16.

Il fetore dello stagno era orripilante, ma si attenuava via via che Horton si avvicinava. La prima zaffata era stata peggio che laggiù, accanto all’acqua. Forse, si disse, puzzava di più quando cominciava a disgregarsi e a dissiparsi. Lì, dove era più denso, era mascherato da altre componenti, le componenti non fetide che contribuivano a formarlo.

Lo stagno, notò Horton, era più grande di quanto gli fosse parso quando l’aveva visto la prima volta, dal villaggio in rovina. Era placido, senza un’increspatura. La riva era sgombra: non vi crescevano cespugli, né canne, né vegetazione d’altro tipo. A eccezione dei piccoli rivoletti di sabbia portati dall’acqua che scendeva dal fianco della collina, la riva era di granito. Lo stagno si era formato in un conca di roccia. E com’era pulita la riva, lo era anche l’acqua. Non c’era la schiuma che ci si poteva aspettare in uno specchio d’acqua stagnante. A quanto pareva, lì dentro non poteva esistere vegetazione, forse nessun forma di vita. Ma sebbene fosse pulito, non era limpido. Sembrava racchiudere un’oscurità tenebrosa. Non era azzurro né verde… era quasi nero.

Horton s’era fermato sulla riva, tenendo in mano l’avanzo della carne. Intorno allo stagno, intorno alla sua conca, aleggiava una sorta di tetraggine che scoloriva nella malinconia, se non nella paura. Era un luogo deprimente, ma aveva un suo fascino, si disse. Era un luogo dove un uomo poteva acquattarsi e covare pensieri morbosi… morbosi e romantici. Un pittore, forse, avrebbe potuto servirsene come modello per dipingere un laghetto solitario, trasfondendo nella composizione un senso di solitudine perduta, di distacco dalla realtà.

Siamo tutti perduti, aveva scritto Shakespeare in quella lunga annotazione alla fine del Pericle. L’aveva scritto solo in senso allegorico, ma lì, a meno di un miglio dal punto in cui l’aveva scritto alla luce vacillante della candela grossolana, c’era la perdizione di cui aveva parlato. Aveva scritto giustamente, quello strano umano venuto da qualche altro mondo, pensò Horton, perché pareva ormai che tutti fossero perduti. Nave e Nicodemus e lui stesso erano perduti nell’immensità del non ritorno, e se quanto aveva detto Elayne era vero, era perduto anche il resto dell’umanità. Forse i soli che non lo erano erano quei pochi rimasti ancora sulla Terra. Per quanto potesse essere divenuta povera, la Terra era ancora la loro patria.

Eppure, pensandoci bene, Elayne e gli altri cercatori dei tunnel forse non erano perduti come tutti gli altri. Lo erano, forse, perché non sapevano mai dove potevano finire, o che genere di pianeta avrebbero trovato: ma senza dubbio non erano perduti al punto di aver bisogno di sapere esattamente dov’erano… autosufficienti, tanto da non aver bisogno di altri umani, né della familiarità… strani esseri che avevano superato il bisogno di una casa e di una patria. Ed era questo, si chiese Horton, il modo per sconfiggere il senso di perdizione? Non aver più bisogno di una casa e di una patria?

Si avvicinò all’orlo dell’acqua e scagliò lontano la carne. Cadde con un tonfo e scomparve immediatamente, come se lo stagno l’avesse accettata, protendendosi per prenderla, risucchiandola in se stesso. Dal centro dello spruzzo si allargarono increspature concentriche, ma non arrivarono a riva. Sparirono. Procedevano per un tratto, poi si appiattivano e scomparivano: lo stagno ritornò alla sua calma serenità, alla sua tenebrosità piatta. Come se, pensò Horton, considerasse preziosa la serenità e non tollerasse perturbazioni.

Ora, pensò, doveva andarsene. Aveva fatto quel che era venuto a fare, ed era tempo di andarsene. Ma non se ne andò; rimase. Come se qualcosa, lì, gli dicesse di non andar via, come se, inspiegabilmente, dovesse indugiare, come un uomo indugia al capezzale di un amico morente, e vorrebbe andarsene, a disagio di fronte all’imminenza della fine, e tuttavia rimane perché sente che, andandosene troppo presto, rinnegherebbe una vecchia amicizia.

