Il teschio di Shakespeare era appeso sopra la porta, e li guardava ghignando… e un momento prima, si disse Horton, non ghignava. Aveva parlato con lui, da uomo a uomo. Era stato strano, ma non orribile, e non aveva ghignato. I due denti mancanti erano solo due denti mancanti, ma adesso quell’assenza aveva qualcosa di macabro, di sconvolgente. Era sceso il crepuscolo, e il guizzare del fuoco, riflettendosi sull’osso levigato, dava l’impressione che le mascelle si muovessero ancora, conferiva uno scintillio all’oscurità fonda delle orbite.
«Bene,» disse Nicodemus, guardando le bistecche, «questa faccenda dell’ora di Dio mi ha rovinato la cucina. Le fette di carne sono bruciacchiate.»
«Non importa,» disse Horton. «Preferisco la carne al sangue, ma non importa.»
Accanto a Horton, Elayne sembrava uscire da una trance. «Perché non me l’avevi detto?» chiese in tono d’accusa. «Perché non mi avevi spiegato com’era?»
«È impossibile,» disse Carnivoro. «Come puoi descrivere il rattrappirsi delle viscere…»
«Com’è stato?» chiese Horton.
«Spaventoso,» disse lei. «Ma anche meraviglioso. Come se qualcuno ti avesse portato in vetta ad una montagna cosmica, con l’universo spiegato davanti a te… tutto lo splendore e l’incanto e tutta la tristezza. Tutto l’amore e l’odio, tutta la pietà e l’indifferenza. Tu sei lì, fragile e travolto dal vento che investe i mondi e, all’inizio, ti senti solo e confuso, e hai l’impressione di essere dove non dovresti, ma poi ricordi che non aspiravi ad essere lì, ci sei stato trasportato, e allora tutto sembra giusto. Sai cosa stai guardando, e non è affatto come avresti immaginato… se pure hai mai immaginato di vederlo, e naturalmente non lo hai mai pensato. Stai lì e lo guardi, dapprima senza capire e poi, lentamente, cominci a comprendere un poco, come se qualcuno ti dicesse di che si tratta. E alla fine capisci di più, usando verità di cui non conoscevi l’esistenza, e sei quasi pronto a dire a te stesso che è così, dunque, e poi, prima che tu lo dica, è tutto scomparso. Proprio quando senti di stare per afferrare in parte il significato, tutto è sparito.»
Era così, pensò Horton… o almeno era stato così, le altre volte. Ma questa volta, per lui era stato diverso, come aveva scritto Shakespeare: poteva essere diverso. E la logica, la ragione di quella differenza?
«L’ho cronometrato, questa volta,» disse Nicodemus. «È durato un po’ meno di un quarto d’ora. È sembrato tanto tempo?»
«Di più,» disse Elayne. «Sembrava che durasse per sempre.»
Nicodemus guardò Horton con fare interrogativo. «Non saprei,» disse Horton. «Non ho avuto un’impressione chiara del tempo.»
Il dialogo con Shakespeare non era durato troppo a lungo, ma quando cercò di calcolare con la memoria per quanto tempo era stato nel campo dei fagioli, non fu neppure in grado di formulare un’ipotesi.
«Per te è stato lo stesso?» chiese Elayne. «Hai visto quello che ho visto io? Era questo che non sapevi descrivere?»
«Questa volta è stato diverso. Sono tornato alla mia infanzia.»
«Tutto lì?» chiese Elayne. «Solo un ritorno all’infanzia?»
«Tutto lì,» disse Horton. Non se la sentiva di parlare del dialogo con il teschio. Sarebbe suonato strano e, molto probabilmente, Carnivoro si sarebbe fatto prendere dal panico. Era meglio lasciar stare, decise.
«Quello che voglio,» disse Carnivoro, «è che questa ora di Dio ci dice come riparare il tunnel. Tu sei sicuro,» disse a Nicodemus, «di non potere fare altro.»
