3.

Carter Horton ritornò in vita. Gli pareva di trovarsi in fondo a un pozzo. Il pozzo era colmo di un’oscurità lanuginosa e, preso da una paura, da una collera improvvise, cercò di liberarsi della lanugine e dell’oscurità, di uscire dal pozzo. Ma la tenebra si avvolse intorno a lui, e la lanugine divenne difficile da rimuovere. Dopo un po’, rimase immobile. La sua mente scattava esitante, mentre cercava di capire dov’era e come poteva essere finito lì: ma non c’era nulla che potesse fornirgli indicazioni. Non aveva ricordi. Mentre giaceva nel silenzio, si accorse con stupore di essere comodo e caldo, come se fosse stato sempre lì, comodo e caldo, e soltanto in quel momento si accorgesse della comodità e del tepore.

Ma attraverso quelle sensazioni, provava un senso frenetico d’urgenza, e si domandò perché. Gli pareva che bastasse continuare così, si disse, eppure qualcosa dentro di lui gridava che non era abbastanza. Tentò ancora una volta di scalare il pozzo, di scrollare via la confusione e l’oscurità, e non vi riuscì, ricadde esausto.

Era troppo debole, si disse: e perché mai doveva essere così debole?

Cercò di gridare per attirare l’attenzione, ma la voce lo tradì. All’improvviso ne fu lieto perché, fino a quando fosse divenuto più forte, si disse, sarebbe stata forse un’imprudenza attirare l’attenzione. Perché non sapeva dove fosse, o che cosa o chi poteva essere in agguato lì vicino, e con quali intenzioni.

Tornò ad abbandonarsi nell’oscurità e nella confusione, sicuro che l’avrebbero nascosto a ciò che poteva essere in agguato; e provò un vago senso di divertimento nell’accorgersi di una lenta collera filtrante, all’idea di essere costretto a raggomitolarsi per sfuggire all’attenzione.

Poco a poco la confusione e l’oscurità si dileguarono, ed egli si accorse, con stupore, di non essere in fondo a un pozzo. Sembrava piuttosto in uno spazio limitato, che adesso poteva vedere.

Le pareti metalliche salivano, ai suoi fianchi, e s’incurvavano, una trentina di centimetri sopra la sua testa, formando una volta. Congegni dall’aspetto strano erano ritratti entro intercapedini sul soffitto, proprio al di sopra del suo capo. Nel vederli, la memoria prese a rifluire, portando con sé un senso di freddo. Vi pensò, e non riuscì a ricordare un freddo autentico, sebbene la sensazione fosse presente. E quando il ricordo del freddo si protendeva a sfiorarlo, provava una fitta di apprensione.

Ventilatori nascosti soffiavano aria calda sopra di lui: allora comprese il tepore. Stava comodo, notò, perché giaceva su un materasso spesso e soffice piazzato sul fondo del cubicolo. Un cubicolo, pensò… anche le parole, la terminologia cominciavano a ritornare. Gli strani congegni inseriti nelle intercapedini nel soffitto facevano parte del sistema di supporto, ed erano lì, lo sapeva, perché non ne aveva più bisogno. E non ne aveva più bisogno, pensò, perché Nave era atterrata.

Nave era atterrata, e lui era stato destato dall’ibernazione… il suo corpo era stato scongelato, le sostanze della rianimazione gli erano state iniettate nel sangue, dosi meticolosamente misurate di sostanze nutrienti ad alta energia erano state immesse in lui, ed era stato massaggiato e riscaldato e riportato in vita. Era vivo, se prima era morto. Ricordò le interminabili discussioni su quel problema, quando l’avevano esaminato e rimuginato e sventrato e fatto a pezzi, per poi cercare di ricomporre meticolosamente i frammenti. La chiamavano ibernazione, sicuro… era logico che la chiamassero così, perché aveva un suono facile, rassicurante. Ma era sonno o morte? Ci si addormentava e ci si risvegliava? Oppure si moriva e risuscitava?

Ormai non aveva molta importanza, pensò Horton. Morto o dormiente, adesso era vivo. Mi venga un colpo, si disse, il sistema ha funzionato davvero… e per la prima volta comprese di avere avuto dubbi sul funzionamento, nonostante tutti gli esperimenti compiuti con i topi ed i cani e le scimmie. Eppure, ricordava, non aveva mai parlato dei dubbi, li aveva nascosti non soltanto agli altri, ma anche a se stesso.