Si guardò intorno. A sinistra torreggiava il dorsale dove stava il villaggio abbandonato. Ma dal punto in cui si trovava, non se ne scorgeva traccia. Le case erano nascoste dagli alberi. Davanti a lui si stendeva una palude, sembrava, e a destra c’era una collina conica, un tumulo, che non aveva notato fino ad ora, e che non spiccava nettamente dal dorsale del villaggio.

Calcolò che era alta una sessantina di metri dal livello dello stagno. Era simmetrica; sembrava un cono perfetto, affusolato, con la punta frastagliata. Ricordava un po’ i coni delle ceneri vulcaniche, ma Horton sapeva che non lo era. A parte il fatto che evidentemente non poteva essere un cono, non sapeva spiegarsi perché ne avesse escluso immediatamente il carattere vulcanico. Vi crescevano qua e là alberi solitari, ma per il resto, l’unica vegetazione era costituita da una sorta d’erba che lo rivestiva. Mentre lo guardava, aggrottò la fronte, perplesso. Non c’era nessun fattore geologico che avesse osservato o che riuscisse a ricordare sul momento, e che potesse spiegare una formazione come quella.

Dedicò nuovamente l’attenzione allo stagno, ricordando ciò che aveva detto Carnivoro… che non era veramente acqua, era piuttosto una broda, era troppo densa e pesante per essere acqua.

Si accostò all’orlo, si acquattò e, cautamente, tese un dito per toccare il liquido. La superficie parve opporre una leggera resistenza, come avesse una notevole tensione superficiale. Il dito non si immerse: anzi, sotto la leggera pressione, il liquido si incurvò un poco sotto il polpastrello. Horton premette più forte, e il dito passò. Immerse la mano, ruotò il polso in modo che il palmo, piegato a coppa, fosse rivolto verso l’alto. Alzò la mano, lentamente, e vide di aver raccolto un po’ di liquido. Era immobile nel cavo del palmo, e non filtrava tra le dita chiuse imperfettamente, come avrebbe fatto l’acqua. Sembrava tutto d’un pezzo. Santo Dio, pensò Horton, un pezzo d’acqua!

Ma ormai sapeva che non era acqua. Strano, pensò, che Shakespeare non avesse saputo dire nulla, se non che sembrava una broda. O forse aveva detto di più. C’erano molte annotazioni, nel libro, e lui ne aveva letto solo pochi paragrafi. Una broda, aveva detto Carnivoro, ma non era esatto. Era più caldo di quanto Horton avesse immaginato, e più pesante, anche se era questione d’impressioni e, per essere certo, avrebbe dovuto pesare il liquido, e non ne aveva la possibilità. Era viscido al tatto, sfuggente. Come mercurio, ma non era mercurio: di questo era certo. Girò il polso e lasciò che il fluido scorresse via. Quando fu vuoto, il palmo della sua mano rimase asciutto. Il liquido non bagnava.

Incredibile, si disse. Un liquido più caldo dell’acqua, più pesante, coesivo, e non bagnava. Forse Nicodemus aveva un transmog… no, al diavolo. Nicodemus aveva un lavoro da sbrigare e, appena l’avesse terminato, se ne sarebbero andati da quel pianeta, avanti nello spazio, probabilmente verso altri pianeti, o forse senza meta. E se fosse stato così, lui sarebbe rimasto ibernato, non sarebbe stato richiamato in vita. Il pensiero sembrava spaventarlo meno di quanto sarebbe stato logico.

Ora, per la prima volta, ammetteva ciò che aveva in fondo alla mente, da sempre. Quel pianeta non andava. Carnivoro l’aveva detto nelle prime parole di benvenuto, che non era un buon pianeta. Non era pericoloso, né spaventoso, né ripugnante… non valeva niente. Non era il posto dove un uomo poteva desiderare di restare.

