Carnivoro si presentò poco dopo l’alba.
«Bene,» disse. «Siete pronti. Non occorre che ci affrettiamo. Non dobbiamo andare lontano. Ho controllato il tunnel, prima di muovermi. Non si era riparato.»
Fece da guida, su per il ripido declivio della collina, e poi giù in una valle così profondamente incassata fra le alture, così inabissata nella foresta, che l’oscurità della notte non si era ancora dispersa completamente. Gli alberi erano alti, con pochi rami per i primi dieci metri, e Carter notò che, sebbene per struttura generale fossero molto simili a quelli della Terra, la corteccia aveva un aspetto scaglioso, e le foglie sfumavano quasi tutte nel nero e nel porpora, anziché nel verde. Sotto gli alberi, il fondo della foresta era abbastanza sgombro, con pochi fragili arbusti sparsi qua e là. Talvolta, minuscole creature guizzavano rapide sul suolo, invaso da molti rami caduti, ma Carter non riuscì a vederle bene neppure una volta.
Qua e là, spuntoni di roccia sporgevano dal fianco della collina, e quando discesero un’altra altura e attraversarono un ruscello stretto ma turbinoso, sull’altra riva si ersero bassi costoni. Carnivoro li guidò verso un punto dove un sentiero saliva attraverso uno squarcio nella muraglia rocciosa, e si inerpicarono per l’erta scoscesa. Carter notò che le pareti erano di pegmatite. Non c’erano tracce di strati sedimentari.
Salirono per quel crepaccio, e si trovarono su una collina che s’innalzava verso un’altra cresta, più alta delle due che avevano già superato. In cima, c’erano macigni sparsi, e un basso cornicione di pietra nuda che sporgeva dalla cresta. Carnivoro sedette su un lastrone di roccia e batté i tentacoli accanto a sé, invitando Horton ad accomodarsi.
«Qui ci fermiamo e riprendiamo fiato,» disse. «Da queste parti, il terreno è accidentato.»
«Dobbiamo proseguire ancora per molto?» chiese Horton.
Carnivoro agitò il groviglio di tentacoli che gli fungeva da mano. «Altre due colline,» disse, «e saremo quasi arrivati. A proposito, avete sentito l’ora di Dio, ieri sera?»
«L’ora di Dio?»
«Shakespeare la chiamava così. Qualcosa che si protende e ti tocca. Come una presenza.»
«Sì,» disse Horton. «L’abbiamo sentita. Puoi dirci che cos’è?»
«Non lo so,» disse il Carnivoro, «e non mi piace. Ti guarda dentro. Ti squarcia fino alle viscere. È per questo che me ne sono andato così in fretta. M’innervosisce. Mi trasforma il sangue in acqua. Ma mi sono trattenuto troppo a lungo. Mi ha colto sulla strada di casa.»
«Sapevi che sarebbe venuta?»
«Viene tutti i giorni. O quasi tutti. Qualche volta, ma non per molto tempo, non viene affatto. Si sposta durante il giorno. Adesso viene di sera. Ogni volta viene una frazione di tempo più tardi. Si sposta nel corso del giorno e della notte. Continua a cambiare l’ora, ma il cambiamento è mìnimo.»
«È sempre venuta, in tutto il tempo che sei qui?»
«Sempre,» disse il Carnivoro. «Non lascia mai in pace.»
«Non hai idea di cosa sia?»
«Shakespeare diceva che era qualcosa venuto dallo spazio. Diceva che agisce come qualcosa di lontano nello spazio. Viene quando il punto del pianeta dove ci troviamo è rivolto verso un punto lontano, nello spazio.»
Nicodemus era andato a curiosare lungo il cornicione di roccia, chinandosi qua e là per raccogliere qualche sasso. Adesso ritornò verso di loro, reggendo in mano parecchie piccole pietre.
«Smeraldi,» disse. «Dissepolti dalle intemperie ed esposti sul terreno. Ve ne sono altri nella matrice.»
Li porse a Horton. Horton li guardò attentamente, tenendoli nel palmo della mano e rigirandoli con la punta dell’indice.
Carnivoro si sporse a guardarli. «Pietre graziose,» disse.
«Diavolo, no,» fece Horton. «Sono ben più che pietre graziose.» Alzò gli occhi su Nicodemus. «Come l’hai capito?» chiese.
«Porto il mio transmog da cercatore di pietre,» disse il robot. «Ho messo il transmog da ingegnere, e c’era spazio per un altro, perciò ho messo questo…»
«Il transmog da cercatore di pietre! E cosa diavolo te ne fai?»
«Ognuno di noi,» spiegò paziente Nicodemus, «fu autorizzato a includere un transmog per hobby. Per nostra gratificazione personale. Vi sono transmog filatelici, e scacchistici, e molti altri, ma io pensavo che un transmog da collezionista di pietre…»
Horton rimescolò gli smeraldi. «Dici che ce ne sono altri?»
«Direi,» disse Nicodemus, «che abbiamo scoperto una fortuna. Una miniera di smeraldi.»
Carnivoro tuonò: «Come sarebbe a dire, una fortuna?»
