La macchina dei messaggi emise un sibilo ed Enoch Wallace posò il quaderno su cui stava scrivendo. Si alzò, attraversò la stanza in direzione della macchina, schiacciò un bottone e inserì una chiave. Il sibilo si interruppe.
La macchina cominciò a ronzare e il messaggio prese forma sulla lastra, dapprima indistinto, poi sempre più nitido. Diceva:
N. 406301 A STAZIONE 18327. VIAGGIATORE A 16097. 38 ORIGINE THUBAN VI. NIENTE BAGAGLIO. CONTENITORE LIQUIDO TIPO 3. SOLUZIONE 27. PARTENZA PER STAZIONE 12892 A 16439.16. CONFERMARE.
Enoch alzò gli occhi al grande cronometro galattico appeso al muro: mancavano quasi tre ore.
Premette un bottone e il sottile foglio metallico su cui era scritto il messaggio uscì da un lato della macchina: il duplicato scivolò da solo nel raccoglitore. La macchina sussurrò e la lastra matrice tornò pulita.
Enoch tirò la piastra metallica, fece passare la doppia spirale del classificatore negli appositi fori e posò le dita sui tasti per scrivere la risposta:
N. 406301. RICEVUTO. CONFERMA TEMPORANEA.
Il messaggio si materializzò sulla lastra e lui ve lo lasciò.
Thuban VI? Era già arrivato qualcuno da laggiù? Appena terminato quel che gli restava da fare, avrebbe controllato nello schedario.
Trattandosi di un contenitore liquido del tipo 3, non prometteva di essere un arrivo interessante: era faticoso fare quattro chiacchiere con gli esseri che avevano bisogno di serbatoi del genere, perché il più delle volte avevano un concetto di linguaggio cui era difficile adeguarsi. Spesso anche il modo di pensare era troppo diverso per creare quel minimo di terreno comune necessario alla comunicazione.
Naturalmente, pensò, non era sempre così. Qualche anno prima uno di quei tank aveva ospitato un viaggiatore proveniente dall’Idra (o erano le Iadi?), ed Enoch ricordava di avere trascorso con lui una piacevolissima nottata, rischiando quasi di non farlo ripartire in tempo. Si erano raccontati moltissime cose (anche se la comunicazione non era esattamente del tipo verbale) e nel poco tempo che avevano avuto a disposizione avevano fatto veramente amicizia, forse addirittura un po’ di fratellanza.
Lui, o lei, o la cosa — non si erano soffermati granché su questo aspetto — non era più tornato, ma Enoch sapeva che solo pochi tornavano. Per lo più erano viaggiatori di passaggio…
Comunque l’aveva annotato come al solito, lei o lui o esso che fosse; l’aveva messo nero su bianco come faceva sempre, con ogni creatura di passaggio. Nero su bianco: ricordava di aver passato l’intero pomeriggio del giorno successivo a tavolino, scrivendo nel quaderno tutte le storie che l’amico gli aveva raccontato, tutte le descrizioni di quel lontano, bellissimo ed esasperante paese (esasperante perché c’erano tante cose che non riusciva a capire); poi si era soffermato sul calore e l’amicizia nata fra lui e l’essere brutto, contorto e deforme che proveniva da un altro mondo. Non passava giorno che non provasse il desiderio di tirar fuori il diario per rivivere quella notte… Eppure, non l’aveva mai fatto: era davvero strano come non trovasse mai il tempo di sfogliare il quaderno e rileggere quello che aveva scritto.
Si allontanò dalla macchina dei messaggi e andò a prendere un serbatoio liquido numero 3, facendolo rotolare sotto il materializzatore. Lo sistemò nella posizione giusta e lo legò al suo posto, poi estrasse il tubo flessibile retrattile e schiacciò il tasto 27 del selettore. Riempì il serbatoio e quindi liberò il tubo, che tornò a infilarsi nella parete.
Ritornò alla macchina, cancellò il messaggio che vi aveva scritto e inviò la conferma definitiva che tutto era pronto per ricevere il viaggiatore proveniente da Thuban; aspettò la doppia conferma e azzerò la macchina, pronta a ricevere altri messaggi.