Cercò di analizzare le ragioni di quel pensiero, ma sembrava non vi fossero fattori specifici da allineare e contare. Era solo un’intuizione, una reazione psicologica inconscia. Forse il guaio era che quel pianeta era troppo simile alla Terra… una sorta di Terra sciatta. Aveva immaginato che un pianeta alieno fosse alieno, e non una copia sbiadita e insoddisfacente della Terra. Molto probabilmente, altri erano alieni in modo più soddisfacente. Avrebbe dovuto chiederlo ad Elayne: lei lo avrebbe saputo. Strano, ,pensò, com’era uscita dal tunnel ed aveva salito il sentiero. Strano che, su quel pianeta, due vite umane s’incrociassero… no, non due, ma tre, perché aveva dimenticato Shakespeare. Chissà come, il fato aveva frugato nella sua borsa piena di trucchi ed aveva estratto tre umani, in un arco di tempo limitato… così limitato da farli incontrare, o quasi, nel caso di Shakespeare… in modo che tutti e tre influissero l’uno sull’altro. Adesso Elayne era giù, al tunnel, insieme a Nicodemus, e tra poco Horton li avrebbe raggiunti. Ma prima, probabilmente, avrebbe esaminato quella collinetta conica. Tuttavia, non sapeva come indagare, né cosa avrebbe potuto rivelargli l’indagine. Ma, inspiegabilmente, sembrava importante che le desse un’occhiata. Molto probabilmente aveva quella sensazione, si disse, perché sembrava tanto fuori posto.

Si alzò, fece lentamente il giro dello stagno, dirigendosi verso la collina. Il sole, a metà del cielo, ad oriente, era caldo. Era azzurro pallido, senza traccia di nubi. Horton si sorprese a chiedersi com’era il clima, su quel pianeta. Lo avrebbe chiesto a Carnivoro: era lì da un tempo sufficiente per saperlo.

Aggirò lo stagno e arrivò ai piedi della collina. L’erta era così ripida da costringerlo a procedere sulle mani e sulle ginocchia, piegandosi in avanti per afferrarsi a quella specie d’erba, per non scivolare in basso.

A metà della salita si fermò, ansimando. Si distese, piantando le mani nel suolo per non sdrucciolare. Girò la testa per guardare lo stagno. La superficie, adesso, era azzurra anziché nera. La tenebra lucida rispecchiava, l’azzurro del cielo. Horton ansimava tanto, per lo sforzo, che gli pareva di sentire la collina ansimare con lui… o forse, era come se nell’interno vi fosse un grande cuore che pulsava ritmicamente.

Ancora semisfiatato, riprese a procedere, sulle mani e sulle ginocchia, e finalmente raggiunse la cima. Là, da una piccola piattaforma che coronava la collina, guardò dall’altra parte, e vide che aveva veramente la forma di un cono. Per tutta la circonferenza, il pendio saliva con la stessa angolazione, come dalla parte da cui si era arrampicato lui.

Sedette incrociando le gambe e guardò oltre lo stagno; sul dorsale di fronte, riuscì a distinguere qualche tratto in muratura del villaggio deserto. Tentò di seguire i contorni delle case, ma si accorse che era impossibile, a causa della fitta vegetazione. Un po’ sulla sinistra c’era la casa di Shakespeare. Un sottile filo di fumo si levava dal fuoco. Non si vedeva nessuno, in giro. Carnivoro, molto probabilmente, non era tornato dalla caccia. E data la depressione del terreno, non poteva vedere il tunnel.

Distrattamente, tirò qualche ciuffo di quella specie d’erba. Alcuni si staccarono, con l’argilla attaccata alle radici. Argilla, si disse, che strano. Che ci faceva l’argilla, lì? Estrasse dalla tasca un temperino, aprì una lama e la piantò nel suolo, scavando una piccola buca. Era tutta argilla, fin dove riuscì ad arrivare. E se fosse stata così l’intera collina? si chiese. Una specie di mostruosa bolla, sollevatasi in un’epoca lontanissima e rimasta lì fino ad ora. Ripulì la lama, rimise in tasca il temperino. Sarebbe stato interessante, pensò, se ne avesse avuto il tempo, studiare la geologia di quel posto. Ma che importanza aveva? Sarebbe occorso molto tempo, e lui non intendeva rimanere così a lungo.

Si alzò, e discese cautamente il pendio.

Al tunnel trovò Elayne e Nicodemus. Lei era seduta su un macigno, e guardava lavorare il robot, che impugnava uno scalpello e un martello e stava incidendo una linea intorno al quadro.

«Sei tornato,» disse Elayne a Horton. «Come mai ci hai messo tanto?»

«Ho esplorato un po’.»

«Nella città? Nicodemus me ne ha parlato.»

