeva con certezza fin dove si fossero spinti gli altri.
«Come va, vecchio compagno?» E anche questo era strano, perché Horton sapeva che non era quello il modo in cui avrebbe parlato abitualmente… era un po’ come se stesse usando una versione puerile del linguaggio che il vero Shakespeare aveva adottato nelle sue tragedie e nelle sue commedie. Come se lui non fosse il vero Carter Horton, ma una versione puerile, che esprimeva sentimenti banali per un simbolismo da lui sognato un tempo. Si infuriò, interiormente, contro se stesso, perché era quel che non era; ma per quanto si sforzasse, non riusciva a ritrovarsi. La sua psiche era così aggrovigliata al bambino che schiacciava il verme e a un teschio disseccato, che egli non trovava la strada per tornare a se stesso.
«Come va, vecchio compagno?» chiese. «Tu dici che siamo tutti perduti. Ma perduti dove? Perduti come? Perché perduti? Hai scavato alle radici la nostra perdizione? La portiamo nei nostri geni, oppure ci è accaduto qualcosa? Siamo perduti noi soli, o vi sono altri come noi? La perdizione è una caratteristica innata dell’intelligenza?»
Il teschio gli rispose, sbattendo le mascelle d’osso. «Noi siamo perduti. È tutto ciò che ho detto. Non ne ho scavato la filosofia. Siamo perduti perché abbiamo perduto la Terra. Siamo perduti perché non sappiamo dove siamo. Siamo perduti perché non sappiamo trovare la via del ritorno. Non c’è più posto per noi. Percorriamo strane vie, in terre più strane, e lungo il cammino non c’è nulla che abbia senso. Una volta conoscevamo qualche risposta, perché sapevamo quali domande formulare, ma ora non possiamo trovare le risposte, perché non conosciamo le domande. Quando altri, nella galassia, cercano di stabilire un contatto con noi, non sappiamo cosa dire. In questa situazione, siamo idioti balbettanti, e non abbiamo perduto soltanto la strada, ma anche il buon senso. Là, nel tuo campo di fagioli, sebbene avessi solo dieci anni, avevi il senso del tuo scopo, sapevi dove avresti potuto andare, ma adesso non lo hai né lo sai più.»
«No,» disse Horton. «Credo di non averlo più.»
«E di non saperlo, anche?»
«E di non saperlo.»
«È così. Vuoi qualche risposta, vero?»
«Che risposta?»
«Di qualunque genere. Una risposta qualunque è meglio di niente. Vai a chiederlo allo Stagno.»
«Lo Stagno? E cosa potrebbe dirmi? È soltanto una massa d’acqua sudicia.»
«Non è acqua. Tu sai che non è acqua.»
«È vero. Non è acqua. Tu sai cos’è?»
«No, non lo so,» disse Shakespeare.
«Tu gli parlavi?»
«Non ho mai osato. Sostanzialmente, sono un vigliacco.»
«Avevi paura dello Stagno?»
«Non è questo. Avevo paura di quel che avrebbe potuto dirmi.»
«Eppure sapevi qualcosa dello Stagno. Immaginavi che avrebbe potuto parlarti. Eppure non lo hai mai scritto.»
«Come lo sai?» chiese Shakespeare. «Non hai ancora letto tutto ciò che ho scritto. Ma hai ragione: non ho mai scritto nulla, a proposito dello Stagno: solo che puzzava. E non ne ho mai scritto perché non volevo pensarci. Mi dava una grande inquietudine. Era più di uno stagno. Anche se fosse stato soltanto acqua, sarebbe stato più di uno stagno.»
«Ma perché l’inquietudine?» chiese Horton. «Perché ti dava questa sensazione?»
«L’uomo è fiero del suo intelletto,» disse Shakespeare. «Si gloria della sua ragione e della sua logica. Ma sono cose nuove, comparse solo in tempi recenti. Prima, aveva qualcosa d’altro: chiamala intuizione, dalle tutti i nomi che vuoi. I nostri antenati preistorici la possedevano, e se ne servivano. Loro sapevano, ma non potevano dirti come lo sapevano. Sapevano di cosa si doveva aver paura e questo, in fondo, è indispensabile per ogni specie che vuole sopravvivere. Di cosa aver paura, che cosa evitare, che cosa si deve lasciare in pace. Se hai questa facoltà, vivi; se non l’hai, no.»
«È il tuo spirito che mi parla? La tua ombra? Il tuo fantasma?»
«Prima dimmi questo,» fece il teschio, sbattendo le mascelle cui mancavano due denti. «Prima dimmi cos’è la vita e cos’è la morte, e poi ti risponderò a proposito dello spirito e dell’ombra.»