Enoch schedò il messaggio e inviò la conferma:
N. 406302. RICEVUTO. CAFFÈ SUL FUOCO. ENOCH.
Rimessa a zero la macchina, si avvicinò al serbatoio liquido numero 3 che aveva preparato prima di uscire. Controllò la temperatura e il livello della soluzione e si assicurò una volta ancora che il recipiente fosse sistemato al posto giusto, in rapporto al materializzatore.
Poi andò a esaminare un secondo materializzatore, quello ufficiale e d’emergenza installato in un angolo, e constatò che era a posto. Era sempre a posto, ma ogni volta che Ulisse preannunciava il suo arrivo non mancava di controllarlo. Del resto, se avesse trovato qualche guasto o difetto non avrebbe potuto far altro che spedire un messaggio urgente alla Centrale Galattica. Nel qual caso avrebbero mandato un tecnico con il materializzatore normale per metterlo a posto.
Come il suo nome lasciava indovinare, il materializzatore ufficiale d’emergenza veniva usato solo per le visite del personale della Centrale o per eventuali casi estremi; il suo funzionamento era indipendente da quello della stazione locale.
Ulisse, ispettore della stazione terrestre e di molte altre, avrebbe potuto servirsi del materializzatore ufficiale quando avesse voluto, senza alcun preavviso. Ma in tanti anni non aveva mai mancato (Enoch lo ricordava con un certo orgoglio) di inviare un messaggio per avvertirlo. Era una cortesia certamente non concessa a tutte le stazioni galattiche, anche se ad alcune indubbiamente sì.
Quella sera, Enoch pensò, avrebbe parlato a Ulisse della sorveglianza a cui era sottoposto da una decina di giorni; si pentì di non averlo fatto prima, ma di fronte alla prospettiva di ammettere che la razza umana poteva rappresentare un problema per l’installazione, aveva provato una certa riluttanza.
Era assurdo, e lo sapeva, farsi ossessionare dal bisogno di dimostrare che la popolazione terrestre fosse buona e ragionevole: perché sotto molti aspetti non era assolutamente vero. Forse dipendeva dal fatto che l’umanità non era abbastanza matura, ma se qualche volta si mostrava intelligente e compassionevole, in altre occasioni era un vero flagello.
Eppure Enoch era convinto che se l’umanità avesse saputo cosa c’era fra le stelle, poco per volta avrebbe imparato a controllarsi e a crescere, e a tempo debito sarebbe stata accolta nella grande confraternita dei popoli dello spazio.
E una volta ammessa, avrebbe dato prova delle sue possibilità e avrebbe acquistato importanza, perché era una razza ancora giovane e piena d’energia… anzi, fin troppo energica.
Enoch scosse la testa e attraversò nuovamente la stanza, per andare a sedersi alla scrivania. Avvicinò a sé il pacco della posta e slegò lo spago che Winslowe aveva usato per tenerla.
C’erano i quotidiani, un settimanale, le due riviste scientifiche "Cosmos" e "Science" e… la lettera.
Enoch spinse da parte i giornali e dedicò la sua attenzione alla lettera. Era partita da Londra per via aerea e il mittente gli era sconosciuto. Si chiese perché un estraneo dovesse scrivergli da Londra, ma rifletté che per lui erano tutti estranei: non aveva conoscenze in Inghilterra né in altre parti del mondo.
Finalmente aprì la busta ed estrasse il foglio che spianò sulla scrivania, avvicinando la lampada per leggere meglio:
Egregio signore,
immagino che lei non mi conosca. Sono un redattore della rivista inglese "Cosmos", cui lei è abbonato da parecchi anni. Non scrivo sulla carta intestata della casa editrice perché questa è una comunicazione privata, non ufficiale e forse addirittura un po’ indiscreta.
Ritengo le interesserà sapere che lei è il nostro più vecchio abbonato, in quanto riceve la rivista da oltre ottant’anni.
Mi rendo perfettamente conto che la cosa non mi riguarda, ma confesso che il suo caso mi ha incuriosito e mi sono chiesto se lei abbia personalmente rinnovato l’abbonamento in tutto questo tempo o se invece qualcun altro, per esempio suo padre, abbia cominciato e lei abbia quindi mantenuto la consuetudine.
La mia curiosità è indubbiamente eccessiva e costituisce un’imperdonabile intromissione, per cui se deciderà di ignorarla non solo avrà ogni diritto di farlo, ma sarà il comportamento più naturale. D’altra parte, se deciderà di rispondere sarò felice di ricevere una sua lettera.
A mia difesa posso dire soltanto che lavoro da tanto tempo per questa testata che provo un senso d’orgoglio al pensiero di avere un abbonato fedele da oltre ottant’anni. Non credo esista un’altra pubblicazione che possa vantarsi di aver destato tanto interesse in un lettore.
Con l’espressione del più profondo rispetto, rimango il suo…
Seguiva la firma.
Enoch allontanò la lettera.
"Ci risiamo" disse tra sé. "Ecco un altro che mi tien d’occhio, anche se lo fa nel modo più discreto e delicato possibile." Se non altro, non era probabile che gli procurasse guai.