«Non sono stato nella città,» disse Horton. «E non c’è nessuna città.»

Nicodemus si girò, con il martello e lo scalpello che gli penzolavano nella mano. «Sto cercando di staccare il quadro dalla roccia,» disse. «Forse, se ci riesco, potrò arrivarci da tergo e lavorare così.»

«Riuscirai soltanto a tagliare i fili,» disse Horton.

«Non credo che ci siano fili,» disse Elayne. «Non può essere un sistema tanto grossolano.»

«E forse,» disse Nicodemus, «se riesco a liberare il pannello, potrò scalzare il coperchio.»

«Il coperchio? Dicevi che era un campo di forza.»

«Non so cosa sia,» disse Nicodemus.

«A quanto ho capito,» disse Horton, «non c’era la seconda scatola. Quella che attiva il coperchio.»

«No,» disse Elayne. «E questo significa che qualcuno ha manomesso l’impianto. Qualcuno che non voleva permettere a nessuno di lasciare il pianeta.»

«Vuoi dire che il pianeta è chiuso?»

«Credo di sì,» disse lei. «Immagino che dovesse esserci qualche avvertimento, davanti agli altri tunnel, per sconsigliare di usare il selettore che poteva portare su questo pianeta: ma se c’era, i cartelli sono spariti da tempo, o forse ci sono ancora e noi non siamo stati in grado di riconoscerli.»

«E anche se li avesse riconosciuti,» disse Nicodemus, «probabilmente non sarebbe stata capace di leggerli.»

«È esatto,» disse Elayne.

Carnivoro stava arrivando, lungo il sentiero. «Sono tornato con carne nuova e fresca,» annunciò. «Come va, qui? Avete risolto tutto?»

«No,» disse Nicodemus, e si rimise al lavoro.

«Ci metti parecchio,» disse Carnivoro.

Nicodemus tornò a voltarsi di scatto. «Non starmi addosso!» scattò. «Non fai altro che ossessionarmi da quando ho cominciato. Tu e il tuo amico Shakespeare siete stati per anni senza combinar nulla, e adesso pretendi che noi risolviamo tutto in un’ora o due.»

«Ma gli utensili li hai,» gemette Carnivoro. «Utensili e competenza. Shakespeare non li aveva, e neppure io. Pensavo che, con gli utensili e la competenza…»

«Carnivoro,» disse Horton, «non ti abbiamo mai assicurato di poter fare qualcosa. Nicodemus ha detto che avrebbe tentato. Non ti ha garantito niente. Smettila di comportarti come se infrangessimo una promessa. Non te ne abbiamo mai fatte.»

«Forse è meglio,» disse Carnivoro, «che tentiamo un po’ di magia. Magia messa insieme. La mia magia, la tua magia e la sua magia.» E indicò Elayne.

«La magia non servirebbe a niente,» fece brusco Nicodemus. «La magia non esiste.»

«Oh, esiste, sicuro,» disse Carnivoro. «Su questo non c’è dubbio.» E si appellò ad Elayne. «Non lo diresti anche tu?»

«Io ho visto la magia,» disse lei, «o quella che veniva considerata tale. In parte sembrava funzionare. Non sempre, naturalmente.»

«Pura coincidenza,» disse Nicodemus.

«No, più che una coincidenza,» disse Elayne.

«Perché non ce ne andiamo tutti quanti,» disse Horton, «e lasciamo lavorare in pace Nicodemus? A meno che,» disse al robot, «tu ritenga di aver bisogno d’aiuto.»

«Non ne ho bisogno,» disse Nicodemus.

«Andiamo a vedere la città,» propose Elayne. «Muoio dalla voglia di visitarla.»

«Ci fermeremo al campo, a prendere una lampada tascabile,» disse Horton. E chiese a Nicodemus: «Ce l’abbiamo, vero?»

«Sì,» disse il robot. «La troverai nello zaino.»

«Tu vieni con noi?» chiese Horton a Carnivoro.

«No, se non ti dispiace,» disse Carnivoro. «La città mi rende nervoso. Resterò qui. Terrò allegro il robot.»

«Tu terrai la bocca chiusa,» disse Nicodemus. «Non mi respirerai addosso. Non mi darai consigli non richiesti.»

«Mi comporterò,» disse umilmente Carnivoro, «come se non ci fossi.»

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