E se lui era lì, vivo, dovevano esserlo anche gli altri. Tra qualche minuto sarebbe uscito dal cubicolo e gli altri sarebbero stati lì: riuniti tutti e quattro. Gli pareva soltanto ieri, quand’erano tutti insieme… come se avessero trascorso la serata in compagnia e adesso, dopo una breve notte di sonno, si fossero svegliati, senza avere sognato. Eppure sapeva che doveva essere trascorso un tempo assai più lungo… magari un secolo.

Girò a lato la testa e vide il portello, con l’oblò di vetro pesante. Oltre il vetro scorgeva la piccola sala, con i quattro armadietti allineati alle pareti. Non c’era nessuno… e quindi gli altri, si disse, erano ancora nei cubicoli. Pensò di gridare per chiamarli, ma poi cambiò idea. Sarebbe stato indecoroso, pensò… troppo esuberante, un po’ troppo fanciullesco.

Tese la mano verso la serratura e la premette. Era un po’ irrigidita, alla fine si abbassò, ed il portello si aprì verso l’esterno. Piegò le gambe per infilarle attraverso l’apertura, a fatica, perché c’era poco spazio. Ma alla fine le fece passare e, girandosi, si lasciò scivolare cautamente sul pavimento. Era gelido, sotto i suoi piedi, e il metallo del cubicolo era freddo.

Horton passò svelto ai cubicolo adiacente, scrutò attraverso il vetro del portello: vide che era vuoto, con gli apparecchi del sistema di supporto rientrati nelle intercapedini del soffitto. Anche gli altri due cubicoli erano vuoti. Restò immobile, inchiodato dall’orrore. Gli altri tre, una volta rianimati, non lo avrebbero abbandonato. Lo avrebbero atteso, per uscire tutti insieme. Si sarebbero comportati così, ne era convinto, a meno che fosse accaduto qualcosa d’imprevisto. E cosa poteva essere accaduto?

Helen lo avrebbe aspettato, ne era sicuro. Forse Mary e Tom se ne sarebbero andati, ma Helen lo avrebbe atteso.

Intimorito, si precipitò all’armadietto con il suo nome. Dovette tirare con forza la maniglia, dopo averla abbassata, per aprire lo sportello. Il vuoto, all’interno, oppose resistenza, e quando cedette, lo sportello si aprì con uno schiocco. Gli abiti erano appesi agli attaccapanni e le scarpe erano disposte in una fila ordinata. Afferrò un paio di calzoni e li indossò, infilò a forza i piedi in un paio di stivali. Quando aprì la porta della camera d’ibernazione, vide che la saletta era vuota e che il portello principale della nave era aperto. Horton corse là.

La rampa scendeva su una pianura erbosa che si estendeva verso sinistra, a destra si levavano colline tormentate, e più oltre una catena di monti poderosi, inazzurrati dalla distanza, che salivano verso il cielo. La pianura era deserta: c’era soltanto l’erba, che ondeggiava come un oceano investito da raffiche di vento. Le colline erano coperte d’alberi, dal fogliame nero e rosso. L’aria aveva un odore fresco e pungente. Non c’era nessuno in vista.

Scese la rampa fino a metà, e continuò a non vedere nessuno. Il pianeta era vuoto, e quel vuoto sembrava cercare di afferrarlo. Fece per gridare, per chiedere se c’era qualcuno, ma la paura e il vuoto inaridirono le parole, e Horton non riuscì a pronunciarle. Rabbrividì, rendendosi conto che era successo qualcosa d’imprevisto. Non era così che doveva essere.

Si girò, risalì in fretta la rampa, superò la camera stagna.

«Nave!» gridò. «Nave, cosa diavolo succede?»

Nave rispose, calma, imperturbata, nella sua mente: Qual è il problema, Carter Horton?

«Cosa succede?» gridò Horton, ormai più irritato che spaventato, incollerito dalla calma altezzosa del grande mostro, la Nave. «Dove sono tutti gli altri?»

Carter Horton, disse Nave, non vi sono altri.

«Come, non vi sono altri? Sulla Terra eravamo un gruppo.»

Ci sei soltanto tu, disse Nave.

«E degli altri, che ne è stato?»

Sono morti, disse Nave.

«Morti? Come, morti? Erano con me l’altro giorno!»

Erano con te, disse Nave, mille anni or sono.

«Sei pazza. Mille anni!»

È il tempo trascorso, disse Nave, continuando a parlare alla sua mente, da quando siamo partiti dalla Terra.

Horton udì un rumore alle sue spalle e si voltò di scatto. Un robot era uscito dal portello.

«Sono Nicodemus,» disse il robot.

Era un robot normalissimo, un robot casalingo, del tipo che sulla Terra avrebbe prestato servizio come maggiordomo o valletto, cuoco o fattorino. Non aveva la minima sofisticazione meccanica: era soltanto un catorcio qualunque, dai piedi piatti.