«Non so immaginare cosa potrei fare,» disse il robot. «Ho cercato di staccare il coperchio dai comandi, e sembra impossibile. Ho cercato di staccare il quadro con lo scalpello, e quella roccia è più dura dell’acciaio. Lo scalpello rimbalza. Non è roccia normale. Non so come, è stata metamorfosata.»
«Possiamo provare la magia. Tra tutti e quattro…»
«Non conosco nessuna magia,» gli disse Nicodemus.
«Neppure io,» disse Horton.
«Io ne conosco un po’,» disse Carnivoro. «E forse anche la signora.»
«Che specie di magia, Carnivoro?»
«Magia delle radici, magia delle erbe, magia della danza.»
«Sono primitive,» disse Elayne. «Hanno scarsi effetti.»
«Per sua stessa natura, ogni magia è primitiva,» disse Nicodemus. «È l’appello dell’ignorante a potenze di cui si sospetta l’esistenza, ma di cui nessuno è sicuro.»
«Non necessariamente,» disse Elayne. «So di popoli che hanno magie efficaci… magie su cui si può contare. Basate, credo, sulla matematica.»
«Ma non sul nostro tipo di matematica,» disse Horton.
«Infatti. Non sul nostro tipo di matematica.»
«Però non conosci questa magia,» disse Carnivoro. «Non conosci questa matematica.»
«Mi dispiace, Carnivoro. Non ne so nulla.»
«Avete diprezzato la mia magia,» ululò Carnivoro. «Tutti voi mi avete depresso crudelmente. Della mia semplice magia, di foglie e radici e cortecce, voi vi fate beffe con tranquilla decisione. Poi mi dite di un’altra magia che può funzionare, che può aprire il tunnel, ma non la conoscete.»
«Ti ripeto che mi dispiace,» disse Elayne. «Vorrei conoscere quella magia, per aiutarti. Ma noi siamo qui, e quella è altrove, ed anche se potessi andare a cercarla, e trovare coloro che la usano, non sono certa che riuscirei ad ottenere il loro interessamento. Perché, senza dubbio, saranno individui schizzinosi, con cui non è facile parlare.»
«Non importa un accidente a nessuno,» disse Carnivoro, con trasporto. «Voi tre potete tornare alla nave…»
«Potremmo tornare al tunnel domattina,» disse Nicodemus. «E dargli un’altra occhiata. Potremmo notare qualcosa che finora ci è sfuggito. Dopotutto, ho dedicato tutto il tempo al quadro dei comandi, e nessuno ha fatto attenzione al tunnel vero e proprio. Forse troveremo qualcosa.»
«Lo farai?» chiese Carnivoro. «Davvero lo farai per il buon vecchio Carnivoro?»
E ormai, pensò Horton, è la fine. L’indomani mattina sarebbero andati a ispezionare il tunnel ancora una volta. Non avrebbero trovato niente, e non avrebbero potuto far più niente… però, pensandoci bene, era una frase inesatta: fino a quel momento, infatti, non avevano fatto nulla. Dopo vari millenni, se si accettavano le date di Elayne, avevano raggiunto finalmente un pianeta su cui l’uomo poteva vivere, e si erano precipitati in una missione di salvataggio che era finita in niente. Era illogico pensare così, si disse, ma era la verità. L’unica cosa di valore che avevano trovato erano gli smeraldi, e nella loro situazione, non valeva neppure la pena di raccattarli da terra. Ma forse, ripensandoci meglio, avevano trovato qualcosa che poteva ricompensare del tempo sprecato. Ma si trattava di qualcosa che non potevano rivendicare. In tutta giustizia, l’erede di Shakespeare doveva essere Carnivoro, e questo significava che il volume di Shakespeare spettava a lui.
