Entrò nella stazione e gli sembrò che tutto fosse calmo e tranquillo, quasi come una tomba. Sulla scrivania ardeva una lampada e sul tavolino da caffè la piccola piramide mandava i suoi bagliori luminosi, simile a una di quelle sfere in cristallo che usavano nei ruggenti anni Venti per trasformare la pista da ballo in un posto magico. I riflessi schizzavano dappertutto, come un incredibile stormo di lucciole in technicolor.
Enoch si fermò un istante, indeciso, non sapendo che fare. Mancava qualcosa e un tratto si rese conto di cosa: in tanti anni c’era sempre stato un fucile, appeso al gancio o sopra la scrivania. Ma ora non c’era più.
Doveva calmarsi, pensò, e rimettersi al lavoro. Doveva riporre tutti gli oggetti che aveva imballato, scrivere molte pagine di diario e leggere i giornali. Aveva molte cose da fare.
Ulisse e Lucy erano partiti da un paio d’ore, diretti alla Centrale Galattica, ma la presenza del Talismano aleggiava ancora nella stanza, o forse non nella stanza, ma dentro di lui. Forse l’avrebbe portato con sé per sempre.
Attraversò la stanza con passo lento e andò a sedersi sul divano. Di fronte a lui la piramide di sfere continuava a mandare barbagli colorati. Allungò una mano per prenderla, poi rinunciò. A che serviva esaminarla per la millesima volta? Se non ne aveva capito il segreto prima, cosa poteva aspettarsi adesso?
Era un bellissimo oggetto, ma inutile.
Si chiese come Lucy se la sarebbe cavata e gli parve di sapere che stesse bene. Se la sarebbe cavata dovunque la portassero.
Invece di starsene seduto lì in ozio, avrebbe fatto meglio a mettersi al lavoro; a parte gli arretrati, ormai non lavorava più soltanto per sé, ma anche per la Terra. E presto la Terra avrebbe bussato alla porta. Erano previste conferenze, incontri e molte altre cose. Fra poche ore sarebbero arrivati i giornalisti. Ma prima sarebbe tornato Ulisse e con lui, forse, qualcun altro, per aiutarlo.
Avrebbe mandato giù un boccone, poi subito al lavoro. Se avesse lavorato tutta la notte, il grosso sarebbe andato a posto.
"Le notti di solitudine" pensò "sono ideali per lavorare." Si sentì abbandonato, una sensazione strana che non avrebbe dovuto provare. Non era più solo nel senso in cui lo aveva pensato appena poche ore prima: ora aveva la Terra e la galassia, Lucy e Ulisse, Winslowe e Lewis, e il vecchio filosofo sepolto nel frutteto, sotto i meli.
Si alzò e andò alla scrivania, dove prese la statuetta che Winslowe aveva scolpito per lui. La osservò alla luce della lampada, rigirandola lentamente fra le mani. Dava effettivamente un’idea di solitudine, l’essenziale solitudine di un uomo che aveva sempre camminato da solo.
Ma aveva dovuto farlo, non c’era stata scelta. Era sempre stato un lavoro per un uomo solo. Il suo compito non era finito, anzi restava molto da fare, ma ormai si era chiusa la prima fase e stava per cominciare la seconda.
Rimise a posto la statuetta e pensò che non aveva dato a Winslowe il blocco di legno portatogli dal thubano. Adesso avrebbe potuto raccontare all’amico da dove veniva il materiale che gli aveva regalato. Grazie ai diari avrebbe rintracciato l’origine di ogni singolo pezzo, ed era sicuro che il vecchio Winslowe ne sarebbe stato felice.
Un lieve, improvviso fruscio lo costrinse a voltarsi.
— Mary — esclamò.
Lei stava proprio al limite dell’ombra e i barbagli colorati della piramide di sfere le davano un aspetto fiabesco. Paragone più che appropriato, pensò Enoch in preda all’eccitazione, perché voleva dire che il suo regno fantastico non era perduto.
— Dovevo venire — disse Mary. — Eri solo, Enoch, non potevo starmene lontano.
Non poteva stargli lontano, era vero. L’aveva creata così: incapace di sottrarsi all’impulso di accorrere quando era desiderata.
Era una trappola, pensò Enoch, alla quale nessuno dei due sarebbe sfuggito. Non erano più liberi di agire di propria iniziativa, dovevano ubbidire al cieco meccanismo che lui aveva messo in azione.
Mary non sarebbe dovuta venire e lo sapeva, ma non aveva potuto farne a meno. Sarebbe stato così sempre?
Rimase immobile, combattuto fra il bisogno di lei e il vuoto irreale di cui sapeva che era fatta. Mary fece qualche passo verso di lui, ma fra un momento si sarebbe fermata.
Conosceva le regole, esattamente come lui non poteva ammettere l’inganno.
Invece non si fermò e gli si avvicinò tanto che Enoch sentì la fragranza di fiori di melo che aveva addosso. Poi allungò una mano e gliela posò sul braccio.
Non era il tocco di un’ombra: lui avvertì nettamente la pressione delle dita e la loro freschezza.
Enoch si irrigidì, con la mano di Mary sul braccio.
Le luci colorate, pensò. La piramide di sfere!
