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Lo scantinato, enorme, si estendeva in una nebbiosa semioscurità appena interrotta dalle luci che Enoch aveva acceso in una stanza dopo l’altra, un corridoio dopo l’altro, il tutto scavato profondamente nella roccia della collina.

Laggiù erano i grandi serbatoi pieni delle soluzioni che servivano ai viaggiatori di passaggio, ma anche le pompe e i generatori azionati da un’energia sconosciuta all’uomo. Sotto il pavimento della cantina stavano i recipienti pieni di acidi e altre sostanze, fra cui i corpi temporanei in cui i viaggiatori avevano preso vita arrivando alla stazione, e che si erano lasciati dietro al momento di proseguire il viaggio. Corpi inutili che lui aveva l’incarico di distruggere.

Oltrepassati i serbatoi e i generatori, Enoch arrivò a un corridoio che si perdeva nell’oscurità. Trovò l’interruttore e lo premette, in modo da fare luce; quindi proseguì. Alle pareti si allineavano scaffalature metalliche traboccanti di manufatti, congegni tecnologici e regali portati dai viaggiatori. Dal pavimento al soffitto, l’accumulo di oggetti ricordava quello di un rottamaio galattico. In realtà, pensò Enoch, c’era ben poco da rottamare nella sua collezione. Tutto serviva e aveva uno scopo, pratico o estetico che fosse; anche se non sempre si trattava di uno scopo applicabile agli esseri umani.

In uno scaffale in fondo al corridoio c’erano degli oggetti sistemati con cura particolare e contrassegnati da etichette numerate che si riferivano a determinate pagine di diario. Erano gli oggetti di cui Enoch conosceva l’uso. Alcuni erano insignificanti, altri di grandissimo valore, anche se per il momento non servivano all’uomo; e ve n’erano alcuni, con l’etichetta rossa, che al solo pensarci mettevano i brividi.

Enoch continuò a scendere, fra il rimbombo dei suoi passi che echeggiavano in quel labirinto di fantasmi extraterrestri.

Il corridoio sfociava in una stanza ovale con le pareti rivestite da una spessa sostanza grigia, efficace nel trattenere i proiettili e nell’impedirne il rimbalzo.

Enoch si accostò a un pannello inserito in una profonda rientranza della parete, premette un pulsante e tornò in fretta al centro del locale.

Lentamente le luci si spensero e quando si riaccesero, in un fulgore abbagliante, Enoch scoprì di non essere più nella stanza ma in un posto che non aveva mai visto prima.

Stava sulla sommità di una piccola altura, il cui pendio digradava fino a un fiumiciattolo che scorreva in un pantano. Il terreno era coperto da una distesa d’erba folta e alta che ondeggiava senza vento, perché era abitata da un’infinità di animaletti. Dal mare d’erba usciva un grugnito simile a quello di centinaia di maiali affamati che s’azzuffassero davanti al truogolo. Dall’altra riva del fiume veniva un muggito roco e monotono.

Enoch si sentì accapponare la pelle e tenne pronto il fucile. Era incredibile: fiutava e conosceva il pericolo, pur sapendo che non c’era ancora pericolo. L’aria del posto — di qualunque posto si trattasse — era impregnata di minacce.

Si guardò intorno e vide che dietro di lui una fitta boscaglia si arrampicava su una catena di colline, per fermarsi davanti al mare d’erba che scorreva sotto l’altura dove egli si trovava. Oltre le colline si scorgeva il profilo blu scuro d’una catena di monti che parevano fondersi con il cielo, violacei sulla cima ma senza traccia di neve.

Due animali uscirono trotterellando dal bosco e si fermarono ai limitare della radura, mettendosi a sedere con la coda avvoltolata intorno alle zampe. Assomigliavano a lupi, o a cani, e la pelliccia luccicava al sole come se fosse unta; la testa e il muso erano senza peli. Si sarebbero potuti prendere per due vecchiacci travestiti con pelli di lupo, ma il trucco era svelato dalla lingua che pendeva dalla bocca, aguzza e d’un bel rosso vivo che spiccava sul muso bianco.

Il bosco era silenzioso. C’erano solo le due bestie fameliche sedute sulle zampe posteriori; sedute e con un ghigno senza denti rivolto a Enoch.

Il bosco era fitto e scuro; le foglie, di un verde tanto carico da sembrare nero, parevano verniciate.

Enoch tornò a girarsi dalla parte del fiume e vide, ferma sulla riva, una fila di creature mostruose; erano simili a rospi lunghi quasi due metri e di un colore indefinito. E avevano un unico occhio sfaccettato che occupava quasi tutto il muso e brillava nel sole vago della foresta, come quello di un felino in caccia che riflette un raggio di luce.

Da oltre il fiume veniva sempre il lontano muggito, intercalato da un ronzio simile a quello della zanzara, ma molto più forte e acuto.

Enoch alzò lo sguardo al cielo e vide una fila di puntini, così lontani che si distinguevano appena. Troppo in alto per decidere cosa fossero.