Ma il redattore si era incuriosito, aveva provato un comprensibile senso di stupore all’idea che qualcuno fosse abbonato alla sua rivista da più di ottant’anni.
Con il passare del tempo la gente si sarebbe interessata a lui sempre di più: Enoch non era preoccupato solo per gli osservatori accampati intorno alla stazione, ma anche per i potenziali altri. Un uomo ha un bel nascondersi, non può scomparire del tutto; presto o tardi il mondo si accorgerà della sua esistenza e andrà a bussare alla sua porta, ansioso di sapere perché ci tenga tanto a non farsi vedere.
Si rese conto che era assurdo sperare in un’altra dilazione. Il mondo gli si chiudeva intorno.
"Ma perché non mi lasciano in pace" pensò. Se avesse potuto spiegare qual era la situazione, avrebbero capito. Purtroppo non poteva spiegare, e comunque ci sarebbe stato chi l’avrebbe perseguitato ugualmente.
Un ronzio intermittente, che proveniva dal materializzatore, richiamò la sua attenzione. Enoch si girò da quella parte.
Il thubano era arrivato: nel serbatoio si vedeva una massa dai contorni incerti e di sostanza sconosciuta. Sopra di lui, una specie di cubo navigava pigramente nella soluzione.
Il bagaglio, pensò Enoch. Ma il messaggio non parlava di bagagli.
Corse verso il materializzatore e un leggero ticchettio lo informò che il thubano gli stava dicendo qualcosa.
— Presente per lei — significava il ticchettio. — Vegetazione morta.
Enoch sbirciò il cubo che galleggiava sul liquido.
— Prenda — ticchettò il thubano. — Portato in regalo.
Confuso, Enoch formulò la risposta picchiettando con la punta delle dita sul vetro del serbatoio. — La ringrazio, egregio. — Si augurò di aver usato l’espressione giusta, anche se si trattava di un ammasso informe. In casi simili i problemi d’etichetta erano quanto mai complessi. Con alcuni visitatori bisognava usare un linguaggio fiorito (ma le fioriture variavano di volta in volta), con altri bisognava rivolgersi in termini semplici, addirittura rudi.
Estrasse il cubo dal serbatoio e vide che si trattava di un blocco di legno piuttosto pesante, nero come l’ebano e di grana così compatta che sembrava pietra. Sorrise fra sé, pensando che, a furia di ascoltare Winslowe, era diventato un esperto nel giudicare la qualità del legno artistico.
Posò il blocco a terra e tornò al serbatoio.
— Le dispiacerebbe — ticchettò il thubano — dirmi cosa farà di lui? Da noi, sostanza molto inutile.
Enoch esitò, cercando disperatamente l’equivalente in codice della parola "scolpire".
— Allora? — domandò il thubano.
— Mi scusi, egregio, non mi servo spesso di questa lingua e non sono esperto.
— La smetta con questo "egregio". Sono individuo comune.
— Lo trasformiamo, gli diamo un’altra forma — cercò di spiegare Enoch. — Lei è una creatura con la vista? In tal caso le farò vedere.
— Niente vista — interruppe il thubano. — Vedere no, ma posso fare molte altre cose.
Quando era arrivato aveva forma sferica, ora cominciava ad appiattirsi.
— Lei — disse il thubano — è un bipede.
— Sì.
— Il pianeta è solido?
Solido? si chiese Enoch. Già, il contrario di liquido. E subito trasmise: — Solo per un quarto. Il resto è liquido.
— Il mio quasi interamente liquido. Pochissimo solido. Mondo molto riposante.
— Vorrei chiederle una cosa — picchiettò Enoch.
— Chieda.
— Voi siete un popolo di matematici, vero?
— Sì — rispose la creatura. — È una eccellente ricreazione. Tiene occupata la mente.
— Vuol dire che non ve ne servite per scopi pratici?
— Oh, una volta sì, ma ora non è più necessario. Abbiamo da molto tempo tutto ciò che ci occorre e riposiamo…
— Ho sentito parlare del vostro sistema di numerazione.
— È diverso. Molto diverso. E senz’altro migliore — disse il thubano.
— Potrebbe parlarmene un po’?
— Conosce il sistema di calcolo adottato dalla gente di Polaris VII?
— No — batté Enoch sul vetro.
— E allora è inutile che le spieghi il nostro. Deve imparare prima quello.
Enoch si diede dello stupido: avrebbe dovuto aspettarselo. Quelli della galassia sapevano tante cose e lui era così ignorante, capiva così poco di quello che sapeva…
Eppure sulla Terra esistevano certamente uomini in grado di capire. Uomini che sarebbero stati pronti a dare qualunque cosa, la vita praticamente, per imparare il pochissimo che era a sua conoscenza, e che avrebbero saputo servirsene.
Lassù, fra le stelle, c’era un’enorme massa di conoscenze che solo in parte erano un’estensione dei fatti già noti all’uomo; per il resto si trattava di argomenti completamente sconosciuti, e che senza aiuto gli uomini della Terra non avrebbero saputo neanche immaginare.
Altri cento anni, pensò Enoch. Quanto avrebbe imparato in altri cento anni? E in mille?
— Adesso io riposo — comunicò il thubano. — Lieto di aver comunicato con lei.