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Enoch attraversò barcollante la stanza, e si appoggiò alla scrivania perché le gambe non lo reggevano. Il fetore diminuiva, e la sua mente cominciava a schiarirsi. Gli sembrava di aver fatto un brutto sogno: quanto era successo aveva dell’incredibile. L’essere immondo era giunto attraverso il materializzatore ufficiale, di cui si servivano solo i membri della Centrale Galattica: e nessun membro della Centrale si sarebbe mai comportato in quel modo. Inoltre, l’uomo-topo conosceva la parola d’ordine che serviva a far aprire la porta e, seconda coincidenza strana, oltre a lui, Enoch, solo i membri della Centrale conoscevano quella parola.

Enoch si era ripreso abbastanza da poter ragionare normalmente. Prese il fucile, lieto di constatare che la stazione non aveva subito danni, ma preoccupato al pensiero che l’uomo-topo fosse fuggito, e ora vagasse libero sulla Terra, cosa questa inammissibile e contraria alle disposizioni della Centrale. Gli abitanti dei pianeti appartenenti alla confraternita galattica non potevano per alcun motivo uscire dalle stazioni, nei pianeti non ancora affiliati.

Col fucile stretto in pugno, Enoch studiava il sistema di attirare l’uomo-topo nella stazione.

Pronunciò la parola d’ordine, entrò nel ripostiglio, e di lì uscì sull’aia.

Lo sconosciuto correva attraverso il campo, e aveva già quasi raggiunto il limitare del bosco.

Enoch lo inseguì quanto più velocemente poteva, ma non era ancora arrivato a metà del campo, che lo sconosciuto scomparve, con un balzo, nel fitto degli alberi.

Cominciava a farsi buio; sebbene il sole illuminasse ancora la sommità delle piante, il sottobosco era già in ombra. Mentre correva, Enoch scorse l’uomo-topo che, con la sua andatura a balzi, risaliva il versante di un piccolo burrone. Se fosse proseguito in quella direzione, la caccia sarebbe certamente durata tutta la notte: oltre il burrone c’era una specie di piattaforma rocciosa, che si protendeva nel vuoto, sulla quale lo sconosciuto sarebbe rimasto, è vero, in trappola, ma in posizione di vantaggio, pericolosa per chi cercasse di avvicinarsi. E non c’era tempo da perdere, perché il sole stava già tramontando e presto sarebbe scesa l’oscurità.

Enoch piegò verso ovest, per girare attorno alla piattaforma, sempre tenendo d’occhio l’uomo-topo che continuava ad arrampicarsi. Stava cacciandosi in trappola, come lui aveva previsto. Non poteva tornare indietro, e non aveva la possibilità di andare oltre. Una volta raggiunta la piattaforma, non gli restava che cercare di nascondersi fra le rocce.

Sempre di corsa, Enoch attraversò uno spiazzo coperto di felci e raggiunse un punto che si trovava circa cento metri sotto la piattaforma, dove fitti cespugli e qualche alberello gli avrebbero offerto un provvisorio riparo. Il terreno era cosparso di massi più o meno grossi, staccatisi dal pendio della collina durante inverni particolarmente rigidi: coperti com’erano di fitto muschio, rendevano pericoloso il cammino.

Senza fermarsi, Enoch scorse un’ombra sulla piattaforma. Si acquattò prontamente dietro un nocciolo e, tra l’intricato fogliame, vide la sagoma dell’uomo-topo stagliarsi netta contro il cielo, con l’arma in pugno. La testa si volgeva ora da una parte, ora dall’altra, come se lo sconosciuto stesse attentamente esaminando i dintorni.

Enoch rimase immobile, col fucile stretto in pugno, mentre le nocche delle dita, che s’era sbucciate contro un sasso, gli bruciavano dolorosamente.

L’uomo-topo scomparve dietro un macigno, ed Enoch trasse piano a sé il fucile, per esser pronto ad usarlo. Ma avrebbe osato sparare? Avrebbe osato uccidere quella creatura di un altro mondo?

L’altro avrebbe potuto ucciderlo nella stazione, quando lui era venuto meno per il fetore. Ma, invece di approfittare della sua momentanea debolezza per assassinarlo, si era dato alla fuga. Forse la paura era stata più forte d’ogni altro impulso; ma poteva anche darsi che non si fosse sentito di uccidere.