Consultò lo schedario che teneva vicino alla scrivania e aprì uno dei cassetti pieni di documenti; dopo un rapido esame scoprì che Thuban VI era presente e collegato alla data del 22 agosto 1931. Attraversò la stanza e cercò un quaderno negli scaffali zeppi di fascicoli, libri e riviste che coprivano la parete fino al soffitto. Lo trovò e tornò alla scrivania.
Il 22 agosto 1931 era stato un giorno tranquillo: era arrivato un solo viaggiatore, quello proveniente da Thuban VI. Enoch aveva dedicato al visitatore appena un paragrafo del suo diario:
Arrivata oggi massa informe da Thuban VI. Non saprei come descriverla altrimenti. È un grumo di materia, probabilmente carne, e cambia forma periodicamente, seguendo un ritmo proprio; a momenti sembra una palla, poi si appiattisce e si deposita sul fondo del serbatoio come una focaccia, quindi comincia a contrarsi e si gonfia fino a ritornare sferica. Il mutamento avviene lentamente e ha un andamento ritmico, ma solo nel senso che segue sempre lo stesso schema. Non sembra che vi sia alcun rapporto con il tempo. Ho cercato di cronometrare il processo, ma non sono riuscito a scoprire una periodicità regolare. Il periodo più breve per svolgere il ciclo completo è stato di sette minuti, il più lungo diciotto. Forse con un controllo più prolungato si potrebbe stabilire se esiste una periodicità regolare, ma non ho avuto tempo sufficiente per effettuarlo. Il traduttore semantico non è servito nel caso di questo soggetto, che emetteva una serie di bruschi ticchettii. Consultando il manuale di pasimologia, ho scoperto che stava cercando di dirmi che andava tutto bene, che non aveva bisogno di cure e che lo lasciassi in pace. L’ho accontentato.
In fondo alla pagina c’era una nota: "Vedi 16 ottobre 1931".
Girò le pagine finché arrivò al 16 ottobre, il giorno in cui Ulisse era venuto a ispezionare la stazione.
Naturalmente il suo vero nome non era Ulisse, anzi, non aveva nome perché fra la sua gente non ce n’era bisogno. Per l’identificazione ricorrevano a un’altra terminologia, molto più espressiva. Ma si trattava di concetti talmente astrusi, anche solo a doverli immaginare, che gli esseri umani non riuscivano a servirsene.
— Ti chiamerò Ulisse — aveva detto Enoch la prima volta che si erano incontrati. — Bisogna che ti dia un nome.
— Mi piace — aveva risposto lo sconosciuto, che ormai non era più tale. — Posso chiederti in base a cosa lo hai scelto?
— Apparteneva a un grande uomo della mia razza.
— Sono contento: ha un suono dignitoso e nobile e, detto fra noi, sono fiero di portarlo. Io ti chiamerò Enoch; noi due dovremo lavorare insieme per molti dei vostri anni.
"Infatti ne sono passati molti…" pensò lui, fissando le pagine del diario che portava la data di più di trent’anni prima. Erano stati anni interessanti, avevano arricchito la sua esperienza in modo che non sarebbe stato possibile nemmeno immaginare, prima di vedere quello che aveva visto.
E tutto questo sarebbe continuato ancora a lungo, forse per secoli o millenni… Finché, alla fine, cosa sarebbe venuto a sapere?
Ma forse la conoscenza non era l’aspetto più importante del processo.
Magari non sarebbe successo proprio niente, perché adesso c’era un intruso. Qualcuno lo sorvegliava (forse uno, forse più persone) e certo si sarebbero fatti vivi tra breve, chiunque fossero. Enoch non sapeva come difendersi dalla minaccia, bisognava che arrivasse il momento. Ma sapeva che era inevitabile: in tutti quegli anni aveva sempre sentito che prima o poi sarebbe successo. Anzi, c’era da meravigliarsi che non si fosse già verificato.
Ne aveva parlato a Ulisse il primo giorno che si erano conosciuti: lui era seduto sui gradini del portico e ricordava tutto come se fosse ieri.