Abbassò la testa per guardare di nuovo gli enormi rospi acquattati in riva al fiume, ma con la coda dell’occhio notò qualcosa che si muoveva alle sue spalle e si girò di scatto verso il bosco.

I due esseri-lupo con il cranio a forma di teschio risalivano in fretta la collina, ma non era esatto dire che corressero. Piuttosto, si muovevano come se fossero stati espulsi da un tubetto.

Enoch appoggiò il calcio del fucile alla spalla, sistemandolo come se fosse una parte di lui. Premette il grilletto, ma mancò il bersaglio. Allora caricò nuovamente l’arma e sparò una seconda volta. Quando guardò, i due animali giacevano sull’erba.

Ora anche i mostruosi "rospi" stavano avvicinandosi. Strisciavano silenziosi, e, sentendosi osservati, si appiattirono al suolo. Enoch trasse di tasca due cartucce, le infilò nel caricatore, e attese. Non si udiva più il muggito di là del fiume, ma un rumore nuovo, come un calpestio di zoccoli, di cui non riusciva a individuare la provenienza. Pareva che venisse dalla foresta, ma non si scorgeva nulla.

Intanto il ronzio si era fatto più forte. Enoch guardò in alto, e vide che i puntini avevano formato un circolo, e scendevano a spirale. Tuttavia erano ancora troppo lontani per capire che cosa fossero.

Quando riabbassò lo sguardo si accorse che i "rospi" avevano ripreso l’avanzata. Puntò il fucile, e, senza portarlo alla spalla, premette il grilletto. L’occhio di uno dei mostri più vicini esplose mandando alti spruzzi come una pozza d’acqua colpita da un sasso. L’animale si appiattì ancor più sul terreno, come se qualcuno l’avesse schiacciato col piede, e giacque immobile con un foro al posto dell’occhio, mentre dalla cavità usciva una densa materia gialla, forse sangue.

Gli altri presero a indietreggiare lentamente, guardinghi, nascondendosi fra l’erba.

Ora il rumore di zoccoli era vicinissimo: veniva dalle colline. Enoch si volse e vide un enorme animale che valicava la sommità del colle, facendosi pesantemente strada fra gli alberi fitti, e calpestando con tonfi sordi il terreno. Pareva una gigantesca palla nera che si gonfiava e afflosciava con ritmo alterno, a ogni passo, oscillando e sussultando. Quel corpo mostruoso aveva quattro zampe lunghissime che si ripiegavano come quelle dei ragni. Camminava a fatica, e teneva sollevata a lungo una zampa, prima di decidersi a posarla, schiantando alberi e rami.

A quella vista, Enoch rimase come paralizzato dalla paura. Tuttavia, trovò ancora la forza di frugarsi in tasca, per prendere un’altra cartuccia.

Il ronzio intanto era diventato assordante. Con una rapida occhiata al cielo. Enoch vide che il cerchio si era rotto, e che le sconosciute creature stavano scendendo in picchiata su di lui, una dietro l’altra. Erano senz’altro uccelli rapaci, ma infinitamente più grossi e più pericolosi di quelli terrestri: piombavano giù dal cielo, come un nugolo di frecce.

Istintivamente Enoch portò il fucile alla spalla, e lo puntò contro il mostro volante più vicino, che con un sussulto si accartocciò e precipitò morto. Sparò una seconda volta, e un altro uccellaccio seguì la sorte del primo. Ancora uno sparo, e un terzo volatile si staccò dalla fila, andando a cadere in riva al fiume.

Gli altri ruppero la formazione e si allontanarono, battendo le grandi ali che parevano pale da mulino.

Ma un’ombra si allungò improvvisamente dalla sommità della collina e una lunga zampa sì piantò saldamente nel pantano, facendo schizzare il fango tutt’attorno. Il tonfo fu tanto forte da annullare tutti gli altri rumori, e subito la grossa palla nera comparve, orribile e grottesca. Enoch vide un lungo becco e, sotto di esso, una bocca rientrante, circondata da una dozzina di protuberanze, che sembravano occhi: esse erano situate sul ventre del mostro, cosicché, camminando, poteva vedere tutto quanto passava sotto di lui.

Una volta ancora Enoch prese la mira e sparò l’ultima cartuccia. Brandelli di carne esplosero dal pallone nero, colpito dalla scarica, mentre dalle ferite sgorgava un liquido nero e fumante.

Le munizioni erano finite, ma ormai non servivano più.

Le lunghissime gambe si stavano ripiegando, e il corpo dell’animale, scosso da un tremito convulso, si afflosciava a terra. Il sangue nero continuava a scorrere a rivoli fumanti, mandando un fetore nauseabondo.

Poi, d’un tratto, tutto svanì, ed Enoch si ritrovò nella stanza ovale, debolmente illuminata. Si sentiva un forte odore di polvere, e sul pavimento, ai suoi piedi, erano sparsi i bossoli delle cartucce.

Era tornato nella sua cantina. La caccia era finita.

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