Enoch scrutò attentamente le rocce della piattaforma, ma non vide più alcun segno di vita. Doveva arrampicarsi subito sul pendio che portava alla piattaforma. In meno di mezz’ora sarebbe stato buio, e la faccenda doveva essere sistemata prima. Se lo sconosciuto fosse riuscito a scappare col favore delle tenebre, avrebbe avuto ben poca speranza di acciuffarlo.

Ma una voce, dentro di lui, gli sussurrava: "Perché te la prendi tanto per gli affari di quella gente? Perché non informi la Terra dell’esistenza di razze non-umane nella galassia? Forse perché non ne sei autorizzato? E perché hai impedito a quell’uomo-topo di sabotare gli impianti della stazione? Se l’avessi lasciato fare, tu ora saresti libero di agire, senza timore di interferenze. Se l’avessi lasciato fare, per te sarebbe stato assai meglio".

"Ma non potevo farlo!" gridò un’altra voce nel suo cuore "Assolutamente non potevo!"

Un fruscio in un cespuglio, alla sua sinistra, lo riportò alla realtà. Si volse di scatto, pronto a far fuoco, e vide Lucy Fisher a non più di venti metri di distanza.

— Vattene! — le gridò, dimenticando che non poteva sentirlo.

Ma sembrava che lei non lo avesse nemmeno visto. Con la mano sinistra alzata, gesticolava in direzione delle rocce sovrastanti.

"Vattene" ripeté fra sé Enoch. "Vattene di qui!"

Lei si volse, lo vide e, intuendo il suo desiderio, fece un cenno di diniego; poi prese a risalire rapidamente il pendio.

Enoch balzò in piedi, con l’intenzione di seguirla e, improvvisamente, sentì come uno sfrigolio e percepì un intenso odore di ozono.

Tornò a gettarsi a terra e vide che, a pochi passi innanzi a sé, un tratto di terreno ribolliva fumando, mentre intorno i sassi e i frammenti di roccia si fondevano per il calore.

Capì allora che lo sconosciuto era armato di una pistola a raggi, di terribile potenza.

Facendosi forza, si rialzò e riprese a salire, con maggior cautela questa volta, e cercando sempre di ripararsi dietro qualche cespuglio.

Un secondo sfrigolio, un forte odore di ozono… L’uomo-topo aveva sparato ancora, colpendo una zolla d’erba che si incendiò, fumando, mentre le cime di alcune betulle, troncate di netto dal raggio mortale, precipitavano al suolo in un turbinio di cenere e di scintille.

Lo sconosciuto faceva dunque sul serio, doveva aver capito di esser chiuso in trappola.

Enoch era molto preoccupato per Lucy. Quella sciocchina avrebbe dovuto ubbidirgli. Non era un luogo per lei. Faceva già male a girare per i boschi a quell’ora: certamente Hank l’avrebbe nuovamente accusato di averla rapita. Chissà perché era arrivata fin lì…

Il crepuscolo s’infittiva, e solo la sommità degli alberi più alti era ancora illuminata dai raggi dell’ultimo sole. L’aria andava gradatamente rinfrescandosi, e il terreno emanava odore d’umidità. Poco lontano, un uccello mandava il suo lamentoso richiamo.

Enoch continuò a inerpicarsi con cautela, finché arrivò sotto un grosso tronco abbattuto, che sembrava messo lì come una barricata. Si nascose dietro di esso e riprese fiato.

L’uomo-topo era scomparso e non sparava più.

Sempre al riparo del tronco, Enoch esaminò il terreno davanti a lui. Calcolò che avrebbe potuto raggiungere la piattaforma con due balzi, riparandosi dopo il primo dietro un mucchio di pietre, e fermandosi poi proprio sotto il macigno che lo delimitava da quella parte. Una volta lassù, avrebbe deciso il da farsi.

Era impossibile far progetti, prestabilire una tattica. Una volta sulla piattaforma, avrebbe agito secondo l’ispirazione del momento: sperava di riuscire a catturare vivo lo sconosciuto, pronto a portarlo di peso fino alla stazione. Lì all’aperto, il fetore sarebbe stato meno micidiale.