Solo adesso ricordava che gli era stata regalata da un viaggiatore appartenente a una delle razze aberranti di Alphard. Leggendo la letteratura di quei popoli aveva imparato l’arte di creare i personaggi fatati e i suoi maestri, gentilmente, avevano cercato di aiutarlo regalandogli la piramide, ma lui non aveva capito. C’era stato un fraintendimento, cosa tutt’altro che infrequente. Nella babele galattica era facilissimo non capirsi o soltanto non sapere.
La piramide di sfere era un congegno meraviglioso ma semplice, l’agente catalizzatore che distruggeva ogni tipo d’illusione e trasformava il regno incantato in realtà. Ti permetteva di plasmare quello che volevi e poi, con l’aiuto della piramide, di dargli vita come se non fosse mai stato immaginario.
Tranne, pensò Enoch, per i particolari sui quali non avresti mai potuto ingannarti. Perché tu ricordavi come stavano le cose.
Allungò una mano, incerto, ma lei aveva ritratto la sua, facendo un passo indietro.
Nel silenzio della stazione — il terribile, desolato silenzio — stettero muti uno di fronte all’altro, illuminati dall’incessante arcobaleno delle sfere. I frammenti colorati volavano come topi in corsa.
— Mi spiace — disse Mary — ma è inutile. Noi sappiamo e non possiamo ingannare noi stessi.
Lui rimase muto e vergognoso.
— Ho aspettato tanto questo momento — riprese Mary. — L’ho sognato.
— Anch’io — confessò Enoch. — Non l’avrei mai creduto possibile.
Ed era proprio così. Finché la cosa era sembrata irrealizzabile, avevano potuto sognarla. Un sogno romantico, lontano, impossibile. Forse era stato romantico proprio perché lontano e impossibile.
— È come se una bambola o un orsacchiotto di pezza avessero preso vita — disse Mary. — Mi dispiace, Enoch, ma tu non potresti mai amare una bambola o un orsacchiotto di pezza diventati improvvisamente vivi. Ricorderesti sempre com’erano prima: la bambola col suo stupido sorriso dipinto e l’orso con l’imbottitura che esce dagli strappi.
— No — esclamò Enoch. — No.
— Povero Enoch — disse Mary — sarà dura per te. Vorrei aiutarti, perché avrai una lunga vita per ripensarci.
— Ma tu — gridò lui. — Che cosa farai, adesso?
Era stata lei, pensò, a trovare il coraggio. Il coraggio di prendere le cose per quello che erano.
Come l’aveva intuito? Come aveva saputo?
— Me ne andrò — rispose Mary. — Me ne andrò per sempre. Non tornerò più, nemmeno se avrai bisogno di me. Non c’è altra soluzione.
— Non puoi andartene — disse Enoch. — Sei intrappolata come me.
— È molto strano — osservò lei. — Tutti e due vittime della stessa illusione.
— Tu no — disse lui. — Tu no.
Mary annuì gravemente. — Sì, anch’io. Come tu non puoi amare la bambola che ti sei fabbricato, così io non posso amare chi mi ha creata. Ci illudevamo che fosse possibile e forse ci illudiamo ancora; riteniamo addirittura che sia nostro dovere. Per questo ci sentiamo infelici e colpevoli.
— Potremmo tentare — disse Enoch — se tu restassi.
— E finire per odiarti? O peggio, per essere odiata da te? Meglio sentirci infelici e colpevoli. Meglio dell’odio.
Fece un rapido gesto e afferrò la piramide. Alzò il braccio.
— No — gridò Enoch. — No, questo no.
La piramide scintillò roteando nell’aria e andò a infrangersi contro il camino. Le luci si spensero e qualcosa (vetro? metallo? pietra?) ricadde tintinnando sul pavimento, in frammenti.
— Mary! — chiamò Enoch, lanciandosi verso il buio.
Ma non c’era più nessuno.
— Mary — ripeté. Il grido si era trasformato in un lamento.
Era scomparsa e non sarebbe più tornata.
Anche quando l’avesse chiamata, non sarebbe tornata.
Rimase solo nel buio e nel silenzio, e la voce di un secolo di vita sembrò parlargli in un linguaggio muto.
"Tutto è difficile" diceva la voce. "Non c’è niente di facile."
C’era stata la ragazza di campagna che viveva all’angolo della strada, poi la bellezza del Sud che l’aveva guardato mentre passava davanti al suo cancello, e infine Mary. Tutte scomparse, per lui.
Si aggirò pesantemente nella stanza e cercò il tavolo a tastoni. Lo trovò e accese la luce.
Fermo accanto al tavolo, guardò la stanza. Nell’angolo dov’era lui adesso c’era stata la cucina, e dove si trovava il camino c’era stato il soggiorno; ma tutto era cambiato, e da parecchio tempo. Eppure, poteva ancora vederli come fosse stato ieri.
I giorni erano passati, la gente era scomparsa.
Lui solo restava.
Aveva perduto il suo mondo, se l’era lasciato alle spalle.
E così era per tutti gli altri uomini che vivevano in quel momento.
Forse non se ne rendevano ancora conto, ma anch’essi si erano lasciati alle spalle il loro mondo. E non sarebbe tornato mai più.
Si dice addio a tutte le cose, all’amore e ai sogni.
— Addio, Mary — disse Enoch. — Perdonami, e Dio ti aiuti.
Sedette al tavolo, prese il diario e lo sfogliò finché trovò la pagina su cui doveva cominciare a scrivere.
Aveva del lavoro da fare.
Ma ora era pronto.
Aveva detto l’ultimo addio.