Levò lo sguardo verso il teschio appeso sopra la porta. Mi piacerebbe avere quel libro, disse al teschio, mentalmente. Mi piacerebbe mettermi tranquillo a leggerlo, cercare di vivere i giorni del tuo esilio, giudicare la tua follia e la tua saggezza, trovando, senza dubbio, più saggezza che follia, perché anche nella follia può esservi talvolta la saggezza, cercare di correlare cronologicamente i brani e le annotazioni che tu hai scritto a casaccio, scoprire che tipo d’uomo eri, e come sei venuto a patti con la solitudine e la morte.
Ho parlato veramente con te? chiese al teschio. Ti sei proteso oltre la dimensione della porta per stabilire un contatto con me, forse, specificamente, per parlarmi dello Stagno? O forse cercavi semplicemente di entrare in contatto con uno qualsiasi, una qualunque entità intellettuale, in grado di rinunciare ad una incredulità naturale e quindi di parlare con te? Chiedilo allo Stagno, hai detto. E come lo si chiede allo Stagno? Ci si avvicina allo Stagno e si dice: Shakespeare mi ha informato che posso parlare con te… quindi avanti, parla? E che ne sai, veramente, dello Stagno? Forse c’è qualcosa che avresti voluto dirmi, ma non ne hai avuto il tempo? Adesso posso chiederti tutto questo, perché non mi risponderai. Comunque, mi aiuta a credere di aver parlato con te, bombardarti adesso di domande che non troveranno risposta da parte di una cosa d’osso sbiancato inchiodata sopra una porta.
A Carnivoro tutto questo non lo hai detto: ma tanto, con lui non parlavi; perché nella tua follia, dovevi avere paura di lui più di quanto lo rivelassi nei tuoi scritti. Eri un uomo strano, Shakespeare, e mi dispiace di non averti potuto conoscere, ma forse ti conosco adesso. Forse ti conosco meglio che se ti avessi incontrato da vivo. Forse meglio di quanto ti abbia conosciuto Carnivoro, perché io sono umano e lui no.
E Carnivoro? Già, e Carnivoro? Perché adesso erano alla fine, e qualcuno doveva decidere cosa fare di Carnivoro. Carnivoro, quel povero cafone, sgradevole e disgustoso… eppure bisognava fare qualcosa per lui. Dopo aver suscitato le sue speranze, non potevano andarsene e abbandonarlo lì. Nave… avrebbe dovuto chiederlo a Nave: ma aveva paura. Non avrebbe neppure cercato di porsi in contatto con Nave, perché se e quando l’avesse fatto, il problema di Carnivoro si sarebbe presentato, e lui conosceva già la risposta. Era una risposta che non voleva ascoltare, che non si sentiva di ascoltare.
«Lo stagno puzza forte, stasera,» disse Carnivoro. «Certe volte puzza di più, e quando il vento spira dalla parte giusta, è insopportabile.»
Quando quelle parole penetrarono nella sua coscienza, Horton si accorse di nuovo degli altri seduti intorno al fuoco; e il teschio di Shakespeare non era altro che una chiazza bianca sopra la porta.
C’era il fetore, l’immonda putredine dello Stagno, e da oltre il cerchio della luce del fuoco veniva una sorta di fruscio. Gli altri l’udirono e girarono la testa nella direzione da cui proveniva il suono. Nessuno parlava, in attesa che il suono si ripetesse.
E si ripeté, e adesso c’era un senso di movimento nell’oscurità, come se una parte della tenebra si fosse mossa: non era un movimento visibile, ma un senso di movimento. Una piccola parte dell’oscurità assunse una lucentezza, come se una sua sfaccettatura fosse divenuta uno specchio e riflettesse la luce del fuoco.
La lucentezza ingrandì e nelle tenebre vi fu un movimento inequivocabile… una sfera di buio più fondo che si avvicinava ondeggiando e frusciando.