«Ha ragione,» disse Horton. «Questa collina potrebbe essere una miniera di smeraldi.»
«Quelle graziose pietre hanno valore?»
«Un valore grandissimo, tra la mia gente.»
«Non l’avevo mai sentito,» disse il Carnivoro. «Mi sembra una pazzia,» indicò gli smeraldi, sprezzantemente. «Solo pietre graziose, piacevoli all’occhio. Ma cosa ve ne fate?»
Si alzò, lentamente. «Andiamo avanti,» disse.
«D’accordo, andiamo avanti,» disse Horton. Restituì gli smeraldi a Nicodemus.
«Ma dovremmo guardarci intorno…»
«Dopo,» disse Horton. «Li troveremo ancora qui.»
«Occorrerà una ricognizione, in modo che la Terra…»
«La Terra non pensa più a noi,» disse Horton. «Tu e Nave l’avete detto chiaro. Qualunque cosa accada, qualunque cosa troviamo, Nave non tornerà indietro.»
«Voi parlate in modo incomprensibile per me,» disse Carnivoro.
«Scusaci,» rispose Horton. «È un piccolo scherzo tra noi. Non merita che te lo spieghi.»
Continuarono la discesa e attraversarono un’altra valle, e poi salirono un altro pendio. Questa volta non vi furono pause. Il sole ascese nel cielo, scacciando un po’ l’oscurità della foresta. Il giorno divenne tepido.
Carnivoro procedeva con un’andatura sciolta e sostenuta, mentre Horton gli sbuffava dietro e Nicodemus stava alla retroguardia. Horton lo guardava e cercava di capire che tipo di creatura poteva essere. Era un bestione, naturalmente, su questo non c’era dubbio… ma un bestione feroce, e poteva essere pericoloso. Sembrava abbastanza amichevole, con tutte quelle chiacchiere sul suo amico Shakespeare, ma era meglio tenerlo d’occhio. Finora non aveva mostrato altro che un rustico buonumore. Non c’era da dubitare che il suo affetto per l’umano non fosse stato autentico, anche se Horton rabbrividiva ancora al pensiero di quando aveva detto di aver divorato Shakespeare. Il mancato riconoscimento del valore degli smeraldi, da parte sua, era un fattore sconcertante. Sembrava impossibile che una cultura, quale che fosse, non riconoscesse il valore delle gemme: a meno che si trattasse di una cultura che non aveva il concetto d’ornamento.
Dall’ultima collina su cui si erano arrampicati scesero, non in una valle, ma in una depressione a forma di conca, cinta da alture. Carnivoro si fermò così bruscamente che Horton, il quale lo seguiva da vicino, andò a sbattergli contro la schiena.
«Ecco,» disse Carnivoro, indicando. «Potete vederlo, da qui. Gli siamo quasi sopra.»
Horton guardò nella direzione indicata. Non vedeva altro che la foresta.
«Quella cosa bianca?» chiese Nicodemus.
«Infatti,» disse Carnivoro, felice. «Eccola, la sua bianchezza. Io lo tengo pulito e lustro, e strappo via tutte le piantine che si azzardano a crescervi, e tolgo la polvere. Shakespeare lo chiamava greco. Ditemi, signore o robot, che cos’è un greco? Io lo chiedo a Shakespeare, ma lui si limita a ridere e scuote la testa e dice che è una storia troppo lunga. Qualche volta penso che neppure lui lo sa. Ha solo usato una parola che aveva sentito.»
«I greci erano un popolo umano,» disse Horton. «Raggiunsero la grandezza molti secoli fa. Un edificio costruito come costruivano loro è detto greco. È un termine molto generico. L’architettura greca ha molti fattori.»
«Costruito semplicemente,» disse Carnivoro. «Muro, e tetto e porta. Tutto lì. Però è un buon habitat per viverci. Impermeabile al vento e alla pioggia. Ancora non lo vedi?»
Horton scosse il capo. «Lo vedrai presto,» disse Carnivoro. «Ci arriveremo in fretta.»
Scesero il pendio e, quando arrivarono alla base, Carnivoro si fermò di nuovo. Indicò un sentiero. «Da quella parte, a casa,» disse. «Da quella, dopo un paio di passi, si arriva alla fonte. Vuoi bere un po’ d’acqua buona?»
«Con piacere,» disse Horton. «È stata una camminata tremenda. Non molto lunga, ma sempre a salire e scendere.»
La fonte sgorgava dal fianco della collina in un laghetto cinto di roccia, da cui l’acqua sfuggiva formando un sottile rigagnolo.
«Precedetemi,» disse Carnivoro. «Siete miei ospiti. Shakespeare diceva che gli ospiti passano sempre per primi. Io ero ospite di Shakespeare. Lui era qui prima di me.»
Horton s’inginocchiò, si puntellò con le mani, e abbassò la testa per bere. L’acqua era così fredda che parve bruciargli la gola. Si rialzò, e si accosciò sui talloni, mentre Carnivoro si lasciava cadere a quattro zampe, abbassava la testa e beveva… Non beveva veramente, allappava l’acqua come avrebbe fatto un cane o un gatto.
