Ormai il frastuono era cessato. Il fumo si alzava in esili volute di nebbia grigia sulla terra torturata, le staccionate divelte e gli alberi di pesco ridotti a mozziconi dalle cannonate. Il silenzio, se non la pace, scese per un istante dove gli uomini si erano avventati urlando l’uno contro l’altro, spinti da un odio atavico, e avevano lottato fino all’ultimo sangue prima di cedere, esausti.
Per un tempo che era sembrato interminabile il rombo dei cannoni aveva tuonato senza interruzione e la terra dilaniata si era elevata in zampilli altissimi. Si erano sentiti nitriti di cavalli e grida rauche di esseri umani, il sibilo dei proiettili e il rumore sordo dell’impatto quando il sibilo cessava; e il fuoco era divampato fra il bagliore dell’acciaio, mentre nel vento della battaglia garrivano le bandiere.
Poi tutto era finito, era rimasto solo il silenzio.
Ma in un luogo come quello e in un giorno simile il silenzio era fuori posto, e fu presto interrotto dai gemiti di dolore, dalle invocazioni di chi chiedeva da bere o supplicava di morire, dai pianti, dai richiami e dai lamenti che si sarebbero protratti per ore sotto il sole estivo. Più tardi le sagome contorte si sarebbero irrigidite e, tra un fetore nauseabondo, le buche del terreno sarebbero diventate tombe.
Era un campo di grano che nessuno avrebbe mietuto mai, alberi che nessuna primavera avrebbe fatto rifiorire, e sul pendio che saliva verso la cima sarebbero rimaste solo le parole non dette, le azioni non compiute, i fagotti inzuppati che gridavano l’insensatezza e l’inutilità della morte.
I nomi illustri erano diventati ancora più gloriosi, ma non erano che nomi e avrebbero riecheggiato nel tempo: Brigata di Ferro, 5° New Hampshire, 1° Minnesota, 2° Massachusetts, 16° Maine.
E c’era Enoch Wallace.
Stringeva ancora il moschetto inservibile fra le mani piagate: il viso era una maschera di polvere e le scarpe erano sporche di terra e di sangue.
Ma era ancora vivo.