Prima era stata solo un’allusione, poi una percezione: e adesso, improvvisamente ed inequivocabilmente, si rivelava… una sfera di tenebra, del diametro d’una sessantina di centimetri, che passava ondeggiando dalla notte al cerchio della luce del fuoco. E il fetore l’accompagnava… un fetore sempre più denso che tuttavia, con l’appressarsi della sfera, sembrava diventare meno pungente.
A tre metri dal fuoco, si fermò ed attese: una sfera nera dal lustro oleoso. Stava lì, semplicemente. Era immobile. Non c’erano fremiti, né pulsazioni: niente indicava che si fosse mai mossa o che fosse capace di muoversi.
«È lo Stagno,» disse Nicodemus, parlando sottovoce, come se non volesse turbarla o spaventarla. «Viene dallo Stagno. Una parte dello Stagno è venuta a farci visita.»
C’era tensione e paura, nel gruppo: eppure, si disse Horton, non era una paura travolgente, piuttosto stupita e sconcertata. Era come, pensò, se la sfera si fosse preoccupata di spaventarli il meno possibile.
«Non è acqua,» disse Horton. «Io ci sono stato, oggi. È più pesante. È come il mercurio, ma non è mercurio.»
«Allora una parte può assumere la forma di sfera,» disse Elayne.
«Quella cosa maledetta è viva,» squittò Carnivoro. «Sta lì, sa di noi, ci spia. Shakespeare dice che c’è qualcosa che non va nello Stagno. Lui ha paura di esso. Non va mai vicino. Shakespeare è un perfettissimo vigliacco. Dice che in momenti come questo, nella vigliaccheria c’è una profonda saggezza.»
«Qui,» disse Nicodemus, «succedono molte cose che noi non comprendiamo. Il tunnel bloccato, l’essere racchiuso nel tempo, e adesso questo. Ho l’impressione che stia per succedere qualcosa.»
«E allora?» chiese Horton alla sfera. «Sta per succedere qualcosa? Sei venuta a dirci questo?»
La sfera non emise alcun suono. Non si mosse. Restò semplicemente lì, in attesa.
Nicodemus le si avvicinò di un passo.
«Lasciala in pace,» disse Horton, bruscamente.
Il robot si fermò.
Il silenzio si protrasse. Non c’era nulla da fare, nulla da dire. Lo Stagno era lì: la prossima mossa spettava a lui.
La sfera fremette, vibrò, e poi si ritrasse, rotolando nell’oscurità senza lasciar tracce anche se, per molto tempo dopo la sua scomparsa, Horton ebbe l’impressione di poterla vedere ancora. Frusciava e sciaguattava mentre si muoveva: e il suono si spense finalmente in lontananza, e il fetore, cui avevano finito per abituarsi, incominciò a disperdersi.
Nicodemus tornò accanto al fuoco e si accovacciò.
«Perché?» chiese.
«Voleva darci un’occhiata,» ululò Carnivoro. «È venuto a darci un’occhiata.»
«Ma perché?» chiese Elayne. «Perché voleva darci un’occhiata?»
«Chi può sapere cosa vuole uno Stagno?» fece Nicodemus.
«C’è un solo modo per scoprirlo,» disse Horton. «Andrò a chiederlo allo Stagno.»
«Questa è la pazzia più grossa che abbia mai sentito,» disse Nicodemus. «Questo posto deve farti un brutto effetto.»
«Non credo sia una pazzia,» disse Elayne. «Lo Stagno è venuto a farci visita. Verrò con te.»
«No,» disse Horton. «Debbo andare da solo. Tutti voi resterete qui. Nessuno viene con me e nessuno mi segue. È chiaro?»
«Stai a sentire, Carter,» disse Nicodemus, «non puoi precipitarti via così…»
«Lasciatelo andare,» ringhiò Carnivoro. «È simpatico sapere che non tutti gli umani sono come il mio vigliacco amico, là sulla porta.»
Balzò in piedi e rivolse a Horton un saluto brusco, quasi beffardo. «Vai, mio amico guerriero. Vai incontro al nemico.»