Per la prima volta, mentre se ne stava lì accosciato, Horton vide e apprezzò veramente la cupa bellezza della foresta. Gli alberi erano fitti e scuri, anche in pieno sole. Sebbene non fossero conifere, la foresta gli ricordava le grandi pinete nelle terre nordiche della Terra. Intorno alla fonte, fino ad estendersi sul pendio da cui erano scesi, c’erano ciuffi di arbusti, alti circa un metro, tutti color rosso sangue. Horton non ricordava di aver visto un fiore od un bocciolo da nessuna parte. Annotò mentalmente di chiederlo, più tardi.
A metà del sentiero, vide finalmente l’edificio che il Carnivoro aveva cercato di indicargli. Sorgeva su un dosso, in una piccola radura. Aveva un’aria greca, sebbene non ricordasse l’architettura greca, né nessun’altra. Piccolo, costruito di pietra bianca, aveva linee semplici e severe, ma sembrava avere un aspetto di scatola, squadrato. Non c’erano colonnati né fregi eleganti… solo quattro mura, una porta disadorna, e un frontone, non molto alto e non molto aguzzo.
«Shakespeare abitava lì, quando io arrivo,» disse Carnivoro. «Mi sistemo con lui. Passiamo giorni felici, là. Il pianeta è in fondo al nulla, ma la felicità è dentro.»
Attraversarono la radura e si avvicinarono all’edificio, affiancati. Arrivato a pochi passi, Horton alzò la testa e vide qualcosa che prima gli era sfuggito, con quel candore calcinato perduto nel candore della pietra. Si fermò, inorridito. Infisso sopra la porta c’era un teschio umano sogghignante.
Carnivoro si accorse che Horton lo fissava. «Shakespeare ci dà il benvenuto,» disse. «Quello è il cranio di Shakespeare.»
Affascinato e inorridito, Horton vide che a Shakespeare mancavano due denti anteriori.
«È stato difficile sistemare Shakespeare lassù,» stava dicendo Carnivoro. «È un brutto posto per metterlo, perché l’osso presto si rovina e si sgretola, ma l’aveva chiesto lui. Il teschio sopra la porta, mi disse, le ossa dentro, appese nei sacchi. Io faccio come vuole lui, ma è stato un compito doloroso. L’ho fatto senza soddisfazione, per un senso di dovere e d’amicizia.»
«È stato Shakespeare a chiedertelo?»
«Sì, certo. Pensi che l’abbia fatto di mia iniziativa?»
«Non so cosa pensare.»
«Il modo della morte,» disse quello. «Divorarlo mentre lui muore. Una funzione sacerdotale, ha spiegato. Io faccio come lui dice. Prometto di non vomitare, e non vomito. Mi faccio forza e lo divoro, anche se ha cattivo sapore, fino all’ultima briciola. Ripulisco le ossa meticolosamente, finché restano solo quelle. Più di quanto mi sentissi di mangiare. Pancia piena da scoppiare, ma continuo a mangiare, senza smettere mai fino a quando è tutto andato. Lo faccio bene, scrupolosamente. Lo faccio con tutta santità. Non svergogno il mio amico. Ero l’unico amico che aveva.»
«Può darsi,» disse Nicodemus. «La razza umana è capace di escogitare nozioni bizzarre. Un amico che divora l’altro, in un atto di rispetto. Tra le popolazioni preistoriche era in vigore il cannibalismo rituale… era rendere un onore speciale a un vero amico o a un grand’uomo, divorarlo.»
«Ma erano tempi preistorici,» obiettò Horton. «Non ho mai saputo che una razza moderna…»
«Mille anni,» disse Nicodemus. «Sono trascorsi mille anni da quando abbiamo lasciato la Terra. C’è stato tutto il tempo di sviluppare strane credenze. Forse i popoli preistorici sapevano qualcosa che noi non sapevamo. Forse il cannibalismo rituale aveva una logica, ed è stata riscoperta nell’ultimo millennio. Una logica tortuosa, probabilmente, ma con fattori accattivanti.»
«Tu dici,» chiese Carnìvoro, «che la tua razza non lo fa? Non capisco.»
«Mille anni fa non lo facevano: ma forse adesso lo fanno.»
«Mille anni fa?»
«Abbiamo lasciato la Terra un millennio fa. Forse da molto più tempo. Non conosciamo la matematica della dilatazione temporale. Potrebbero essere passati più di mille anni.»
«Ma nessun umano vìve mille anni.»
«È vero, ma io ero ibernato. Il mio corpo era congelato.»
«Se ti congeli, muori.»
«Non nel modo in cui lo facevamo noi. Un giorno o l’altro te lo spiegherò.»
«Non pensate male di me perché ho divorato Shakespeare?»
«No, naturalmente non pensiamo male di te,» disse Nicodemus.
«È un bene,» disse Carnivoro, «perché altrimenti non mi volete portare con voi quando ve ne andrete. Desidero moltissimo lasciare questo pianeta al più presto possibile.»
«Forse riusciremo a riparare il tunnel,» disse Nicodemus. «Se ci riusciremo, potrai andartene per il tunnel.»