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La stazione era deserta e silenziosa come quando era uscito. Non c’erano messaggi e la macchina se ne stava silenziosa nel suo angolo, senza neppure ticchettare.

Enoch posò il fucile sulla scrivania e a fianco mise le riviste, poi si tolse la giacca e l’appese alla spalliera della sedia.

Doveva ancora leggere il giornale del giorno prima e aggiornare il diario, cosa che avrebbe richiesto parecchie ore. Anche se avesse scritto in grafia piccola gli ci sarebbero volute diverse pagine che avrebbe riempito con logica e in ordine meticoloso; doveva essere chiaro che tutto era stato scritto il giorno stesso e non con ventiquattr’ore di ritardo. Avrebbe trascritto ogni avvenimento, le sfaccettature, il suo modo di reagire e le riflessioni che gli avevano ispirato. Aveva sempre fatto così, non poteva cambiare di punto in bianco. E aveva fatto così perché si era creato, al di fuori della Terra e della galassia, un mondo tutto suo nel quale lavorava come un monaco medievale in una cella. Era stato un osservatore attento e interessato, né si era limitato a osservare, ma pur restando estraneo a tutto quello che accadeva nel mondo esterno, aveva cercato di andare in fondo alle cose. Durante gli ultimi due giorni, tuttavia, la situazione era cambiata. Sia la Terra che la galassia l’avevano invitato a recitare una parte attiva negli avvenimenti, e non poteva più svolgere il compito dell’osservatore che si accosta ai fatti con imparzialità e freddezza. Non si trattava più soltanto di scrivere.

Si avvicinò allo scaffale dei diari, tolse l’ultimo e incominciò a sfogliarlo. Scoprì che gli restavano pochissime pagine, forse neppure sufficienti a descrivere gli ultimi avvenimenti. Avrebbe dovuto inaugurare un nuovo quaderno, pensò.

Rimase a fissare le righe che aveva scritto solo due giorni prima. L’altro ieri, pensò, e sembravano già pagine sbiadite dal tempo. Forse era proprio così, in fondo: un’altra epoca. L’ultima annotazione prima che il mondo gli crollasse addosso.

A che sarebbe servito continuare il diario? Ormai aveva scritto tutto quello che importava. La stazione sarebbe stata chiusa e la Terra perduta. A prescindere da quello che sarebbe capitato a lui, trasferito in un’altra stazione o lasciato dov’era, per il suo pianeta era la fine.

Chiuse il quaderno con uno scatto rabbioso e lo rimise a posto. Poi tornò alla scrivania.

La Terra era perduta e anche lui. Era furente contro il destino (posto che ci fosse un destino) e contro la stupidità intellettuale non solo del pianeta, ma della stessa galassia, che a causa di inutili battibecchi rischiava di arrestare la propria espansione in quel settore dello spazio. Anche lassù, come succede nel nostro mondo, la complessità della tecnologia, i nobili pensieri, la saggezza e l’erudizione potevano determinare una cultura ma non una civiltà. Per essere veramente civili, occorreva qualcosa di più sottile di una macchina o del pensiero.

Enoch si sentì in preda a una tensione che l’avrebbe spinto a fare qualunque cosa, dall’aggirarsi nella stazione come un leone in gabbia a correre fuori gridando a pieni polmoni, a rompere e a fracassare oggetti per sfogare in qualche modo rabbia e delusione.

Allungò una mano per prendere il fucile, aprì il cassetto dove teneva le munizioni e lacerò il pacchetto, riempiendosi le tasche di cartucce.

Rimase dov’era, con il fucile in mano. Per un attimo si sentì oppresso dal silenzio della stanza, così fredda e muta, poi tornò a posare l’arma.

Che infantilismo sfogare rabbia e risentimento contro cose irreali. Inoltre, non c’era un vero e proprio motivo che giustificasse la sua irritazione. Negli avvenimenti c’era un significato che poteva essere capito e accettato. Era il genere di cosa cui un uomo avrebbe dovuto essere abituato da tempo.

Si guardò intorno e gli parve che la stazione silenziosa e deserta fosse in attesa di un evento previsto nel naturale flusso del tempo.

Rise piano e impugnò nuovamente il fucile.

Irreale o no, gli avrebbe tenuto la mente occupata e per un po’ lo avrebbe liberato dai problemi che lo assillavano. E poi erano dieci giorni che non si esercitava.

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