Non devi disprezzarlo così, disse Nave. Siamo sicuri che lo troverai molto efficiente.

«Sulla Terra…»

Sulla Terra, disse Nave, ti addestravi con un prodigio meccanico troppo delicato, che poteva gustarsi facilmente. Un congegno del genere non poteva venire inviato in una lunga spedizione. C’erano troppe probabilità che si guastasse. Ma in Nicodemus non c’è niente che possa rompersi. Data la sua semplicità, ha un alto valore di sopravvivenza.

«Mi dispiace,» disse Nicodemus a Horton, «di non essere stato presente quando ti sei svegliato. Ero uscito per una rapida ricognizione. Avevo pensato di avere tutto il tempo di tornare da te. A quanto sembra, le droghe per la rianimazione e il reorientamento hanno agito molto più rapidamente di quanto immaginassi. Di solito occorre abbastanza tempo per riprendersi dall’ibernazione. Soprattutto da un’ibernazione di durata tanto lunga. Come ti senti, adesso?»

«Confuso,» rispose Horton. «Completamente confuso. Nave mi dice che di umani sono rimasto soltanto io: e questo significa che gli altri sono morti. E ha parlato di mille anni…»

Per essere precisi, disse Nave, novecentocinquantaquattro anni, otto mesi e diciannove giorni.

«Questo pianeta,» disse Nicodemus, «è incantevole. Sotto molti aspetti somiglia alla Terra. Il tenore d’ossigeno è un po’ più elevato, la gravità è un po’ inferiore…»

«E sta bene,» disse Horton, bruscamente, «dopo tutti questi anni siamo finalmente atterrati su un pianeta incantevole. E che ne è stato di tutti gli altri pianeti incantevoli? In poco meno di mille anni, muovendoci ad una velocità prossima a quella della luce, avrebbero dovuto…»

«Moltissimi pianeti,» disse Nicodemus. «Ma nessuno era incantevole. Non ce n’era nessuno su cui potesse esistere un umano. Pianeti giovani, con le croste ancora informi, campi di magma ribollente e grandi vulcani, immensi laghi di lava liquida, e il cielo brulicante di nubi scottanti di polveri e di vapori velenosi, ancora niente acqua e pochissimo ossigeno. Pianeti vecchi, declinanti verso la morte, con gli oceani prosciugati, l’atmosfera rarefatta, e nessun segno di vita… se pure la vita vi è mai esistita, era stata cancellata. Enormi pianeti di gas che correvano sulle loro orbite come grosse bilie striate. Pianeti troppo vicini ai loro soli, sferzati dalle radiazioni. Pianeti troppo lontani, con ghiacciai d’ossigeno solidificato, mari d’idrogeno denso. Altri pianeti che in un modo o nell’altro erano sbagliati, avvolti in atmosfere mortali per qualunque forma vivente. E alcuni, pochissimi, troppo ricchi di vita… pianeti-giungla occupati da esseri così famelici e feroci che sarebbe stato un suicidio porvi piede. Pianeti deserti, dove la vita non aveva mai avuto inizio… rocce nude, su cui non si era mai formato l’humus, con pochissima acqua, l’ossigeno fissato nelle pietre erose. Abbiamo girato intorno ad alcuni dei pianeti che abbiamo trovato: ad altri ci siamo limitati a dare un’occhiata. Su alcuni siamo atterrati. Nave ha tutti i dati a tua disposizione, se vuoi una relazione in chiaro.»

«Ma adesso abbiamo trovato un pianeta. E cosa facciamo… lo studiamo ben bene e torniamo indietro?»

No, disse Nave. Non possiamo tornare.

«Ma se siamo partiti per questo. Noi e le altre navi, tutti in cerca di pianeti che la razza umana potesse colonizzare.»

Siamo stati lontano troppo a lungo, disse Nave. Non possiamo tornare indietro. Siamo stati via quasi mille anni. Se ripartissimo immediatamente, impiegheremmo quasi un altro millennio. Forse un po’ meno, perché non rallenteremmo per dare un’occhiata ai pianeti, ma sarebbero circa duemila anni dal momento della partenza. E forse impiegheremmo molto di più, perché la dilatazione del tempo costituirebbe un fattore, e non abbiamo dati attendibili in proposito. Ma ormai, probabilmente, siamo stati dimenticati. Vi saranno state documentazioni, ma ormai, molto probabilmente, sono andate dimenticate o perdute. Al nostro ritorno, saremmo così antiquati che la razza umana non saprebbe che farsene di noi. Di noi e di te e di Nicodemus. Costituiremmo un motivo d’imbarazzo, perché ricorderemmo i tentativi brancolanti di tanti secoli fa. Noi e Nicodemus saremmo tecnologicamente obsolescenti. E saresti obsolescente anche tu, ma in modo diverso… un barbaro venuto dal passato. Saresti superato socialmente, moralmente, politicamente. Forse, secondo i criteri correnti, appariresti come un idiota malvagio.