Esaminò ancora attentamente i massi che si ammucchiavano sulla piattaforma, ma non riuscì a scorger l’uomo-topo; finalmente decise di muoversi, strisciando con la massima cautela per non far rumore. D’un tratto, avvertì un fruscio leggero alle spalle, e subito si volse, impugnando il fucile. Ma non fece neppure in tempo a prendere la mira, che un’ombra gli fu sopra e una grossa mano gli tappò la bocca.

— Ulisse? — riuscì a mormorare, ma l’altro si limitò a fargli segno di tacere, prima di lasciarlo libero.

Poi Ulisse gli si sdraiò accanto e sussurrò nell’orecchio: — Il Talismano. Ha il Talismano.

— Il Talismano! — esclamò Enoch, dimenticando ogni prudenza.

Dalla piattaforma sovrastante, rotolò un masso che cadde sobbalzando lungo il pendio. Enoch si appiattì al riparo del tronco: — Giù — gridò all’amico. — Giù, è armato.

Ma Ulisse gli artigliò la spalla: — Guarda, Enoch, guarda!

Enoch sollevò la testa e vide, sul ciglio del pendio, stagliate contro il cielo già scuro, due figure avvinghiate.

— Lucy! — urlò.

In una di esse, aveva riconosciuto Lucy. Nell’altra, l’uomo-topo.

"È riuscita a strisciargli alle spalle, quella sciocca!" pensò. Mentre lo sconosciuto dedicava tutta la sua attenzione al pendio, lei lo aveva aggirato, e colto di sorpresa. Era armata di un bastone, probabilmente ricavato dal ramo d’un albero, e lo teneva levato in alto, pronta a colpire, ma l’altro la stringeva, impedendole di muoversi.

— Spara — gli ordinò Ulisse.

Enoch puntò il fucile, aguzzando gli occhi nell’oscurità ormai quasi completa. Erano così vicini, quei due… troppo vicini.

— Spara! — urlò Ulisse.

— Non posso. È troppo buio.

— Devi sparare — gl’intimò Ulisse con voce tesa e dura. — Devi approfittare dell’occasione.

Enoch tornò a prendere la mira. Nonostante il buio, l’aria era limpida e la visibilità buona; ma non era solo l’oscurità a trattenerlo. Ricordava il colpo mancato, laggiù durante l’ultima "caccia"; se aveva sbagliato allora, poteva sbagliare anche adesso.

— Spara — tuonò Ulisse per la terza volta.

Enoch premette il grilletto e il colpo partì. Sull’orlo della piattaforma, appena visibile nell’ultimo chiarore del crepuscolo, la creatura di un mondo sconosciuto si afflosciò, inerte, col capo orribilmente squarciato.

Enoch lasciò cadere il fucile e si gettò al suolo, conficcando le unghie nel muschio, sopraffatto dall’orrore di quello che sarebbe potuto accadere se avesse sbagliato la mira… Fortunatamente, le lunghe e frequenti esercitazioni non erano state inutili!

La pace di quella sera tranquilla calmò il suo turbamento. Gli pareva che il cielo, e le stelle, e tutto l’universo gli si fossero stretti attorno per sussurrargli che erano con lui; per un attimo gli parve di aver intravisto una grande verità, e provò una serenità sconosciuta.

— Enoch — mormorò Ulisse. — Enoch, fratello mio…

La voce di Ulisse aveva un timbro nuovo, quasi fosse rotta dai singhiozzi; per la prima volta chiamava "fratello" il terrestre.

Enoch si drizzò in ginocchio, e vide che sopra i massi della piattaforma si diffondeva una luce delicata, come se una gigantesca lucciola avesse acceso la sua lampada per rischiarare la scena.

La "lucciola" si avvicinava, muovendosi tra le rocce, e Lucy pure: era come se la fanciulla camminasse reggendo una lanterna.

Ulisse posò una mano sul braccio di Enoch.

— Vedi? -. domandò.

— Sì. Che cosa…

— È il Talismano! — esclamò estatico Ulisse, in un sussurro. — E Lucy ne è la nuova custode. Colei che abbiamo cercato inutilmente per tanti anni!

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