«Senti,» protestò Horton, «quel che dici non ha senso. C’erano altre navi…»

Forse alcune di esse hanno trovato pianeti adatti, disse Nave, poco dopo la partenza. In tal caso, potrebbero essere ritornate sane e salve alla Terra.

«Ma tu hai proseguito.»

Nave disse: Noi abbiamo eseguito il nostro mandato.

«Vuoi dire che sei andata a caccia di pianeti.»

Siamo andati a caccia di un pianeta particolare. Il tipo di pianeta su cui l’uomo potesse vivere.

«Ed hai impiegato quasi mille anni per trovarlo.»

Non c’erano limiti di tempo per la ricerca, disse Nave.

«Credo di no,» disse Horton, «anche se non ci ho mai pensato. C’erano molte cose cui non abbiamo mai pensato. E molte cose, immagino, che non ci hanno mai detto. Supponiamo che non avessi trovato questo pianeta. Cosa avresti fatto?»

Avremmo continuato a cercare.

«Magari per un milione d’anni?»

Se necessario, per un milione d’anni, disse Nave.

«E adesso che l’abbiamo trovato, non possiamo tornare indietro.»

Infatti, disse Nave.

«E allora, a che serve averlo trovato?» chiese Horton. «Lo troviamo, e la Terra non lo saprà mai. La verità è, credo, che tu non hai nessun interesse a ritornare. Sulla Terra non c’è niente, per te.»

Nave non rispose.

«Avanti,» esclamò Horton. «Ammettilo.»

Nicodemus disse: «Non ti risponderà. Nave si è ammantata di silenziosa dignità. L’hai offesa.»

«Al diavolo Nave,» disse Horton. «Ne ho sentite abbastanza, da loro. Voglio una risposta da te. Nave ha detto che gli altri tre sono morti…»

«Ci fu una disfunzione,» disse Nicodemus. «Circa cento anni dopo la partenza. Una delle pompe smise di funzionare, e i cubicoli si surriscaldarono. Io riuscii a salvare te.»

«Perché me? Perché non uno degli altri?»

«È molto semplice,» disse Nicodemus, ragionevolmente. «Tu eri il numero uno, nella fila. Eri nel cubicolo numero uno.»

«Se fossi stato nel cubicolo numero due, mi avresti lasciato morire.»

«Io non ho lasciato morire nessuno. Sono riuscito a salvare un dormiente. Dopo, per gli altri era troppo tardi.»

«Lo hai fatto in ordine numerico?»

«Sì,» disse Nicodemus. «L’ho fatto in ordine numerico. C’è un modo migliore?»

«No,» disse Horton. «No, non credo. Ma dato che tre di noi erano morti, non si è pensato di rinunciare alla missione e di tornare alla Terra?»

«Non si è pensato a questo.»

«Chi ha preso la decisione? Nave, immagino.»

«Non c’è stata nessuna decisione. Nessuno di noi ne ha mai parlato.»

Era andato tutto storto, pensò Horton. Se qualcuno ci si fosse messo d’impegno, con uno slancio sconfinante nel fanatismo, non sarebbe riuscito a rovinare tutto in modo più completo.

Una nave, un uomo, uno stupido robot dai piedi piatti… Cristo, che spedizione! E per giunta, una spedizione inutile, con biglietto di sola andata. Tanto varrebbe che non fossimo neppure partiti, pensò. Ma se non fossero partiti, si disse, a quest’ora lui sarebbe morto da molti secoli.

Cercò di ricordare gli altri, ma non vi riuscì. Poteva vederli solo vagamente, come attraverso una nebbia. Erano indistinti, confusi. Cercò di delineare i loro volti, e gli parve che non avessero volto. Più tardi, lo sapeva, li avrebbe rimpianti, ma ora non poteva. Non c’era abbastanza, di loro, per rimpiangerli. E non ce n’era il tempo. C’erano troppe cose da fare e da considerare. Mille anni, pensò, e non torneremo indietro. Perché Nave era l’unica che poteva riportarli indietro, e se Nave diceva di no, non c’era niente da fare.

«Gli altri tre?» chiese. «Sono stati sepolti nello spazio?»

«No,» disse Nicodemus. «Trovammo un pianeta dove riposeranno per l’eternità. Vuoi sapere tutto?»

«Se non ti dispiace,» disse Horton.

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